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Rifugiati iracheni in Egitto, la tragedia mai riconosciuta

di Karen Maron - 30/04/2008

 


 


È scappata da Basora tre anni fa. Il suo nome figura in una lista della morte, insieme a quello dei suoi figli, di una milizia della zona. Ha visto come uccidevano il suo sposo, che aveva lavorato per il Partito Baaz e il dolore le impedisce di comunicare. Teme la gente. Vive in un appartamento di due stanze nel quartiere Sheik Said de Il Cairo, senza mobili e l’unico ornamento delle loro pareti scolorite è un ritratto del suo amato.
Lei ha paura. Non vuole foto, fa fatica a parlare e sta costantemente male. Non vuole dire il suo  vero nome, ma si fa chiamare Nadua. Soltanto i suoi figli, Ilaf,un giovane ingegnere petrolchimico che non trova lavoro in questo paese, e l’adolescente Mustafah, orgoglioso della sua maglietta del Real Madrid, accettano di farsi riconoscere.

Parte della sua famiglia si trova nella sua città natale, la seconda in quanto a importanza dopo Bagdad e principale porto del paese, dove è nato l’immaginario Simbad il Marinaio de Le Mille e Una Notte, ma non ha loro notizie. Non sa come stanno, ma ciò di cui è sicura è che non tornerà mai nel suo amato e lacerato Iraq. «Nessuno si cura di noi qui, siamo rifugiati invisibili», dice questa donna di circa quarant’anni dietro una hijab nera che copre la sua testa e parte del suo volto. Indaghiamo nelle sue penurie, quando è arrivata a Il Cairo è stata derubata da una irachena che le ha sottratto i suoi ultimi 10.000 dollari, lasciandola in miseria.

Nadua è una dei 150.000 rifugiati iracheni che si trovano tra Il Cairo, Alessandria e altre città più piccole, che scappano dalla morte, dai sequestri, dalle torture e dagli attacchi militari. È una di coloro che hanno perso quasi tutto. A partire da suo marito, all’identità, alla salute e alle proprietà.  E nonostante Shams, un’impresaria di Bagdad, divorziata e con un bambino di dieci anni, le abbia dato lavoro e amicizia invocando «tutti qui siamo una grande famiglia e ci aiutiamo tra noi», la vita di Nadua è cambiata per sempre.

È una che si aggiunge al gran numero di rifugiati iracheni che hanno sofferto sconvolgimenti psicologici, provocati dalla violenza settaria che li ha obbligati a fuggire dal loro paese. La dottoressa Ahlam Tobia, che lavora con i rifugiati in questa città, avverte del fatto che sono molti quelli che soffrono di problemi psicologici o relazionati allo stress, che deviano in complicazioni cardiache e in altre malattie. «Lo stress causato dalle cattive notizie e dalla mancanza di opportunità lavorative o educative ha incrementato la percentuale di attacchi di cuore e di persone con il diabete», assicura la specialista.

Espone casi di donne che hanno perso la parola dopo situazioni si shock, di bambini con problemi di crescita e di giovani che stanno perdendo i capelli o la vista. Inoltre, esplicita che i bambini soffrono di malattie poco comuni, che mette in relazione con i residui radioattivi usati nel conflitto tra Iraq e Iran e durante la prima Guerra del Golfo, cosa che innalza il numero di malattie congenite rispetto ad altre comunità di rifugiati.

La crisi che nessuno vede

Dal 2001 sono iniziati ad arrivare iracheni a Il Cairo, ma dopo l’occupazione e dopo i bombardamenti di Samara del 2006 è diventata un’invasione. I primi, dopo la caduta di Saddam, erano per la maggior parte sunniti, ma anche adesso vi si trova un numero significativo di iracheni sciiti e cristiani; fanno parte dei più di quattro milioni e mezzo di sfollati interni o rifugiati in altri paesi, ciò sta provocando una catastrofe umanitaria senza precedenti dalla Seconda Guerra Mondiale. 

Oltre a causare la morte violenta di più di un milione di iracheni su una popolazione di 26 milioni, secondo i dati forniti dalla rivista britannica «The Lancet», più di due milioni di persone si sono viste spostare all’interno del loro paese, mentre altri due milioni sono disseminati, fondamentalmente, nei paesi vicini; si calcola sui  60.000 la media mensile degli iracheni che hanno abbandonato il loro paese.

Considerati «come danni civili collaterali», centomila famiglie irachene danno vita oggi a una diaspora obbligata, mentre la comunità internazionale ignora la crisi umanitaria creata dall’occupazione statunitense.

«Quando le truppe di occupazione hanno abbattuto Saddam, abbiamo festeggiato con gioia. Ma poi, la vita è diventata un autentico calvario» riferisce stanca Azhar, vicina di Nadua. Il festeggiamento per la caduta di Saddam Hussein, che ha avuto sul patibolo nel 1971 suo marito nel denominato The Palace of The End, lo scantinato del palazzo nel quale è stato assassinato il re Faisal II nel 1958, è durato poco tempo. La crescita delle milizie armate che lottano per potere e territorio, rubano case e sequestrano, le ha confermato che il caos era iniziato.

«Non c’era modo di stare lì. La violenza era intollerabile. In verità l’Iraq è dominato da gangsters. Quando le milizie hanno iniziato a operare, uno non si poteva difendere ed è iniziata l’insicurezza. E inoltre non c’è luce, acqua, soltanto sequestri e morti», afferma Azhar. Questa situazione l’ha obbligata, un’ispettrice di scuola, a istallarsi a Il Cairo, anche contro il suo volere. Suo marito, un raffinato ingegnere petrolchimico nato a Basora e di origine persiana, che ha perso il 70% della vista dell’occhio destro a causa delle torture, la accompagna, insieme a sua figlia Fatima, di 24 anni, che studia Cinema e Arte.

Azhar è una privilegiata ad aver ottenuto un lavoro in un’impresa internazionale perché il Governo  egiziano  conferisce ai rifugiati una residenza che devono rinnovare ogni sei mesi, ma non permette loro di lavorare legalmente né di mandare i loro figli in scuole pubbliche, emarginandoli dalla vita economica e sociale.

Una condanna in più alle vittime di una catastrofe che è iniziata cinque anni fa e che si profila possa durare ancora per anni in una crisi che ha scatenato il maggior spostamento in Medio Oriente dal 1948.





Originale da: Gara.net

Pubblicato anche da Rebelion

Articolo originale pubblicato il 27 aprile 2008

L’autore

Giorgia Guidi è membro di Tlaxcala, la rete di traduttori per la diversità linguística. Questo articolo è liberamente riproducibile, a condizione di rispettarne l'integrità e di menzionarne autori, traduttori, revisori e la fonte.

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AUTORE:  Karen MARON

Tradotto da  Giorgia Guidi