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Iraq: le indigeste elezioni del 15 dicembre 2005

di iraqiresistance.info - 20/01/2006

Fonte: iraqiresistance.info

 

 

Dopo le elezioni farsa del 30 gennaio 2004 passarono ben 14 giorni prima che il risultato elettorale venisse annunciato. Un lasso di tempo giudicato assurdo perfino da una parte dei sostenitori della “democratizzazione” dell’Iraq a suon di bombe.

Ma evidentemente la “democrazia”, insieme ai suoi im(brogli), macina un record dopo l’altro. Siamo ormai ad oltre un mese di distanza dalle elezioni politiche del 15 dicembre ed ancora non si vede l’ombra dei risultati ufficiali.

Buon segno! E’ questa la conferma del fatto che queste elezioni sono andate storte agli occupanti. Certo, aggiusteranno voti e seggi, ma ben difficilmente potranno nascondere la loro sconfitta.

L’Iraq non è sulla via della normalizzazione, anzi sul piano politico la situazione appare oggi più ingestibile di un anno fa e non è un caso che gli stessi uomini di Bush abbiano ormai abbandonato i toni trionfalistici di un tempo.

Un mese fa, subito dopo il voto, esprimemmo il nostro ottimismo pur in presenza di un quadro qualitativamente nuovo e certo non privo di rischi. Oggi possiamo dire che quell’analisi risulta confermata dai fatti: gli USA annaspano alla ricerca di un equilibrio politico che gli dia quantomeno un pò di respiro, mentre sul piano militare la Resistenza continua a colpire gli occupanti.

La partecipazione al voto nelle aree di maggior resistenza popolare all’occupazione non rappresenta un successo degli americani, ma piuttosto il tentativo di inceppare dall’interno la fragilissima architettura istituzionale costruita dagli USA.

In breve: voto e Resistenza sono in questo caso due aspetti della stessa battaglia per liberare l’Iraq. Che questa lettura delle elezioni del 15 dicembre sia tutt’altro che fantasiosa lo attestano alcuni commentatori del campo avverso. Se infatti lasciamo da parte la propaganda filo-americana alla Magdi Allam e leggiamo, ad esempio, l’editoriale di Lucio Caracciolo sull’ultimo numero di Limes, troviamo questa affermazione testuale: “Guerriglia e partecipazione al voto non sono necessariamente contraddittorie, semmai due facce della stessa strategia”.

Detto questo, chiarito come stanno le cose, sbaglieremmo a sottovalutare l’iniziativa politica messa in campo dagli Stati Uniti.

C’è voluto il New York Times del 7 gennaio affinché venissero a galla alcune verità. La più importante di queste è che gli Stati Uniti hanno attivato da qualche mese diversi canali di trattativa con alcuni settori riconducibili alla resistenza. Lo scopo è ovviamente quello di dividerla per reintegrare negli apparati statali una parte del vecchio Baath (inteso come area, non come partito, peraltro sciolto), per arrivare, pur se per vie diverse da quelli inizialmente prefigurate, a quel quadro di (relativa) stabilizzazione che rappresenterebbe la vera premessa alla vittoria americana.

A questo proposito è bene ribadire in cosa consisterebbe tale vittoria: nel sostanziale controllo del paese, attraverso un governo amico che ne assecondi le pretese egemoniche nell’area e garantisca la presenza  definitiva delle basi militari di Washington.

Questi sono gli scopi fondamentali che hanno mosso Bush fin dall’inizio. Se essi non verranno raggiunti sarà una sconfitta durissima per l’imperialismo americano. L’analisi della situazione, a quasi tre anni dall’inizio dell’aggressione, ci dice che questi obiettivi sono ben lontani dall’essere raggiunti.

Ma dietro l’accelerazione dei tempi da parte dell’amministrazione americana c’è dell’altro, c’è in particolare la preparazione della nuova aggressione imperialista, questa volta diretta verso l’Iran.

La situazione è dunque in grande movimento. Quel che è certo è che gli strateghi della Casa Bianca potranno raggiungere, almeno in parte, i loro scopi solo ad una condizione: che il processo di tripartizione del paese vada avanti spedito, applicando un modello che – pur in una situazione profondamente diversa – ha purtroppo funzionato negli anni ’90 nei Balcani.

E’ dunque su questo punto, la difesa dell’integrità e dell’unità nazionale dell’Iraq, che si verificherà la credibilità politica delle varie componenti che si oppongono all’occupazione militare. E’ su questo terreno che potrà determinarsi il minimo comun denominatore delle forze della Resistenza. E’ su questo obiettivo, oggi politicamente decisivo, che gli antimperialisti debbono pronunciarsi senza tentennamenti.

 

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LA RESISTENZA ARMATA CONTINUA

Alcuni dati

 

Tra i filoamericani più accaniti non mancano gli illusi. Costoro annunciano la sconfitta della Resistenza ad ogni passaggio della guerra irachena. Finora la realtà dei fatti li ha sempre smentiti.

Per noi la Resistenza non è solo lotta armata, ma senza la guerriglia non vi sarebbe alcuna possibilità di vittoria per la lotta di liberazione del popolo iracheno.

Siamo peraltro convinti che la Resistenza potrà infine vincere solo in virtù di un processo politico di unificazione del maggior numero possibile di forze che si battono contro gli occupanti, ma siamo altrettanto convinti della necessità politico-militare di non dare tregua alle truppe imperiali.

Insomma, poiché di una guerra di liberazione si tratta, l’aspetto militare ha una grande rilevanza. Se solo uno sciocco militarismo potrebbe misconoscere gli aspetti politici della Resistenza, soltanto l’opportunismo al cubo di un certo “pacifismo” può far finta di ignorare che senza resistenza armata gli aggressori avrebbero già vinto da tempo la loro partita.

Per misurare l’efficacia della Resistenza non abbiamo mai applicato il body count, caro invece agli strateghi militari americani.

Tuttavia, a quasi tre anni dalle prime bombe su Bagdad, un bilancio delle perdite USA in uomini e mezzi ha il suo significato. Non che l’attuale livello di perdite sia sufficiente a costringere gli americani al ritiro, ma è l’andamento di queste perdite ad indicarci la tenuta della Resistenza in questi anni.

Secondo le stesse fonti americane, nel 2005 il numero degli attacchi della guerriglia si è attestato su una media di circa 60 al giorno, decisamente superiore alla media dell’anno precedente. Dal marzo 2003, il 70% dei 1100 carri armati presenti in Iraq sono stati colpiti in modo più o meno grave. Nello stesso periodo sono stati abbattuti circa 40 elicotteri.

Quando si parla di questi “dati sensibili” occorre essere molto prudenti. E’ certo che gli USA, come già fecero per lunghi anni in Vietnam, riducono consistentemente le loro perdite. Nel novembre scorso dai comandi militari uscì un dato che moltiplicava per quattro (8.100 contro i 2.100 ammessi) il numero dei caduti americani. Ma questa gaffe venne subito oscurata dal sistema mediatico.

Fatta questa premessa, guardiamo i dati ufficiali del comando USA. Secondo questi dati, che riguardano i soli militari ed escludono i cosiddetti contractors, i morti americani sarebbero stati 486 nel 2003, 848 nel 2004, 846 nel 2005. I feriti, 2409 nel 2003, 7989 nel 2004, 5939 nel 2005. A queste cifre bisogna aggiungere le perdite degli alleati (tra i quali l’Italia), per un totale di 201 caduti al 31 dicembre dello scorso anno.

E’ evidente che il numero delle perdite è legato allo svolgimento o meno di grandi operazioni militari, come i due attacchi a Falluja dell’aprile e del novembre 2004, o la battaglia di Najaf dell’agosto dello stesso anno. Nel 2005 l’atteggiamento delle forze di occupazione è stato più prudente: gli attacchi aerei alle zone liberate sono continuati, ma per ridurre le perdite i comandi hanno accettato un minor livello di controllo del territorio. E non è un caso che, nello stesso periodo, le forze armate del governo fantoccio di Bagdad abbiano visto salire quotidianamente le proprie perdite.

Insomma, anche a voler prendere per buoni – e sappiamo perfettamente che sono abbondantemente sottostimati – i dati degli invasori, la forza militare della Resistenza non è certo in calo. Insufficiente per vincere senza l’insurrezione urbana, essa è stata sufficiente però ad insabbiare la più potente macchina da guerra della storia.