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Il privilegio della lentezza

di Alberto Campo - 30/04/2008

 
Siamo a Cherasco: zona da lumache, simbolo della lentezza. E non a caso nella guida alle Osterie d’Italia l’icona della chiocciola designa i luoghi in cui maggiore è la piacevolezza slow del pasto. Tra questi c’è La torre, beniamina dei curatori di questa rivista. Si capisce subito perché: ambiente sobrio, accoglienza cordiale ma non invadente, cucina genuina, che si regola su ciò che si trova stagionalmente al mercato.

A gestirla sono i fratelli Falco: Marco ai fornelli e in sala Lele (che, fosse ancora vivo, Pasolini recluterebbe senza esitazione nel cast di un suo film). Si è deciso che posto migliore per darsi convegno coi Marlene Kuntz, originari di Fossano e residenti ora a Cuneo, non c’era. Partendo proprio da quell’idea di “lentezza” a cui alludevamo poc’anzi: denominatore comune fra loro e Slow Food.
La svolta stilistica che ha ridislocato l’identità del gruppo dall’ambiente rock all’alveo della canzone d’autore, trapasso testimoniato dall’eccellente disco edito lo scorso anno, Uno, era cominciata nel febbraio 2006 con una serie di concerti chiamata S-low Tour, sfociata mesi dopo nell’omonimo album dal vivo. A introdurre la musica, nel libriccino allegato al cd, era un testo di Alessandro Monchiero: «Marlene e Slow Food si sono incontrati, con la voglia di scarabocchiare insieme una ricetta, un piatto a più mani che fosse un’armonica sinfonia delle rispettive spezie (…) Noi ci abbiamo messo un po’ di Terra Madre, un po’ di osterie d’Italia, la difesa dell’universale diritto al piacere e un’educazione del gusto del tutto empirica. Marlene ci ha messo tutto il resto, di penna e di musica, che trovate qui intorno».
Eccoli ora nuovamente a tavola insieme: Monchiero e Silvia Ceriani per Slow Food, Cristiano Godano e Riccardo Tesio per i Marlene. Noi – chi scrive e il fotografo – nel mezzo, cercando di portare a casa il lavoro – foto e intervista – senza farci troppo distrarre dal succedersi di vini e leccornie. Impresa ardua. Dagli antipasti (carpaccio di carne cruda, merluzzo con salsa di topinambour, una composizione di cardi e uovo con schegge di tartufo) ai primi (zuppa di ceci con costine di maiale, maltagliati ai porri) e ai secondi (lumache fritte, che altro sennò?!), chiudendo con formaggi (gran carrello di prodotti locali). Il tutto innaffiato da un Sangiovese in purezza marca Lodai (Monchiero dice che a lui qui piace bere i “vini estinti”, ossia quelli di cui sono rimaste le ultime bottiglie), una Barbera d’Alba targata Bricco del Cuculo in formato magnum e – gran finale – un Barolo Vietti del 2000.

Cominciamo da questa liaison fra voi e Slow Food: come nasce?
(C) Abbiamo molti amici e conoscenti che lavorano a Slow Food, gente che frequentavamo ai tempi del Macabre…
(R) Fin dall’inizio ne abbiamo seguito la storia con attenzione, essendo cominciata vicino a casa, a Bra, dove andavamo spesso proprio per via del Macabre. È un’idea che abbiamo apprezzato subito in tutte le sue ramificazioni: la consapevolezza di ciò che uno mangia, le catene alimentari, la biodiversità… L’abbiamo fatta nostra, anche solo per ragioni di salute: è impressionante la quantità di conservanti, antiossidanti e correttori di acidità che trovi in un banale panino dell’autogrill.
(C) La frequentazione dei giri di Slow Food è servita a rieducarci: ora siamo molto più attenti a dove e a cosa mangiamo. Ma soprattutto ci affascina da sempre la filosofia dell’associazione: apprezzo la lentezza e io stesso sono lento nelle cose che faccio. Tempo fa ne avevo scritto proprio su questa stessa rivista. In un mondo ossessionato dalla velocità, vivere con lentezza è un privilegio.

Parli di rieducazione, perché? Che rapporto avevate col cibo?
(R) Inizialmente conflittuale. A 18 anni pesavo 47 chili. Mangiavo poco, giusto perché dovevo nutrirmi, e mi sforzavo di farlo. Le cose sono migliorate ai tempi dell’università, quando ho raggiunto i 55 chili. Poi c’è stato il gruppo, abbiamo cominciato ad andare in tour e a mangiare in autogrill.
(C) Anche per me il cibo era un problema. E nella vita che faccio adesso a volte ne sento ancora l’ingombro materiale. È un difetto di noi magri, che avendo uno stomaco poco capiente dobbiamo mangiare solo quando ne abbiamo davvero voglia, qualunque ora sia, il necessario per soddisfare il bisogno di energia, uscendo dallo schema mentale del pranzo e della cena. Detto questo, apprezzo il piacere conviviale della tavola, quando è possibile mangiare con lentezza.

Eppure si dice che essere magri sia un pregio…
(C) Invece per me è stata fonte di imbarazzo: quando la gente, magari qualcuno grasso, diceva: «Ma quanto sei magro!». Sembrava ti guardassero con compassione. Forse perché alla magrezza uno associa istintivamente l’idea di povertà.
(R) Anch’io da adolescente vivevo male quella condizione. Ero troppo magro e invidiavo quelli più robusti di me, pensavo che le ragazze guardassero loro e non me…
(C) Poi però è arrivata la new wave e ha messo le cose a posto: bisognava essere magri!

C’è da immaginare che foste la disperazione dei genitori: nessun piatto domestico vi ingolosiva?
(C) C’erano quelle due o tre cose che cucinava mia madre a cui ero affezionato: ricordo degli strepitosi minestroni di verdura, una cosa che tuttora mi piace molto, tanto che quando sono in giro assaggio sempre brodi, ministre e zuppe del posto. Poi la bagna caoda, le pesche ripiene con cioccolato e amaretti o lo zabaione per tirarmi su…
(R) A me invece come ricostituente davano l’olio di fegato di merluzzo. Le cose che più mi piacevano erano gli antipasti, roba tipica piemontese come il vitello tonnato, l’insalata russa o gli affettati.

E ora, da adulti, vi capita di cucinare?
(C) No, siamo indolenti. Se non ho nessuno in casa, io esco a mangiare fuori, come il più bieco dei single. E mi rendo conto che dirlo su una rivista come questa, così attenta alle questioni alimentari, suona malissimo, ma a volte me la sfango coi quattro salti in padella. È che mi prende l’irrequietezza ogni volta che mi avvicino ai fornelli: mi viene subito da mettere su un disco o prendere in mano un libro. Però invidio chi cucina con diletto.
(R) Spesso per noi mangiare è una cosa da sbrigare in fretta: ho studiato ingegneria e sono stato educato al culto dell’efficienza, del non perdere mai tempo. E poi andare in tour col gruppo significava spesso essere di corsa e consumare al volo qualcosa in autogrill o un boccone veloce prima del concerto: roba da spaccarsi lo stomaco.
(C) E dopo il concerto io non riesco a mangiare: ho ancora troppa adrenalina in corpo.
(R) Il piacere del cibo non coincide comunque con l’idea dell’abbuffata, ha più a che fare con la qualità che con la quantità…
(C) Io invece non disdegno affatto la classica mangiata piemontese: il pranzo di Natale è un rito che adoro, come quello domenicale in famiglia o trovare una cucina semplice e ricca come quella domestica nelle taverne del Cuneese, dove neanche ti chiedono cosa vuoi ma partono subito con una raffica di cinque-sei antipasti, seguiti da due primi e due secondi. Posti con nomi anonimi tipo Osteria Roma o Trattoria Italia. Alla fine sono un tradizionalista, anche se quando sono in giro mi piace sperimentare piatti che non conosco.
(R) Il mio preferito era la Trattoria San Sebastiano a Borgo San Dalmazzo, che però adesso ha chiuso: un posto piccolo, a conduzione familiare, con la mamma che cucinava e la figlia a servire in sala.


E su scala nazionale, quale cucina preferite?
(C) Trovo che si mangi bene in Veneto e in Friuli, dove si beve Merlot, che è uno dei vini che preferisco, e in generale direi la cucina del Nord Italia. Ma ho buoni ricordi anche di certi posti sperduti in Basilicata o in Molise…
(R) A me piace molto la cucina toscana e mangiare pesce al Sud, soprattutto a Palermo, o la mozzarella di bufala in Campania, anche se a forza di girare ho finito per rivalutare la tradizione piemontese, che trovo sia varia e gustosa.

Colleghi con cui è piacevole stare a tavola?
(R) Io dico Manuel Agnelli: persona gradevolissima e buona forchetta.
(C) Concordo… E poi Giò dei La Crus, uno con cui la cena può durare ore. Piuttosto, è divertente vedere come gli stranieri non capiscano i nostri rituali: Rob Ellis, con cui abbiamo lavorato a Senza peso e Bianco sporco e che è stato con noi in tournée, rideva del tempo e dell’attenzione che dedichiamo al cibo, impostando la giornata intorno al pranzo e alla cena.
(R) Addirittura, quando siamo andati a Berlino per registrare Senza peso, abbiamo portato con noi David, il nostro ex tour manager, come cuoco…

Già che ci siamo, all’estero cosa apprezzate?
(C) Mi sono trovato bene in Ungheria, per le minestre e il goulasch.
(R) Mi piace la varietà della cucina francese e mi riprometto di andare prima o poi in Normandia, dove ancora non sono stato e di cui mi dicono un gran bene.

Sempre in tema di preferenze, parliamo dei vini…
(C) Gli italiani, senza dubbio: dovunque vai, bevi bene. Dovendo indicarne alcuni, direi Nebbiolo e Barbaresco.
(R) Anch’io, ma aggiungerei la Barbera d’Alba: è il vino che preferisco ultimamente.


Quando avete cominciato a berlo?
(R) Ho il ricordo di mio nonno che mi faceva bere il vino usando un grissino come cannuccia… Ma da ragazzo consumavo soprattutto birra, poi robe tipo gin tonic e vodka lemon, mentre anni dopo a Berlino abbiamo scoperto l’assenzio…
(C) Quella volta abbiamo attraversato la città a piedi: un’esperienza magica. Strano tipo di ebbrezza, quella da assenzio… Anch’io da ragazzo ero più per la birra e gli alcolici, whisky e rum prevalentemente, pochi cocktail, poi a un certo punto è arrivato il vino. Tempo fa, istigati da Franco Parola, un amico di Saluzzo che si occupa di formaggi, io e Ricky seguimmo addirittura un corso di degustazione. È stato utile per affinare la sensibilità: da allora bere vino è diventato anche ficcare il naso dentro il bicchiere. Ricordo la similitudine che fu fatta tra il vino e il suono di un’orchestra, l’armonizzazione e la calibratura dei singoli elementi che concorrono all’armonia finale.

Ci sono analogie fra musica e cucina?
(C) Sì, perché chi lavora sugli ingredienti per preparare un piatto alla fine crea un po’ come fa un artista. Lo racconta bene Ratatouille, per esempio: il topolino protagonista ha appunto quella missione.
(R) In fondo mangiare al ristorante non è poi così diverso da assistere a un concerto…

Qui potete scaricare il pdf dell'impaginato.
Le foto sono di Alex Astegiano. Nelle prime tre, Cristiano Godano e Riccardo Tesio, dei Marlene Kuntz. Nell'ultima, i due fratelli Falco, Marco e Lele, rispettivamente il cuoco e l'uomo di sala dell'osteria La Torre di Cherasco.