Cara Delfina,

domenica 30 marzo sei arrivata un po’ prima di me alla Colombera di Chiomonte e mi hai aspettato. Io ero come sempre un po’ in ritardo. Tu, come sempre, un po’ in anticipo. Ti ho vista all’inizio della salita tra la gente che s’incamminava per raggiungere la Maddalena, dove il notaio aveva dispiegato sul tavolo un lenzuolo di carta per raccogliere le firme dei millecinquecento che avevano acquistato un metro quadrato di terreno in Val di Susa lungo il tracciato del treno ad alta velocità. Eri con la tua famiglia, zainetti sulle spalle con una maglia pesante, la mantella e il pranzo. Ma non era una gita in montagna quella che ci apprestavamo a fare insieme alla lunga fila di persone che s’avviavano con passo regolare su per la carrareccia. Era un atto di resistenza passiva alla brutalità con cui la potenza tecnologica e gli interessi economici stanno devastando il mondo. Alla partenza del nostro cammino i giganteschi pilasti di cemento armato su cui poggia uno dei viadotti dell’autostrada, all’arrivo il nastro d’asfalto che s’infila in una delle gallerie scavate nella montagna. Sopra di noi il flusso ininterrotto di automobili e camion che riempiono l’aria di rumore e veleni. Trasportano merci per lo più inutili, destinate a diventare rifiuti in tempi sempre più brevi. Altrimenti come si potrebbe continuare a produrne sempre di più e a trasportarle a distanze sempre maggiori dai luoghi in cui sono prodotte ai luoghi in cui diventeranno rifiuti in tempi sempre più brevi? Noi a piedi, lungo una strada non asfaltata, a fianco di filari di viti su pendii così scoscesi che non capisci come si riesca a curarle, raccoglierne i grappoli, farne quel vino asprigno e robusto che abbiamo bevuto alla lunga tavolata tra gli alberi, mentre mangiavamo un piatto di polenta calda dopo aver firmato il rogito. Lì l’aria non era intrisa di veleni e il rumore dei motori non arrivava. Si sentivano solo voci intrecciate col canto degli uccelli, con l’abbaiare di qualche cane, con i suoni di un’orchestrina. Non ci mancava nulla per vivere una giornata da ricordare. Eravamo in un posto dove il lavoro umano non ha sopraffatto la natura, avevamo sgranchito le gambe respirando aria buona, stavamo mangiando e bevendo cose sane, avevamo la convinzione di aver fatto una scelta giusta che ci accomunava a persone in massima parte a noi sconosciute.

In quel momento, Delfina, come parlando a te stessa hai detto che non ti era mai capitato di vivere un’esperienza così profondamente gandhiana. Da una parte il potere e la forza utilizzati brutalmente per accumulare quantità crescenti di denaro nelle mani di pochi a scapito della vita. Dall’altra una inerme e testarda resistenza che si smarca in continuazione dalla stretta del potere e lo spiazza con proposte imprevedibili in difesa della vita dalle aggressioni che subisce in nome della crescita economica e del profitto. Come se la terra non ci mandasse segnali sempre più preoccupanti sull’esaurimento delle fonti fossili, sull’impossibilità di metabolizzare le quantità crescenti di rifiuti, sui cambiamenti climatici in corso. Come se questi segnali non ci avvertissero che il fare finalizzato a fare sempre di più per avere sempre di più è destinato in tempi brevi ad arrestarsi con conseguenze catastrofiche. Eppure qualche giorno dopo uno dei più autorevoli commentatori politici italiani in una trasmissione radiofonica si è domandato: «che concezione di futuro hanno coloro che comprano due metri di terra per opporsi alla scelta della Tav in Val Susa». Impossibile spiegarlo a chi non si rende conto che è il meccanismo della crescita economica a non avere futuro. E che l’opposizione alle grandi opere è la manifestazione non evitabile di una volontà di futuro che nonostante tutto persiste.

Quattro giorni dopo, quando tu eri tornata nella tua valle risparmiata dalle aggressioni del progresso, e io nella mia città dove invece il progresso ha infierito più che in altre, i massimi rappresentanti del potere istituzionale locale, i tre viceré di sua maestà la crescita del pil, hanno tentato un’altra prova di forza nei confronti della resistenza gandhiana in Val Susa. Nella loro protervia erano convinti che un po’ di minacce e un po’ di blandizie fossero state sufficienti a riprendere il controllo della situazione. Che essendo riusciti con la semplice offerta di un seggio al senato a trasformare in consenso al Tav la precedente opposizione della loro associazione ambientalista, una fetta consistente della popolazione fosse passata ipso facto dalla loro parte. Così hanno fatto la figura dei pifferi di montagna, è proprio il caso di dirlo, che andarono per suonare e tornarono suonati. Anche se la musica delle trombette e dei tamburi con cui sarebbero stati accolti da millecinquecento persone non sono nemmeno arrivati a sentirla, perché, informati che i fatti non corrispondevano alle loro previsioni, hanno ordinato agli autisti delle loro auto blu un rapido dietro front.

Oltre tutto, sono pure felice di averti rivisto. Il viaggio valeva la pena. Un abbraccio dal tuo

Totò

Il commento a cui si fa riferimento è stato fatto da Sergio Romano nella trasmissione radiofonica La zanzara di Radio 24.