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La Primavera insanguinata

di Bernardo Valli - 02/05/2008

   
Bernardo Valli rievoca l’invasione sovietica della Cecoslovacchia, le reazioni dei praghesi e le illusioni infrante della Primavera di Praga nei drammatici giorni dell’agosto 1968.
Dopo il vertice di Bratislava, in cui i maggiori paesi del blocco sovietico sembravano aver accettato la svolta “riformista” di Dubcek in cambio della rinnovata fedeltà al patto di Varsavia, sembrava che l’invasione sempre temuta fosse stata evitata. Invece i tank russi arrivarono ugualmente. I cittadini di Praga si riversarono nelle piazze della città insultando e deridendo i soldati, ma non riuscirono a impedire il ritorno all’ortodossia sovietica del governo cecoslovacco.


Erano circa le tre, nella notte tra martedì 20 e mercoledì 21 agosto 1968, quando i praghesi furono svegliati da un rumore grave e forte, sempre più intenso. Un brontolio sordo. Sulle loro teste si muoveva il ponte aereo più importante organizzato nel cuore dell’Europa dalla Seconda guerra mondiale. Vibravano le vetrine di piazza San Venceslao, lunga come un ippodromo e dominata dall’imponente Museo nazionale che poche ore dopo sarebbe stato scalfito dai proiettili dell’Armata Rossa. Quello che sembrava un interminabile tuono echeggiava nei cortili dei solenni palazzi di Mala Strana, ai piedi del Castello di Hradcany. E investiva le facciate liberty allineate sulla Moldava e sulla stravagante via Parigi, tra il fiume e il ghetto defunto. [...]
Provati dalle emozioni delle ultime settimane, non pochi praghesi, i meno decisi, si rigirarono nel letto e cercarono di riaddormentarsi. Era evidente che la capitale era sorvolata da ondate di aerei a bassa quota, ma per loro doveva trattarsi di una manovra. Era comodo pensarlo. E non mancavano gli spunti che potevano rassicurare. La controversa, contrastata Primavera di Praga, il processo di rinnovamento comunista iniziato (o accelerato) il 5 gennaio con la nomina del riformatore Alexander Dubcek alla testa del partito, al posto dell’ortodosso Antonin Novotny, era arrivata al 204esimo giorno. E le minacce sembravano per il momento sospese se non proprio svanite del tutto. Il vertice di Bratislava del 3 agosto aveva fatto tirare un sospiro di sollievo. Riuniti a congresso, come un tribunale di ultima istanza, i capi di cinque Paesi comunisti (Urss, Bulgaria, Germania orientale, Ungheria e Polonia) avevano emesso una sentenza in apparenza assolutoria: avevano dato l’impressione di tollerare l’esperimento cecoslovacco e di non volerlo schiacciare come era accaduto dodici anni prima con lo scisma ungherese. A una sola condizione: che esso confermasse la sottomissione totale al Patto di Varsavia, ossia all’alleanza militare comunista, dominata dai sovietici.
Questa condizione annessa all’apparente assoluzione creava un’equazione irrisolvibile. Quindi esplosiva. Bratislava aveva acceso una breve illusione. Alla stessa ora, mentre i praghesi meno sensibili si agitavano nei loro letti infastiditi e impensieriti dal passaggio degli aerei, Dubcek e i suoi compagni venivano catturati dai paracadutisti sovietici nella sede del Comitato centrale. Dopo le cinque, quel mattino di mercoledì 21 agosto, al rumore del ponte aereo se ne aggiunsero altri più allarmanti. All’Hotel Esplanade, all’angolo di piazza San Venceslao, un giornalista straniero non ancora del tutto emerso dal sonno pensò a un martello pneumatico in funzione nei paraggi. Ma a quell’ora non potevano esserci lavori stradali in corso.
Quei tonfi ritmati, lenti erano quelli di una mitragliatrice pesante, attutiti dalla distanza. Quando il cronista assonnato si affacciò sulla piazza San Venceslao scoprì che era affollata come in un giorno di festa. La gente era tanta che traboccava nelle strade adiacenti. C’erano molte bandiere. Bandiere ceche di tutte le dimensioni, sventolate dalle automobili, appese alle finestre, in testa a cortei che si incrociavano, diretti verso il Museo, all’estremità alta della piazza, o nella direzione opposta, verso il fiume. [...]
La maggioranza dei praghesi non si era illusa. Era saltata giù dal letto. Non era stata tanto ottimista da pensare a una manovra militare. L’invasione era un incubo che accompagnava il Paese da mesi. Il tuono nella notte d’agosto già un po’ autunnale non aveva lasciato dubbi: l’invasione era cominciata. E subito masse di praghesi si erano rovesciate per le strade, prima ancora dell’alba, mentre si accendevano sparatorie sulle due sponde del fiume, e nella parte alta, verso Hradcany. Più che scontri armati erano spari sovietici di intimidazione. Non era la resistenza delle milizie del partito o dell’esercito nazionale che poteva fermare l’invasore.
La storia e la cultura hanno insegnato a un piccolo Paese ritagliato tra imperi prepotenti, dei quali non può contrastare la forza, quali sono le forme di resistenza consentitegli dalla ragione: l’ironia, il sarcasmo, il dialogo, la polemica. Armi spuntate quando prevale la violenza, ma che salvano la dignità e lasciano tracce ricche di sviluppi nell’attesa di tempi migliori.
Piazza San Venceslao era diventato il punto di raccolta dei manifestanti. Era in quelle ore il cuore di Praga. Clacson e voci esasperate rimbalzavano tra gli edifici dell’ampia spianata rettangolare, mentre le finestre via via si illuminavano, avvertendo che ormai tutti avevano abbandonato i loro letti, e con i letti l’illusione. [...]
L’Armata Rossa si era impossessata della città «con la rapidità di una piovra che stende i tentacoli» (si leggerà più tardi in uno dei tanti racconti anonimi di quelle ore). I russi erano sul Ponte Carlo, davanti a San Nicola, sulla piazza della Città Vecchia, davanti al monumento di Jan Hus, il teologo riformista bruciato vivo (nel Quattrocento), al quale un praghese avrebbe poi bendato gli occhi affinché non vedesse quello spettacolo vergognoso. I carri armati, i T55 e i più moderni T62, si aggiravano per la città con le torrette chiuse, senza che gli equipaggi mostrassero le facce, subendo gli insulti e gli sputi della folla. Non reagivano neppure quando alcuni giovani, rassicurati da quell’inerzia, si arrampicavano sui carri e sventolavano le bandiere cecoslovacche, come se esibissero un trofeo di guerra catturato a mani nude. L’Armata Rossa aveva l’ordine di evitare il più possibile l’uso delle armi. Ma qualche comandante perse le staffe o ricevette l’ordine di reagire. Tre autoblindo aprirono il fuoco, prendendo di filata piazza San Venceslao. Scaricarono le loro mitragliatrici, tenendo però alto il tiro, mirando al primo piano del Museo nazionale. Anche quello era un fuoco di intimidazione ma sul selciato, quando la piazza si vuotò, c’erano tracce di sangue.
La folla si disperse nelle strade vicine inseguita dall’odore aspro di polvere e di grasso bruciato e dai frammenti di pietra strappati dalla facciata del Museo. Al panico, alle urla di paura, alle imprecazioni, seguì un silenzio non tanto lungo. Poi la gente riempì di nuovo la piazza occupata dai carri armati. E lentamente si spalancò una scena destinata a durare alcuni giorni.
Giovani e anziani, uomini e donne, inermi, avevano accerchiato i carri armati, dai quali adesso spuntavano le facce stralunate di soldati per lo più imberbi. I cecoslovacchi parlavano il russo. L’avevano imparato a scuola. Era la lingua obbligatoria. La lingua dell’impero. La lingua dei liberatori del ‘45 diventati invasori nel ‘68. Più di vent’anni dopo la lingua imperiale serviva a polemizzare con i nuovi occupanti, a insultarli; a invitarli a tornare a casa, ad andarsene al più presto. C’era chi strappava la tessera del partito davanti ai cingoli e gettava i frammenti in faccia agli ufficiali che spuntavano a mezzo busto dalla torretta. [...]
I sovietici erano esterrefatti. Non tutti sapevano in che Paese fossero capitati. I loro padri, nel ‘45, avevano avuto un’accoglienza diversa. Le donne di Praga li avevano presi sottobraccio, strappandoli dai ranghi, mentre sfilavano vincitori per le strade appena sgombrate dalle truppe naziste sconfitte. Neppure un quarto di secolo dopo le ragazze cecoslovacche chiamavano i figli o i nipoti dei liberatori di un tempo con lo stesso nome. Per loro erano tutti «Ivan» senza distinzione. Affibbiavano a tutti lo stesso nome, come se fossero stati fabbricati in serie, uguali, ubbidienti. Non individui, ma elementi senza identità di un’unica massa umana.
La Primavera di Praga era stata un tentativo di recuperare gli individui, schiacciati da un collettivismo inefficace e umiliante. Quegli «Ivan», spesso inconsapevoli, cancellavano con i loro carri armati quel tentativo, quella speranza, quell’illusione. Gli storici ci dicono che la fine del mondo comunista è cominciata nell’agosto 1968 a Praga. Altri risalgono alla Budapest del ‘56. È un fatto che per evitare il contagio politico, o la depressione, i soldati russi vennero spesso sostituiti, durante l’invasione della Cecoslovacchia. E le idee della Primavera di Praga sarebbero riaffiorate a Mosca, vent’anni dopo, e avrebbero contribuito all’autoaffondamento, al suicidio, dell’Unione Sovietica. Le armi spuntate dei giovani cechi sulla piazza San Venceslao, il sarcasmo, l’ironia, la polemica, servirono poco nell’agosto ‘68. Ma fa piacere pensare che abbiano poi dato dei frutti, proprio nel cuore dell’impero degli «Ivan», favorendone il crollo. Stupito che l’avvenimento fosse ufficialmente ignorato, dieci anni fa, trovandomi a Praga per il trentesimo anniversario dell’invasione, scrissi che dopo essere stata condannata e sepolta nel 1968 dall’Unione Sovietica, la Primavera di Praga era stata condannata e sepolta nel 1993 dal Parlamento ceco liberamente eletto. L’Urss aveva usato i carri armati. La democrazia ceca usava una legge. In quest’ultima, nella legge ceca, si definiva senza distinzione il periodo dal 1948 al novembre 1989, vale a dire gli anni in cui il Paese fu governato dal partito comunista, una fase durante la quale la società fu violentata da un’organizzazione criminale. Nel presentare questa legge un esponente del governo aveva precisato che neppure i promotori dell’effimera Primavera, durata 204 giorni, potevano sfuggire a quel giudizio. Anche loro erano stati in definitiva guardiani del campo di concentramento: guardiani buoni rispetto ai loro predecessori e ai loro successori, ma pur sempre guardiani. In quei mesi del ‘68 facevo la spola tra Parigi e Praga. Seguivo il Maggio francese e la Primavera cecoslovacca. Sulla diversità dei due avvenimenti simultanei vale la pena citare la laconica analisi di Milan Kundera (nella prefazione a Miracolo in Boemia di Josef Skvorecky). Tra l’altro Milan Kundera, non comunista, era un amico di Karel Kosic, filosofo critico marxista. Per Kundera, dunque, sulle rive della Senna ci fu un’esplosione di lirismo rivoluzionario, mentre sulle rive della Moldava ci fu l’esplosione di uno scetticismo postrivoluzionario.