Il supermercato della mercificazione
di Bernard Cassen - 19/01/2006
Fonte: Il Manifesto
Wto alla fine del ciclo
Dopo Seattle (1999), Doha (2001) e Cancún (2003), in programma c'è Hongkong (13-18 dicembre 2005), l'ultimo tra i caravanserragli in cui ministri, delegati ed esperti degli stati membri (attualmente 148) dell'Organizzazione mondiale del commercio (Wto, World Trade Organization) vengono a bivaccare ogni due anni per aprirvi i loro bazar e mercanteggiare. Mercanteggiare sulla mercificazione - detta ufficialmente «liberalizzazione» - di tutte le attività umane. Perché questo è propriamente il filo rosso che lega i negoziati per l'Accordo sull'agricoltura o Asa (si legga l'articolo di Jacques Berthelot), per l'accesso ai mercato dei prodotti non agricoli (Namas nella dizione inglese), per l'Accordo generale per il commercio dei servizi (Agcs) (l'articolo di Frédéric Viale) e per l'accordo sugli Aspetti dei diritti di proprietà intellettuale (l'articolo di Alain Lecourieux). In questa fiera di affari in cui le concessioni su un dossier devono essere compensate da vantaggi su altri, l'obiettivo dei più potenti è la ricerca del profitto e della redditività delle loro imprese, senza la minima preoccupazione sociale o ambientale. Per la quasi totalità dei più poveri è in gioco la stessa sopravvivenza economica. Intanto cresce l'incertezza sulle virtù del «libero scambio» (si veda in questa pagina l'articolo di Bernard Cassen). Un contadino latino-americano, con poncho e sombrero, accovacciato, prostrato, con la schiena girata contro un enorme mappamondo che sembra sul punto di travolgerlo e schiacciarlo, ma che potrebbe anche, al contrario, servirgli d'appoggio, illustra il titolo di copertina di un recente numero del settimanale ultra-liberista britannico The Economist (1): «Stanco della mondializzazione». Qualche giorno dopo, questo settimanale sarebbe potuto uscire con un titolo ancora più accattivante - «Ucciso dalla mondializzazione» - evocando la morte di un agricoltore sud-coreano, Chung Yong-bum, che si è suicidato ingoiando un erbicida per protestare contro la liberalizzazione dei mercati agricoli che condannano alla rovina e alla scomparsa i picccoli produttori della penisola. Lo sfortunato era sindaco di un piccolo comune vicino a Pusan, dove, qualche giorno più tardi, il 18 e 19 novembre, avrebbe avuto luogo il vertice del Forum economico Asia-Pacifico (Apec), struttura intergovernativa regionale che non ha nulla da invidiare all'Organizzazione mondiale del commercio (Wto) per quanto riguarda l'esaltazione del libero scambio.
I buoni titoli, quelli che riescono a cristallizzare in poche parole un momento significativo, a volte la dicono lunga. È il caso di quello che attira l'attenzione sulla morte di Chung: «La rabbia dei contadini sud-coreani contro il liberismo non inquieta il Forum Asia-Pacifico (2)» (cfr. l'articolo di Jean-Claude Pomonti a pag.4). Non avremmo avuto dubbi... The Economist, nel sottotitolo dell'editoriale, aveva in un certo modo fornito una giustificazione morale anticipata ai capi di stato e di governo riuniti a Pusan con superba indifferenza nei confronti della popolazione: il contadino andino «stanco della mondializzazione» si sbaglia completamente; non si rende conto che «la liberalizzazione del commercio e altre forme di apertura sono più necessarie che mai».
Stop all'Alca Abbiamo qui un condensato della situazione alla vigilia della conferenza ministeriale della Wto a Hongkong: le popolazioni contestano, addirittura rigettano, un neo-liberismo in cui il libero scambio è il dogma centrale; i dirigenti politici mercanteggiano tra loro ad insaputa dei popoli; i rappresentanti delle istituzioni finanziarie internazionali, i dirigenti delle multinazionali (3), i grandi media spingono a «sempre più» liberalizzazione. «Salvare Doha» a Hongkong - impresa che sarà difficile realizzare, visti gli interessi contraddittori in gioco, in particolare in agricoltura - è diventata la parola d'ordine comune.
La drammatizzazione della scadenza del dicembre 2005 non è mera tattica.
Il ciclo dei negoziati commerciali su tutti i fronti avviato a Doha - sede della conferenza del Wto nel 2001 - deve imperativamente concludersi prima del dicembre 2006, poiché nel giugno 2007 termina l'autorizzazione data dal Congresso statunitense a George Bush per negoziare accordi commerciali che poi vengono sottoposti al voto dei parlamentari senza possibilità di emendamenti: è la famosa «via rapida» (fast track).
In mancanza di un accordo a Hongkong, Bush non è per nulla sicuro di ottenere il rinnovo di questo atto di fiducia. E i dodici mesi del 2006 non saranno troppi per dare forma agli eventuali arbitraggi decisi a Hongkong. Il contesto non è veramente buono per i paladini del libero-scambio.
Hanno appena incassato un insuccesso spettacolare al IV Summit delle Americhe che si è svolto il 4 e 5 novembre a Mar del Plata (Argentina).
Per la prima volta nella storia di questi appuntamenti, gli Stati uniti non sono riusciti a far prevalere il loro punto di vista sulle liberalizzazioni oggetto di trattative al Wto e, ciò che è ancora più importante, nella Zona di libero scambio delle Americhe (Alca).
Bush, messo di fronte alla determinazione del presidente venezuelano Hugo Chávez, appoggiato dai suoi omologhi del Mercosur (i presidenti di Argentina, Brasile, Paraguay, Uruguay), non è riuscito ad ottenere che venisse fissata una data per la ripresa dei negoziati sull'Alca, che Chávez ha dichiarato «seppelliti».
Il progetto dell'Alca, combattuto dalla totalità dei movimenti sociali del continente, è l'estrapolazione su scala di tutto l'emisfero, dell'Accordo di libero-scambio nord-americano (Nafta), che raggruppa Canada, Stati uniti e Messico e di cui gli agricoltori messicani subiscono le devastazioni. Certo, Washington moltiplica i trattati bilaterali per ottenere in tête-à-tête ineguali ciò che i suoi negoziatori non sono riusciti ad ottenere in una sede multilaterale, ma la solidarietà di cui hanno dato prova i paesi del Mercosur, nella cui compagine entrerà il Venezuela alla fine del 2005, è ormai un fattore con il quale gli Stati uniti devono fare i conti.
Nell'ottobre scorso, il voto della Convenzione sulla protezione e la promozione della diversità delle espressioni culturali da parte della 33esima Conferenza generale dell'Unesco è stata un'altra sconfitta per gli Stati uniti (i soli ad opporvisi, con Israele) e per le tesi libero-scambiste (4). La convenzione istituisce una co-tutela degli scambi culturali internazionali con il Wto, che era fino a quel momento la sola istanza di regolazione - nei fatti, di deregulation - anche in questo campo. Anche se nulla è definitivamente acquisito - Washinghton tenterà di sabotare la ratifica di questo testo nelle capitali più vulnerabili e nessuno sa come verranno risolti i conflitti tra le regole del Wto e quelle della convenzione - resta comunque il fatto che un settore sfugge ormai ufficialmente alle sole «discipline» delle mercificazione generalizzata, che l'incontro di Hongkong ha per obiettivo di mettere in opera.
Le persone che operano nel settore culturale, che si sono mobilitate mettendo in moto le reti di relazioni per spingere i governi a votare a favore della convenzione, non sono le sole a mettere in evidenza i pericoli del libero-scambio. In Europa e al di là di essa, a livello locale sta nascendo una resistenza contro l'Accordo generale sul commercio dei servizi (Agcs). Numerosi sono gli enti locali che si dichiarano «fuori» o «contro» l'Agcs e che reclamano una moratoria sui negoziati al Wto.
All'interno dell'Unione europea (Ue), l'Austria, il Belgio, la Spagna, la Francia, la Gran Bretagna, l'Italia e, più di recente - e in misura minore - la Germania sono investiti da questo movimento. Il 22 e 23 ottobre scorso, questi paesi hanno tenuto a Liegi una Convenzione europea, nel corso della quale hanno adottato una risoluzione che esigeva, tra l'altro, il cambiamento del mandato del commissario europeo al commercio, Peter Mandelson, ai negoziati Wto, e l'esclusione dei settori più importanti dei servizi dai negoziati (5). In Svizzera e in Canada si stanno sviluppando movimenti analoghi. Grandi città - Montreal, Vienna, Parigi, Torino - si sono dichiarate contrarie all'Agcs. Particolare curioso: la sede della Wto a Ginevra è situata in un territorio dichiarato «fuori dal Wto»! Si sa meno che, negli Stati uniti, alcuni stati federali e alcune città, in seguito a una forte pressione popolare, moltiplicano le decisioni contro le delocalizzazioni e a favore della preferenza per le imprese locali in occasione degli appalti. Tutte iniziative che la Commissione europea non tollererebbe certamente nell'Unione! Tra gennaio 2003 e giugno 2005, in 46 stati federali su 50, i parlamentari locali hanno esaminato almeno un progetto di legge antidelocalizzazione: divulgazione della sede geografica scelta per insediarvi i call center, obbligo di informare lo stato prima di delocalizzare, restrizione legislative sull'invio di dati fuori del territorio nazionale, soppressione degli aiuti pubblici ecc. (6).
Per ciò che riguarda gli appalti pubblici, numerosi stati moltiplicano le clausole di preferenza relative alle imprese locali. Alcuni (Maryland, Colorado) vanno persino più lontano, esigendo dai governatori che sottopongano alla Camera e al Senato locali l'approvazione di accordi commerciali internazionali (Nafta, Wto), firmati dal governo federale (7).
Il peso di Cina e India Nel Nord, dietro queste iniziative spunta sempre più apertamente la consapevolezza che tutte le sicurezze sociali e collettive stanno esplodendo sotto la pressione di un libero-scambismo scatenato, che i paesi a manodopera a buon mercato sono i primi a rivendicare come «vantaggio comparato». Nell'Unione europea, la direttiva Bolkestein, che la commissione del mercato interno del parlamento europeo ha appena votato mantenendo il principio del paese d'origine - con restrizioni solo di facciata, che non ingannano nessuno - organizza la corsa verso il basso dei salari e della protezione sociale. Negli Stati uniti, l'ombra fatta dalla Cina (200 miliardi di dollari di deficit nell'interscambio commerciale nel 2005) e dall'India pesa su tutte le decisioni.
Queste superpotenze demografiche (più di 2,5 miliardi di abitanti complessivamente), con i loro immensi eserciti di riserva di lavoratori sotto-pagati, sono ormai in grado, a breve scadenza, di rimodellare il paesaggio commerciale della terra. Non c'è prodotto manifatturiero - salvo qualche eccezione di altissima tecnologia - la cui produzione non possa, a breve termine, essere effettuata nel quadro del «liberal-comunismo» cinese (8). Per quanto riguarda l'India, ben presto potrà produrre da sola tutti i servizi intellettuali delocalizzabili di cui il mondo ha bisogno.
Ma queste delocalizzazioni vanno prima di tutto a vantaggio delle grandi imprese multinazionali dei paesi del nord, che si insediano sul posto per poi riesportare verso i propri mercati: tra il 1994 e il 2003, esse hanno contribuito per il 65% alla crescita delle esportazioni cinesi. È per questo motivo che sono così partigiane di una «libertà» totale del commercio, la cui finalità ultima è la deflazione salariale, come dimostra brillantemente un ex esperto del Movimento delle imprese di Francia (Medef, la Confindustria francese), Jean-Luc Gréau, la cui ultima opera (9) è uno dei più implacabili atti d'accusa mai scritti contro il libero-scambio.
Quanto tempo ci vorrà ancora perché i dirigenti politici si rendano conto dell'ampiezza dell'offensiva attualmente in corso contro i lavoratori dipendenti e quindi dei problemi che dovranno affrontare quando nuovi e importanti settori della popolazione saranno, a loro volta, relegati nella periferia di una vita decente?
note:
(1) The Economist, Londra, 5-11 novembre 2005.
(2) Le Monde, 21 novembre 2005.
(3) The Financial Times ha pubblicato nel numero dell'8 novembre 2005 un appello firmato da Jean-René Fourtou, presentato come presidente del consiglio di sorveglianza di Vivendi Universal, e da altri rappresentanti del gotha internazionale degli affari, che ingiunge ai governi di trovare i compromessi necessari per salvare il sistema del commercio multilatarale «che tanto ha fatto per alzare il livello di vita nel corso dell'ultimo mezzo secolo».
(4) Cfr. Armand Mattelart, «All'Unesco una battaglia per la diversità culturale», Le Monde diplomatique/il manifesto, ottobre 2005.
(5) La risoluzione di Liegi del 23 ottobre 2005 è consultabile sul sito http://www.agcs-gats-liege2005.net/download/resolution_FR.pdf
(6) In 11 stati diversi, 11 misure sono state definitivamente adottate.
In 7 stati, 9 decreti sullo stesso argomento sono stati varati da 7 governatori.
(7) Tutti questi dati sono stati ripresi dallo studio molto documentato di Jean Duval, «L'Amérique, ses règles, ses protections», pubblicato in La Lettre de Brn, n.16, 7 novembre 2005.
(8) Cfr. Philippe Cohen e Luc Richard, La Chine sera-t-elle notre cauchemar?, Mille et une nuits, Parigi, 2005.
(9) Jean-Luc Gréau, L'Avenir du capitalisme, Gallimard, Parigi, 2005.
(Traduzione di A. M. M.)