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Il ritorno del fuoco sacro in occidente. Lavinium

di Alessandro Giuli - 30/04/2008

Passeggiata archeologica nell'Urbe fondata dal pio Enea dopo il sacrificio della scrofa. Lì dove il Sole si sposa con Venere.


In queste due pagine ricomincia la favola dedicata alla storia delle origini romane. Siamo ancora sulle spiagge laziali dove il mito ha preso forma storica. Dopo il primo incontro, nel giorno di Terminus (23 febbraio), il giovane Lucio torna a trovare il proprio maestro Pomponio e tra i due si riannoda il dialogo su Enea, sugli Dei, sul Sole.


MMDCCLXI ab Vrbe condita
Ante diem quartum Kalendas Maias
FLORALIA


Nella ricorrenza delle feste Floralia, compiute le offerte alla Madre dei Fiori, Lucio Giulio Glanico raggiunge il viridarium del proprio maestro Giulio Pomponio Leto. L’Hora sesta si è ormai schiusa come corolla sul giardino verdeggiante che si apre a pochi piedi dal tempio di Apollo e dal teatro di Marcello. Tra non molto sarà l’ora di Pan, il sole del mezzogiorno già signoreggia sulle aiuole di narcisi e giacinti. Non distante dal melograno, due cespugli di mirto e di verbena circondano alcuni fasci di rose dai colori porpora e oro addossati a una colonna dalla quale pende un disco di terracotta dipinto come le rose e con sopra incisa l’immagine di un amplesso tra un Dio barbato, seduto immobile, e una Dea avvinta ai suoi fianchi con sinuosa voluttà. Oscillando al soffio residuo del mattutino Borea, in attesa dei primi sussurri del più dolce Favonio, il disco mostra nel retro un’iscrizione che non sfugge a Lucio:
ROMA-AMOR-POME-EPOS-ROSA

Giulio Pomponio Leto – Vedo che sarà per me una bella giornata, Lucio, tu sei arrivato e la Dea che abbiamo voluto invitare nella nostra compagnia ha assicurato la propria benevolenza spandendo ovunque un desiderio primaverile; giacché nel mese di aprile, e massimamente in queste ore, gli alberi così come gli altri prodotti della terra cominciano ad aprirsi in germoglio. Oggi nei riti pubblici si onora la Madre Flora sotto il segno della gaia licenziosità e, alle spighe smeraldine da te offerte sull’altare, si accompagnano i giochi di Afrodite celebrati nei campi dai tuoi fratelli maggiori con le loro coetanee. Ma tu, Lucio, ai lacci di Amore anteponi ancora la ricerca privata del più autentico significato di queste feste. La fiamma di Eros, al momento opportuno, farà di te un Eroe. Un adulto. Ma vedo che il mio parlare eccede la giusta misura, sicché mi taccio dopo aver bruciato ancora un grano d’incenso a Flora: “Madre dei Fiori spargi, ti prego, i tuoi doni nei nostri petti”.

Lucio Giulio Glanico – In effetti è così, Pomponio. Lascio che i più grandi cingano le proprie tempie di ghirlande intrecciate e sciolgano danzando al calore del vino i capelli muliebri avvolti in fili di tiglio. Sono qui per raccogliere insieme con te i raggi della nostra ultima conversazione sul Castrum Inui, il luogo dove templi e altari testimoniano il ritorno del Fuoco sacro in occidente sotto le sembianze del pio Enea.

Pomponio – Molte luci furono da noi accese discorrendo intorno al santuario del Fauno/Inuus, del giovane Sole caprino venerato accanto alla sposa Venere. Ne ricavammo, ricorderai, la vivida immagine del ceppo di marmo con il capo di Augusto aureolato come l’astro diurno e alimentato dalla folgore notturna del Padre Ve(d)iovis. Adesso dimmi, Lucio, dove credi che possano condurci quei raggi di cui mi hai parlato.

Lucio – A Lavinium, Pomponio, la città latina nella quale Enea ha celebrato i riti e fondato l’Urbe arcana riconosciuta da Roma come Patria dei propri Penati. Nel giorno di Terminus, rammento, adombrammo in Castrum Inui l’asilo del fuoco e in Lavinium la sua prima dimora circolare come il tempio di Vesta. Proprio lì, dove gli alti magistrati romani sacrificavano all’inizio e al termine della loro funzione, io sono tornato nel quindicesimo giorno che precede le Kalendae di maggio, il diciassettesimo di aprile. L’ho fatto incoraggiato dalla studiosa che sovrintende alla custodia del Latium Vetus, Marina Sapelli Ragni, la quale ha approvato la volontà di visitare in sequenza “le città gemelle” Inuus e Lavinium – proprio questo ha detto: “Città gemelle” – e ha disposto che fossi accompagnato dall’archeologa Stefania Panella. Così è stato, Pomponio, e nel nome della mia ospite Stefania – Stephanè, diadema – era forse implicito il fausto auspicio di un collegamento circolare tra le vestigia della nostra ricerca.

Pomponio – Farei oltraggio ai Numi, Lucio, se negassi di essere felicemente pervaso da un’onda di curiosità. E forse non diverso oltraggio recheresti tu agli Dei se volessi mostrarti reticente verso questo mio impulso. Dunque racconta.

Lucio – Dici il vero, Pomponio. Tuttavia consentimi d’introdurre la narrazione nel modo più appropriato, perciò lasciamo che sia non la mia voce, ma quella del vate Omero a indirizzarci nella Selva Laurentina assieme a Enea fuggente da Troia in fiamme: “Il Fato ha stabilito che egli si salvi, affinché non rimanga priva di discendenza e non perisca la stirpe di Dardano che Zeus amò più di tutti i suoi figli nati da donne mortali. Adesso che il figlio di Crono ha preso in odio la stirpe di Priamo, il fortissimo Enea regnerà sui Troiani e i figli dei suoi figli e coloro che verranno dopo”.
Preceduta da un topografo, Francesco Graziani, uomo legato alla terra, Panella mi ha condotto nel santuario delle XIII are, che in realtà sono XIV. Ma prima ho dovuto superare lo sconforto di vedere la zona circostante assediata dalla barbarie di cemento: costruzioni senza anima circondano il pianoro soprastante dove il Foro accoglie i forestieri, il tratto di mura maculato dall’erba; grattacieli e centri commerciali soffocano perfino il tratto di costa dove il fiume Numico compie il proprio destino accanto al sacello eretto al Padre Enea quale Sole Indigete. E tuttavia la visione delle are dispone subito alla contemplazione di un mistero: i tredici altari di tufo a forma di C, secondo l’archeologa “d’influenza magno-greca forse mediata dall’Etruria attraverso Capua-Cuma”, solcano Tellus da nord a sud e guardano nella direzione del sole nascente. Ignoravo che gli altari fossero gialli e rossi come il fascio di rose che in questa giornata orna il tuo giardino, Pomponio, sapevo che non sono stati eretti nello stesso periodo ma seguono un arco di tempo che va dal VI al III secolo avanti l’èra volgare. Bisogna immaginarseli quasi tutti contemporaneamente fumiganti di sacre essenze, alimentati dai duci di ciascun popolo latino, costeggiati da un edificio sacro nel quale i pellegrini venivano accolti e purificati. Bisogna immaginarseli, almeno io così ho fatto, come i gradini ciclopici di una via sacra che congiunge il santuario di Giove Laziale sul monte Albano con quello marino del Sol Indiges passando per le acque sulfuree dell’antro di Fauno, lì dove al re Latino fu predetto dall’oracolo il matrimonio di sua figlia Lavinia col Padre Enea. Del resto è verso nord, è verso l’origine vulcanica della tradizione nostra che guarda la quattordicesima ara. E’ orientata dunque secondo l’uso tirrenico, dice l’archeologa evocando i potenti Etruschi: “Bisogna capire quali città della Lega Latina erano in contatto con loro, se non direttamente inserite in un’alleanza etrusca. E potrebbero anche esserci altre are ancora da scavare, oltre a queste trovate da Ferdinando Castagnoli”. Panella è “convinta di un collegamento diretto con l’Etruria”. E non mi hai forse insegnato tu stesso che nelle labbra serrate dei vetusti Tirreni, primi discendenti dei progenitori Pelasgi, è racchiuso il mistero delle nostre origini?

Pomponio – Dici bene, Lucio, e al termine di questa giornata ci sarà forse più chiaro il legame occulto che fa di Enea, al contempo, l’eroe divino generato dalla Alma Venere e un sigillo immateriale del quale poteva fregiarsi soltanto il maggiore fra i re tirrenici. Ma ancora è presto, il sole saetta nel pieno delle sue forze. Approfittane, Lucio, prosegui.

Lucio – Siamo quindi entrati nell’Heroon di Enea, la tomba del capostipite poco distante dalla zona degli altari. Gli studiosi sostengono che il collegamento tra i due luoghi sacri non sia ancora stato del tutto compreso, pensano che il tumulo sia molto antico (non quanto Enea però) e che sia stato monumentalizzato nel VII secolo avanti l’èra volgare. E’ certo tuttavia che i Romani vollero indicare lì, e non altrove, il luogo in cui venerare i Mani del progenitore. Panella è innamorata di questo sito, si vede, si rammarica volgendo lo sguardo verso l’acropoli: “Da dieci anni non si scava più nel Foro e nell’abitato”. Il terreno circostante appartiene al principe Borghese che reclama dallo Stato il premio di rinvenimento per le vestigia dissotterrate: “Quest’anno il contenzioso andrà a sentenza e forse la situazione si sbloccherà. Noi vogliamo fare di quest’area il principio di un Parco archeologico dell’Eneide”. Sono parole di miele per chi abbia radici, gli sradicati tremeranno invece nel timore di dover arrestare l’avanzata del cemento che li arricchisce. Ma questa storia del Parco, Pomponio, tu l’hai già ascoltata dalle mie labbra nel giorno di Terminus, quando ti dissi del milite rutulo che se ne sta occupando parallelamente, Giosuè Auletta. Quel che non sapevo, ma ho appreso da poco, è che il primo archeologo a formulare l’idea del Parco virgiliano fu Giuseppe Lugli nel 1935 dell’èra volgare, in un periodo storico nel quale Roma osò rinascere, come tu mi hai insegnato. Da allora, però, nulla se non caseggiati e speculazioni.

Pomponio – Non è questo il giorno per velare gli occhi di sconforto, Lucio, pensa piuttosto a quel che rimane di vivo nella Selva Laurentina; pensa a Lavinium e al Castrum Inui appena riscoperto. Una legge sottile fa sì che la sacertà antica si salvi da sé, servendosi di uomini a volte pii a volte semplicemente ambiziosi e incoscienti di asservire la propria vanagloria a più alti disegni. Piuttosto, ammetterai che la gemellarità delle Urbi di cui parliamo evochi quella dei Dioscuri, di Castore e Polluce, secondo il mito figli di Zeus (nelle fattezze del cigno) e di Leda, nonché fratelli della bella Elena dalle braccia candide, il cui amore per il frigio Paride infiniti addusse lutti agli Achei e ai Dardanidi. Non hai nulla da dirmi, al riguardo?

Lucio – Ciò che già sai, temo. Non molti anni fa, fra le XIII are fu rinvenuta una lamina arcaica in bronzo dedicata appunto ai Dioscuri.
Recita così: “CASTOREI: PODLOVQVEIQ/ VE QVROIS”.

Pomponio – Fa’ attenzione Lucio: ricorderai quali sono le insegne attraverso le quali, nei rilievi marmorei e sui vasi o sopra le monete, sono indicati i Dioscuri, non è vero?

Lucio – Certo, quando non sono al galoppo sui loro cavalli, o questi non li accompagnano mansueti, i Dioscuri si riconoscono nel segno delle doppie anfore, o delle doppie porte sotterranee chiamate Dokana. Altrimenti per il cappello a cono chiamato pilos, lo stesso di Efesto ma sempre raffigurato in coppia; ovvero per la presenza di una doppia stella.

Pomponio – Dici bene. Metti da parte tutto il resto e fissa l’attenzione sulle stelle, ma prima tieni a mente che il berretto frigio calato sulla testa dei Troiani, o sul capo dell’Invitto Mithra, forse non è altro che un pilos morbido e perciò ricurvo su di sé. Però restiamo con gli occhi rivolti al cielo che ci sovrasta, lo stesso cielo che come una veste di gloria accoglie il Dio uccisore del toro. Non avrai dimenticato, Lucio, che più d’una volta abbiamo ricondotto la figura di Alma Venere alla stella del mattino posta dagli Dei come segnacolo del risorgente sole: Fosforo, o addirittura Venus/Lucifero. E non ti sarà sfuggito dalla memoria che la stessa Dea viene avvicinata per similitudine alla stella posta dagli Dei a compimento del tramonto solare: Espero, da cui prendono il nome le Esperidi custodi dell’occidente.

Lucio – E’ così. Ma allora consentimi, Pomponio, di precedere il ragionamento lungo il quale tu mi stai avviando. Rammento che gli studiosi hanno visto negli altari di Lavinium un Afrodisium gemello a quello di Castrum Inui, sicché gli Stellati e corruscanti Gemelli si troverebbero qui in compagnia naturale con la Dea dell’attrazione nella sua altezza celeste.

Pomponio – Non soltanto Lucio, ma il tuo azzardo dimostra animo sottile. Considera tuttavia anche questo, che fra le are di Lavinio è stata rinvenuta una seconda lamina di natura espressamente rituale. Questa: “CERERE(M):AVLIQVOQVIBVS/ VESPERNAM PORO”. E’ una lex sacra, impone di offrire a Cerere le interiora degli animali sacrificati e prescrive di donare a Vesperna il porro incruento e afroditico, cioè congeniale alla fertilità. Dal che ammetterai essere tre le divinità attestate, considerando i Dioscuri il doppio volto di un ente unico, e identificando Venere nella Dea Vesperna quale “sua manifestazione stellare (e notturna)”, come suggerisce la preziosa intuizione di un autore contemporaneo, Mario Torelli. Lasciando adesso in ombra l’Alma Ceres, siamo dunque in presenza delle divinità nostre connesse al principio generativo, ma anche equoreo visto che sia Venere sia i Castores abitano volentieri i corsi d’acqua dolce e il regno salato di Nettuno. Nel caso dei Dioscuri, inoltre, la tutela si estende ai sacri confini della Patria romana che loro protessero proprio contro le insidie dei Latini sul lago Regillo, nel V secolo avanti l’èra volgare, e più di recente combatterono sul Timavo e sul Piave contro l’avanzata del barbaro austroungarico (evocati mediante il rito saturnio dell’Eroe con l’aratro). Ma in questo caso, Lucio, restringi lo sguardo alle stelle che imprimono il proprio sigillo sulla generazione. Nella voce Dioscuri devi leggere comunemente Dios-Kouroi: i figli di Zeus nella lingua degli Elleni. Il mito spartano insegna che Castore era in realtà progenie mortale del marito di Leda, Tindaro, così come la sorella Clitemnestra. Mentre sia Polluce sia Elena furono generati da Zeus, ma soltanto del maschio si conosce l’immortalità concessa dal Padre Onnipotente. Immortalità che questi decise di dividere con il mortale Castore, quando egli perì durante il duello provocato dal ratto delle fanciulle Leucippidi. Da allora, come astri solidali di emisferi differenti, soggiornano ciascuno a giorni alterni sull’Olimpo e negli inferi. Ma questo, Lucio, tu lo conosci. Voglio invece sapere se ti sei mai interrogato sulla ragione per la quale gli avi nostri, a Roma, hanno sempre prediletto la figura di Castore rispetto a Polluce, e cioè in apparenza il figlio mortale al divino, fino al punto di attingere da lui il nome comune dei Dioscuri: Castores.

Lucio – Molte volte, invero, Pomponio, ho rivolto a me stesso tale quesito. Senza mai scioglierlo, però.

Pomponio – Fa’ attenzione Lucio, a questo passo del pitagorico Evelino Leonardi che sto per citare. Si fonda su etimologie contestabili da menti scientifiche, ma tu va’ oltre e cerca di afferrare il senso di un apparente ribaltamento di funzioni assegnato nella nostra terra ai Castores e tramandato per vie secrete. Ascolta: “Come si vede dal nome, Tun-dar significa colui che batte la luce (il sole) e ha per figli Elena (Selene, la luna) e Klitemnestra, colei che piega il giorno e la notte, cioè i due crepuscoli”. Ecco, credo che non ti sfuggirà il significato venereo impresso sulla forma lunare di Elena/Selene-Clitemnestra, una specie di gemellarità astrale simile a quella dei fratelli maschi e particolarmente visibile nel fatto che proprio lei, la Luna, Venere promise come premio d’Amore al frigio Paride in cambio del pomo con il quale la sua venerea luce s’impose sulla sapienza armata di Minerva e sull’etere terrestre rappresentato da Giunone Regina. Da qui, ma è un altro raggio rispetto a quello toccato oggi, l’avversità di queste ultime al popolo di Troia e la raccomandazione che nell’Eneide il vate Eleno rivolge al nostro Indigete: “Della Grande Giunone per primo il Nume adora con preci, fa’ voti nel petto a Giunone e la potente Sovrana piega con supplici doni”. Ma a questo punto, Lucio, ti starai domandando cosa dice il pitagorico intorno ai Castores.

Lucio – In effetti è così.

Pomponio – Ecco. “Gli altri due figli di Tindaro sono Castore e Polluce detti dio-scuri, da div, risplendere, e skur, tagliare, il taglio della luce, dal giorno alla notte. E si chiamavano Kastor e Polluce. Il primo da Kas, splendere, et Ur (Ouranos), il cielo. Il cielo splendente. Il secondo da Pal, nero, e lux, la luce. La luce nera, la notte. Ne viene di conseguenza che Paride (Par, porta; id, luce), la porta della luce, l’ingresso del giorno, rapisce Elena la luna, che sparisce dinanzi allo splendore del giorno. Ed è perciò che Menelag (Menelao) è il marito di Elena: perché la radice Lag significa far giacere, e la radice Ma significa misura, da cui Mensis (Menai-mens-truationes dea). Secondo Ovidio, i Pelasgi e gli Aborigeni chiamarono la luna Ghenna come precisamente gli Albanesi dicono Henna. Nel Corpus Inscrip. Italicarum del Fabbretti […] è scritto: ‘Numi Aenei e Henna inscripti’. E’ facile il tradurre in H(l)enna”. E qui, Lucio, sarebbe bene fermarsi per ritornare alla nostra Lavinium e ai suoi culti legati alla generazione heroica. Ma non prima di aver dedicato, se credi, alcune parole al simbolo della ri-nascita eroica dei Tindaridi. Non è forse da un uovo cosmico che Elena è spesso rappresentata nell’atto di entrare nel mondo? E non sono forse presenti, a Roma e altrove, uova simili nei sepolcri degli uomini ri-generati sotto le insegne dei Dioscuri?

Lucio – E’ così, ma dovremmo forse interrogare Orfeo per attingere al significato ultimo di tale simbolo.

Pomponio – Non c’è bisogno, non adesso. Ti basterà la parola di un ermetista vissuto nel XVII secolo dell’èra volgare, Cesare della Riviera. Ascolta: “Il Leone nostro viene altresì addimandato Ovo; e ciò primieramente, perché, sì come nell’ovo sono quattro cose, intese per li quattro elementi; e sono, prima la corteccia, rappresentante la terra; la pellicola a questa congiunta, per la quale si intende l’acqua; il chiaro, che dinota l’aere; & il torlo il fuoco; così apunto in questo sono i veri quattro elementi; i quali magicamente divisi, e preparati, hanno a vedere non poca somiglianza, con le raccontate parti dell’ovo. Oltre di questo, come nell’ovo il Pollo potenzialmente si ritrova; così nell’ovo magico, non tanto l’animale, ma ’l vegetale, e ’l minerale ancora stanno celati. Fu cotal ovo avanti alla gallina prodotto, egli è il celeste Mercurio, a cui etiandio da gli Astrologi viene pur dato, non il moto circolare, come a gli altri Pianeti, ma di forma ovale; essendo così di mestieri, per la conservazione delle sue apparenze. Finalmente egli è quell’unico ovo, lasciato a terra cadere dall’innamorato Stellino; mentr’ei internamente vagheggia la radiante, & amata Stella di Mercurio. Da sì fatta voce Ovum, cavasi Cabalisticamente la presente definitione: Omnium Vetus Unicaque Materia”. Non si mediterà mai abbastanza questo passo, Lucio, ma dovrai farlo tra te e te. Di più non posso dirti se non che il numero quattro cui allude il figlio di Ermete non è altro che il numero pitagorico della generazione. Noterai quanta strada abbiamo percorso partendo da una lamina di bronzo ritrovata a Lavinium, ed è da lì che devi riprendere la narrazione.

Lucio – Lo farò, ma a questo punto non posso fare a meno di collegare la restante parte del mio racconto al principio della generazione eroica, quasi un accrescimento e messa in forma della luce originaria sprigionatasi da Fauno nel suo Castrum, e che a Lavinium acquisisce maturazione. Quello che abbiamo chiamato “ritorno del fuoco sacro in occidente”, fasciato dalle vesti frigie dei Dardanidi, mi sembra paragonabile al significato occulto del Cigno sotto le cui sembianze il Padre Zeus/Tindaro immette la propria luce nella generazione dell’uovo cosmico per poi riassorbirla nella propria unità. Sempre se è vero, come suggerisce il contemporaneo Nuccio D’Anna, che per i nostri parenti indiani “Brahma ha come veicolo di manifestazione il cigno Hamsa sul quale attraversa i vari mondi e i vari cicli di manifestazione. Ora, è notevole che la parola sanscrita Hamsa, composta da ham e da sah, sia il simbolo sonoro dei due momenti della manifestazione ciclica di cui stiamo parlando, espressa attraverso la ‘respirazione’ universale, il ‘soffio’ cosmico, l’‘anima’ del mondo: ham raffigura l’espirazione, il momento espansivo, sah, invece, è l’inspirazione, il riassorbimento nel silenzio dell’unità primordiale, anteriore a ogni determinazione o specificazione”. Ti confido, Pomponio, che questo passo mi è sceso nella mente anche quando ho potuto ammirare a Roma gli scettri del nostro imperatore Massenzio ritrovati da un’omonima della nostra Stefania, l’irrinunciabile Clementina Panella: se è vero che lo scettro imperiale è il segno visibile della potenza folgorale giovia, le due sfere in vetro verde che chiudevano in alto e in basso l’asta dello scettro di Massenzio non sono forse la figura cristallizzata della rotazione destrogira attraverso la quale l’immanifestato si sprigiona, e di quella sinistrogira mediante la quale il manifestato viene ricompreso nell’unità dal Dio Sovrano del cui lignaggio partecipa l’imperatore? E non sono forse, Castrum Inui e Lavinium, come i due globi imperiali apposti su un immaginario scettro disceso quale emanazione di Giove sulla terra laziale attraverso il Vulcano albano? Ma vedo che sorridi, Pomponio, e non so se stai incoraggiando la mia deduzione o meno.

Pomponio – Ti avvicini al vero, Lucio, rinuncia ai tuoi dubbi. Non arrestarti.

Lucio – Sicché tornerò nella Selva Laurentina e ti dirò che Stefania Panella dev’essere agita da un buon demone. Forse parlava proprio questo genio personale, cioè la sua Iuno, quando l’archeologa ha affermato la volontà di trovare il tempio di Vesta nel cuore di Lavinio, lì dove erano custoditi i Penati dell’Urbe; e sopra tutto quando ha detto che presto la statua principale della Minerva Tritonia, ora al chiuso in un laboratorio a Roma, farà ritorno nel museo di Lavinium. Con questo, Pomponio, voglio introdurre l’ultima parte della mia visita, quella al locale museo dove si viene accolti da un filmato moderno ma realizzato con amore puro. Ti riporterò le prime parole del testo che accompagna le immagini di Minerva/Iliàs: “Venite, gente libera di Lavinium. E’ di nuovo il tempo di celebrare i riti in onore di Minerva”. Ho quindi potuto ammirare le statue votive di un santuario, detto della zona orientale, dedicato alla Pallade Minerva ma di cui non rimane che una fossa votiva ricoperta di terra. Ho potuto ammirare una quantità notevole di statue in terracotta raffiguranti giovinette e fanciulli in età matrimoniale, donate alla Dea come pegno nel rito di passaggio all’età della generazione. E tuttavia la maggiore forza attrattiva era concentrata nelle statue della Dea Tritonia. Una più piccola, l’altra copia del manufatto che Panella intende riportare a Lavinium, nella sua sede naturale. Devo dirti, Pomponio, che negli occhi dei simulacri sembrava baluginare ancora una incredibile potenza.

Pomponio – E’ la potenza della Glaucopide Vergine, il verde ceruleo della prediletta di Zeus. Nessuna statua viene concepita per caso, Lucio, né si può considerare disanimata ogni forma che partecipa di una sostanza divina e pertanto l’attira a sé nel tentativo di darle corpo visibile. Dei giovani di terracotta posso confermarti che sono omaggi prenuziali offerti da maschi appena iniziati al culto di Libero Padre e del Marte patrono dei danzatori armati detti Salii, anch’essi adorati a Lavinium (sappi che in una tomba locale del X secolo avanti l’èra volgare è stato ritrovato uno scudo ancile miniaturizzato e che Virgilio rappresenta Picus con trabea e ancile); nonché da femmine viripotentes, pronte cioè all’iniziazione primaverile propiziata dalla potenza Vergine che si “snoda” e da quella Feconda che si “annoda”. Ma è questo anche un mistero di solenne durezza che possiamo soltanto adombrare: accontentati del rinvio al significato occulto contenuto dal ratto delle Sabine praticato dal Padre Romolo come ripetizione rituale del mito di Ade e Proserpina. Ora descrivimi la copia della Minerva Tritonia.

Lucio – Nella destra impugna la spada e un serpente tricipite azzurrognolo s’annoda e si snoda sul suo braccio, sullo scudo beotico appoggiato al tritone sono impressi alcuni crescenti lunari, sull’egida squamata s’affaccia la tremenda Gorgone, terrore dei mortali.

Pomponio – Hai ammirato, Lucio, una copia della Vergine Armipotens di cui parla il nostro Virgilio, e che Omero definisce Tritogeneia in omaggio al mistero della triade. Tre sono le teste della serpe come tre sono le saette di Giove. Tre sono le punte dell’asta impugnata da Nettuno e tre le teste del cane Cerbero di Ade. Sta a te rintracciare gli altri simboli, sopra tutto femminili, del ritmo ternario. Io qui posso soltanto bruciare un grano d’incenso alla Signora dei Serpenti cretese, augurandomi che sia lei, condotta dai divini Pelasgi al cospetto di Minosse, a indirizzarti nella ricerca. E con lei la Giunone di Lanuvio, Iuno Sispita, accompagnata ancora oggi dal serpente (ci arriveremo). E con loro la Minerva di Beozia, la regione greca dove si celebrano gli Dei Velati, che come il serpe attico Cecrope hanno voluto ricongiungere Minoici e Latini attraverso l’Ellade.
Ma ancora, Lucio, posso dirti questo: nel serpente devi vedere il demone del fuoco terrestre affiorato dal sottosuolo come l’anima di un eroe o di un capostipite. Così i Maggiori nostri vogliono si rappresenti nei larari per il culto domestico. Come l’immagine di “energie latenti (LARI) che risorgono alla vita (GENII) e le danno alimento (PENATI)”, secondo la magnifica definizione del nostro Giacomo Boni.
E infine medita questo, che come sai gli antichi vollero comprendere nel simulacro della Dea Tritonia il primo pegno dell’impero di Roma inviato da Giove al seme di Dardano. Ma fu una famiglia in particolare a custodirne il mistero, quella che prende il nome dal vecchio compagno di Enea chiamato Nautes. Di lui dice Virgilio che “sopra tutti Minerva Tritonia l’aveva istruito e di copiosa sapienza fatto ricco e famoso”. Nel suo nome devi leggere qualcosa di più che non un anziano consigliere del Padre Enea, se è vero quanto dice Servio. E cioè che, non la gens Iulia, ma i Nautii possedevano i Minervae Sacra. E non dice lo stesso Dionigi d’Alicarnasso, quando rivela che un Nautes sacerdote di Minerva Troiana era venuto con Enea in Italia portando con sé il simulacro della dea? Leggi dunque nella famiglia dei Nautii una funzione, Lucio, connessa con la navigazione nelle latebre equoree; e con la trasmissione gentilizia ininterrotta di una sapienza la quale, stando a quanto ci dice il pitagorico Arturo Reghini nei suoi studi sulla tradizione occidentale, sarebbe attestata perfino nella Francia rivoluzionaria. E’ il raggio di luce arcana così descritto nella terzina di uno ierofante scomparso quasi un secolo fa, Giustiniano Lebano: “Delle Sibille l’Orfica potenza./La Pallade Minerva si diceva,/ era il Palladio. L’Orfica sapienza”.

Lucio – Quanto mi dici è poco e troppo al contempo, Pomponio, giacché adesso accende in me una sete di conoscenza appagabile soltanto a prezzo d’infiniti sforzi.

Pomponio – Ma credi d’avermi raccontato tutto, Lucio, o non resta forse un ultimo e più importante argomento legato a quanto non ti è stato concesso di vedere a Lavinium?

Lucio – Dici bene. Devo ancora parlarti del santuario del Sol Indiges che si trova alla foce del fiume Numico, dove Enea compì il proprio destino tra i flutti. Quasi impossibile da raggiungere, è il luogo nel quale l’apoteosi del capostipite, come quella di Romolo-Quirino nei pressi del Volcanale romano, congiunge la sua figura a quella del Sole. Ma finora gli archeologi non hanno rintracciato alcun altare.

Pomponio – Poco male, Lucio, non abbiamo bisogno di ulteriori prove per comprendere che in quel sito è il soggiorno e il destino dell’Eroe nostro, testimoniato da una statua bronzea di Ve(d)iovis, il Nume Latino della folgore vulcanica, dissotterrata dal santuario delle XIII are. Ascolta bene, Lucio: Enea realizza la propria funzione ciclica come Sommo Padre, cioè come Summano, cioè come Summus Manium. E’ il Sovrano dei Mani della stirpe, secondo l’espressione di Guido Di Nardo. Prima di Romolo e come poi Romolo, il figlio del fallo igneo marziale, dunque del fuoco, divenuto Quirino sul colle Quirinale proprio accanto al sacello del Sole, Enea diviene ciò che è. Ma cos’è infine Enea, Lucio? Virgilio lo definisce Pater, Ingens, Bonus. E sopra tutto Magnus, pieno cioè di quel fuoco ormai divenuto celeste: Mag, da cui magistrato e magia. Quando abbandona Troia è vestito di pelle leonina, poiché come Ercole ha appena sconfitto il proprio io terrestre (la città brucia) e può indossare l’insegna della prudente maestà. Nel quarto canto dell’Eneide egli è Apollo, come il discendente Ottaviano Augusto, ma quando Mercurio Alato va a svegliarlo dal torpore che lo lega a Didone egli indossa un mantello di porpora tiria. L’intervento divino farà sì che il pio comandante, con un atto di magia, recida egli stesso le corde che legavano la propria nave al porto cartaginese. Ma non basta: il rosso del manto tessuto dalla regina Didone dovrà essere arso nell’undecimo canto sul rogo allestito per il corpo terrestre di Pallante, figlio di Evandro. Quel fuoco distrugge e purifica. Un altro mantello, quello del re troiano Priamo, Enea donerà al re Latino, aggiungendo lo scettro dell’infelice sovrano. E’ un segno di continuità e dell’obbedienza al volere di Giunone Saturnia affinché accetti la vittoria dei Dardanidi: da quel momento, con quel pegno, i Troiani diventano Latini e il fuoco si ricongiunge con la propria sede originaria. A quale prezzo, Lucio, mi chiederai. Per esempio la rinuncia a ogni caduta sentimentale, simboleggiata dalle donne invasate che Enea abbandona sui lidi della Sicilia. Soltanto in questo modo la Pietas diventa Auctoritas e questa si fa Maiestas, sicché la semplice presenza o l’assenza di Enea nel campo di battaglia può rendere invincibili o pavidi i suoi compagni. Fino alla vittoria finale su Turno, nel duello combattuto da entrambi con armi forgiate da Vulcano. Ma il guerriero rutulo è figlio dell’ardore cieco, dimentica d’impugnare la propria spada di fuoco e utilizza un ferro qualsiasi, perciò è vinto come fosse l’ultima ombra oscura del nostro eroe Indigete.

Lucio – Le mie orecchie ronzano come fossero una colonia di operose api. Ma il rumore che mi scuote sarà ripagato, credo, con stille di miele dorato.

Pomponio – E non è tutto, Lucio. Lungo la via che da Alba conduce a Lavinium, dove un tempo era un lago azzurro di acqua sulfurea, ha sede l’oracolo di cui hai detto all’inizio della nostra conversazione. Quello del Nume padre di Latino, Fauno di stirpe saturnia. Oggi l’oracolo parla ancora malgrado i demoni delle cave circostanti ne abbiano ferito la vena sotterranea; malgrado i palazzinari atei abbiano fatto lo stesso e vogliano adesso costruire sopra un uliveto sacro a Pallade, sicché dobbiamo contro di loro esclamare insieme con i Maggiori nostri: Iuppiter vos perdat.
Lucio – Così è.

Pomponio – Ora fa’ attenzione. Nei pressi dell’antichissimo oracolo, il Padre Enea è ricordato da un’iscrizione arcaica incisa su un cippo risalente alla fine del IV secolo avanti l’èra volgare. C’è scritto “Lare Aineia D(ono)”. E’ un’offerta votiva per il seme di Dardano sotto forma di Lar familiaris, progenitore della stirpe. Non avrai dimenticato, Lucio, che la parola Lar viene dall’etrusco Las, da cui le divinità oltretombali femminili chiamate Lase. Ecco il legame in più con i padri Tirreni. Un pelasgo ti direbbe che Enea è il Laerte dell’Itaca chiamata Lavinium e fiorita a Roma come figlia di Flora. Ma non è solo, Enea, accanto a lui ci sono altri tre cippi dedicati alle Tria Fata: Parca, Nona e Martia, che Plinio definisce come le Sibille nostre (rammenta la frase di Lebano) e che a Roma trovarono asilo tra la Curia Giulia e il Comizio, accanto al sepolcro di Romolo/Quirino e di Faustolo, alle statue dell’etrusco re Porsenna e di Orazio Coclite (o Ciclope). Né deve sfuggirti, Lucio, che l’imperatore Massenzio da te evocato proprio in quel luogo del Foro romano, dove l’oracolo si accompagna al prodigio del fuoco, volle erigere la base marmorea in onore di Marte e dei fondatori dell’Urbe. Ora ti è chiaro, Lucio, chi è Enea?

Lucio – Non negherò, Pomponio, che nelle tue parole è racchiuso il senso di una verità tonante. E tuttavia, se la mia domanda non ti giunge inopportuna, dimmi se non sia a questo punto conveniente riconoscere in Enea il punto divino che congiunge il tempo mitico e quello storico della gente nostra.

Pomponio – La tua domanda è sensata, Lucio. Per ciò che è lecito svelare ti risponderà il nome di Enea così come lo trovi scolpito in uno specchio etrusco nel quale egli è chiamato EINA, cioè AINE, cioè IANE: il Padre Giano. Come questo guarda il passato e il futuro con il proprio duplice volto, così Enea è il suo eterno e attivo presente sospeso tra la Dardania di ieri e l’Italia di domani simboleggiate nelle pitture e nei bassorilievi dalle figure di Anchise (Troia) e di Ascanio/Iulo (Alba/Roma) che gli sono accanto. Il passato, nelle sembianze del padre, grava sulle spalle dell’eroe. Il futuro gli è accanto con le fattezze filiali. Non per caso Dionigi di Alicarnasso ci dice che Enea fu il primo nome arcano del Gianicolo, il colle dell’Inizio. Ma ora noto sul tuo volto, Lucio, un sorriso illuminato dall’ultimo raggio di sole nel primo giorno dei Floralia. Non era dai raggi di Castrum Inui che eravamo ripartiti nel nostro viaggio?

Lucio – E’ così, Pomponio, e la mia gratitudine nei confronti di Flora pareggia a stento la potenza del discorso che riempie ora il mio animo.

Pomponio – Ma non essere avaro di riconoscenza nei confronti della Dea, Ella potrà donarti un giorno il Fiore inestinguibile. Lascia invece che ora io mi congedi da te con questo dono ricavato da Cesare della Riviera e dedicato, come un carme, a Flora: “Il colore verde è simbolo dell’anima vegetativa, e dell’universal Natura insieme; laonde gridava quello antico Hero: O benedetta viridità, la quale tutte le cose generi: Poiché realmente non può farsi generatione, non pure de’ vegetali, & animali, ma né anco de’ metalli, ch’ivi non sia il verde colore”. Nato dall’amorevole grembo di Venere e dal potente seme del mortale Anchise (zoppicante come il fuoco terrestre adombrato dal suo archetipo, il greco Efesto), Enea si realizza nel biancore dell’apoteosi solare. Nel suo trionfo splende il Verde di Flora venerea, il Bianco del Sole gioviale, il Rosso di Marte vulcanico. Splende il tricolore nostro. Con questo ti saluto, Lucio. Vale.

Lucio – Vale.