Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Semi, guerre e carestie - Capitolo IX

Semi, guerre e carestie - Capitolo IX

di Romolo Gobbi - 05/05/2008

Autore: RomoloGobbi | Data: 03/05/2008 18.58.41
9.Le invasioni dei nomadi

La schiavitù in agricoltura non scomparve né per le ribellioni degli schiavi né in seguito alle invasioni barbariche. I Circumcellioni non erano degli schiavi, ma dei braccianti agricoli, così come non erano schiavi i protagonisti: “delle cosidette bacaudae della Gallia (presenti con qualche diversità, anche in Spagna), contadini di origine celtica protagonisti di sommosse inizialmente stroncate con la forza sotto Diocleziano, negli anni ottanta del III secolo, ma destinate a ripetersi anche in epoca posteriore...”. (1) Il malcontento nelle campagne del tardo impero romano era dovuto all’iniqua distribuzione delle terre che erano concentrate nelle mani di pochi proprietari, quasi tutti appartenenti alla classe politica dominante, che avevano accumulato immense fortune: “I pubblici funzionari, alti e bassi, diventavano ricchi con le sportule e la corruzione. I membri della classe senatoria, immuni dai pesi municipali, investivano il loro bottino in terreni e adoperavano la propria influenza, l’influenza della propria casta – che in questo campo era più potente degli imperatori e annullava tutte le loro buone intenzioni – nel divertire gli oneri tributari sulle altre classi, nel frodare direttamente il Tesoro, e nell’asservire sempre maggior numero di lavoratori”.(2) Ma questi nuovi dipendenti non erano solo schiavi, anche se il numero degli schiavi era ancora molto alto in tutta Europa “in numero maggiore, secondo ogni apparenza, che nei primi tempi dell’impero”.(3) I nuovi ricchi preferivano servirsi di altre forme giuridiche per estrarre plusvalore dai lavoratori agricoli, anche perché la schiavitù era meno remunerativa. Intanto erano finite le guerre di espansione dell’impero, che avevano procurato il maggior numero di schiavi, e quindi si doveva ricorrere al mercato per il loro acquisto e il loro prezzo era salito. Inoltre lo schiavo, nonostante i controlli e le punizioni era diventato meno produttivo, e lo si doveva anche mantenere. Così si mutò la forma di sfruttamento schiavile: “Lo schiavo poteva però essere stabilito per suo conto; in tal caso il padrone, mentre gli lasciava l’onere di mantenersi, prelevava, sotto forme diverse, una parte del suo tempo e dei prodotti della sua attività. E fu appunto questo secondo metodo, che già a partire dagli ultimi secoli dell’Impero si diffuse sempre più...”. (4) Ma accanto a questa nuova forma di schiavitù furono inventate altre forme giuridiche di sfruttamento del lavoro agricolo: affitto senza termine, affitto ereditario con l’obbligo di coltivare il terreno, la colonia parziaria. In questo caso: “Il colono parziario occupava con la propria famiglia un podere e disponeva di terre coltivabili: gli era concesso di utilizzare l’acqua dei pozzi e dei fiumi, i boschi, i pascoli; egli poteva inoltre usare, dietro pagamento di un canone, l’attrezzatura del padrone: il mulino, il torchio”.(5) Egli doveva inoltre dare al padrone una parte del suo raccolto e unirsi agli schiavi per i grandi lavori stagionali come la mietitura e la vendemmia.
Accanto al lavoro agricolo dipendente continuava a sussistere anche la piccola proprietà contadina che però era sempre sull’orlo del fallimento per il pagamento dell’imposta o per l’acquisto delle sementi o il pagamento dell’affitto dei terreni presi a prestito. Per affrontare il pagamento dell’imposta i contadini di uno stesso villaggio stringevano legami di solidarietà tra loro. Ma era molto più conveniente per il contadino indipendente ottenere i benefici fiscali che il proprietario appartenente all’ordine senatorio, riusciva a estorcere: “La pressione dei potenti dovette essere efficace in tal senso; nel IV secolo infatti molti contadini indipendenti si ponevano volontariamente sotto la loro protezione o ‘patrocinio’, per sfruttare gli stessi vantaggi fiscali dei coloni. Essi diventavano così clienti dei grandi. Ciò che più importa qui sottolineare è che la pratica del ‘patrocinio’ favorì l’estensione della grande proprietà e dunque l’estensione della villa a detrimento della piccola proprietà indipendente”.(6)
Fin dall’editto di Teodosio del 380 d.C. la chiesa cattolica,
proclamata religione ufficiale dell’Impero, divenne anch’essa proprietaria di terre, attraverso lasciti ereditari e donazioni, e quindi anche di schiavi. La chiesa non condannò la schiavitù anzi condannò chi incitasse gli schiavi alla disobbedienza. Così nel Concilio di Granges del 324 venne proclamato: “Se qualcuno sotto il pretesto di pietà, incita lo schiavo a disprezzare il suo padrone, a sottrarsi alla schiavitù, a non servire con buona volontà e rispetto, anatema sia su di lui”.(7) Lo schiavo fuggitivo doveva essere convinto dalla chiesa a tornare dai suoi padroni e se durante la fuga moriva, non era permesso celebrare messe in suo suffragio perché era morto in peccato. La chiesa inoltre, a partire dal IV secolo, negò agli schiavi l’ammissione al sacerdozio.
Se questa era la posizione ufficiale della chiesa, molti ricchi cristiani si comportavano secondo una morale più aderente ai dettati evangelici: “Ancora nel basso impero alcuni grandi proprietari possedevano migliaia di schiavi. Santa Melania ne liberò ottomila in una sola volta: essa possedeva in Sicilia un insieme di sessanta ville dove lavoravano fino a quattrocento schiavi”.(8) Melania si era decisa a compiere questa buona azione anche perché alcuni schiavi di sua proprietà si erano ribellati. Ma la buona fede di Melania e di suo marito Piniano, che avevano proprietà in Italia, Britannia, Gallia e Nord Africa, è confermata dal fatto che: “la medesima coppia fu in grado di donare ai poveri ben quarantacinquemila, un’altra volta centomila monete d’oro, e di distribuire somme di danaro in Mesopotamia, Siria, Palestina ed Egitto”. (9) La prova definitiva della sua santità Melania la diede quando convinse: “il marito Piniano a seguirla nella cessione delle loro enormi tenute [...] e fondò un monastero in Terrasanta”. (10)
Anche altri ricchi romani scelsero la vita monastica, che nel Tardo impero ebbe una vigorosa ripresa anche in Italia: “intorno al 395, un ricco romano, di nome Paolino, nato a Bordeaux e giunto con brillante carriera a gli alti gradi dell’amministrazione imperiale, si ritirò a Nola, in Campania, insieme alla moglie Terasia. Poco dopo, avendo radunato intorno a sé dei discepoli, formò una comunità maschile, mentre la moglie ne costituì una femminile. I monaci di Paolino conducevano una vita frugale, meditavano e pregavano applicandosi al lavoro intellettuale (sull’esempio di Paolino, uomo di profonda cultura). Inoltre, si occupavano dei rustici delle zone circostanti invitandoli ad abbandonare il paganesimo”. (11)
Il movimento monastico si sviluppò particolarmente dopo l’inizio delle invasioni barbariche che suscitarono notevoli paure e incrementarono l’idea della “fuga mundi” che era alla base del monachesimo. Nuovi monasteri sorsero un po’ ovunque non solo in Italia, dove per altro vennero scelti luoghi particolarmente isolati e difficilmente raggiungibili come le isole di Gallinara, Capraia, Giglio, Palmaria, Gorgona e Tino. In generale in tutta la chiesa l’imminenza e poi l’arrivo dei barbari generarono grandi timori e rievocarono un clima apocalittico: “La possibile caduta di Roma, nelle accorate parole di un Lattanzio o di un Girolamo, veniva avvertita come un segno esplicito della prossima fine dei tempi; del resto la Bibbia stessa proponeva passi che ben suggerivano l’idea di una terribile minaccia incombente, tanto che Ambrogio, stimolato da una certa assonanza letterale, poteva facilmente individuare i Gog e Magog dell’Apocalisse nei temutissimi goti”.(12)
Le invasioni barbariche dell’Impero romano furono il risultato di un’onda unga di migrazioni di popoli nomadi dell’Asia che muovendosi verso occidente provocarono lo spostamento delle popolazioni, nomadi o stanziali, che si trovavano sulla loro strada. Tutto cominciò quando gli Unni verso il 370 si mossero dalla steppa ai confini con la Cina verso occidente, non si sa bene per quali ragioni, ma forse per mutamenti climatici che resero inospitali le regioni fino ad allora abitate. Invasero per primo il territorio degli ostrogoti nella Russia meridionale, che a loro volta si spostavano verso i territori abitati dai visigoti, ai quali si univano per un ulteriore spostamento fino a raggiungere i confini dell’Impero romano. L’imperatore Valente cercò di fermare l’avanzata dei goti, ma nel frattempo: “Le difficoltà di approvvigionamento e la corruzione delle autorità romane, provocarono una grave ribellione, prigionieri di guerra e schiavi che lavoravano nelle miniere si unirono ai goti e nel 378 d.C. l’imperatore Valente cadde in Battaglia ad Adrianopoli”.(13) I popoli nomadi di origine germanica invasero via via l’Europa occidentale: nel 406 Vandali, Burgundi, Suebi, Alani si impadronirono della Gallia. Nel 410 i Visigoti guidati da Alarico conquistarono e saccheggiarono Roma, anche se questa non era più la capitale dell’impero d’occidente: la capitale era stata trasferita prima a Milano e poi a Ravenna.
Il segno della fine dell’impero romano d’occidente venne dato nel 476 con la deposizione di Romolo Augustolo, ultimo imperatore d’occidente. Dopodiché in Italia si succedettero Ostrogoti, Longobardi e Franchi; nel resto dell’Europa si insediarono i vandali, i visigoti e i franchi.
Tutti questi cambiamenti etnici e politici non mutarono di molto la condizione delle campagne, se non per le razzie degli eserciti di passaggio. Quanto agli schiavi la loro situazione non mutò che lentamente infatti: “Anche i Germani avevano i loro schiavi, servitori o operai addetti alle colture” e inoltre gli invasori “ridussero in schiavitù un gran numero di abitanti” dell’impero “di ogni rango”. (14) Oltretutto con le invasioni aumentò il mercato degli schiavi fatti prigionieri nelle varie battaglie, ma anche in seguito alla vendita dei figli da parte di contadini impoveriti. La tratta degli schiavi tornò a fiorire al punto che “all’inizio del Medioevo la merce umana era ritornata ad essere abbondante e a prezzo accessibile”.(15) Ciò nonostante le grandi proprietà terriere cominciarono a frazionarsi: “I grandi proprietari, dopo aver prelevato delle vaste aree sui loro beni, le frazionarono in una folla di piccoli poderi, gli occupanti dei quali, sotto forme diverse, pagavano un canone. Tra i beneficiari di questa lottizzazione figurò un gran numero di schiavi, sottratti dalle squadre a disposizione del signore per essere provveduti, ciascuno sotto la sua propria responsabilità, dei propri campi particolari”. (16)
Alcuni di questi schiavi al momento dell’affidamento del podere venivano affrancati e quindi secondo le tradizioni del diritto romano erano formalmente liberi cittadini. Gli altri pur godendo di una certa autonomia economica, giuridicamente restavano schiavi. Con questo sistema misto i grandi latifondisti mantenevano il controllo della produzione, direttamente attraverso gli schiavi che coltivavano i loro campi, indirettamente e in misura sempre crescente per mezzo degli schiavi a cui erano stati affidati i piccoli lotti. Infatti questi erano tenuti a fornire, oltre al canone, una serie di prestazioni che rendevano moltissimo ai loro padroni e per di più si mantenevano con il loro lavoro e lo facevano con il massimo interesse anche per cercare di fare qualche risparmio. I capi germanici che si impadronirono di molti latifondi erano tanto più disponibili ad accettare queste nuove forme di gestione delle proprietà terriere perché corrispondeva alle tradizioni germaniche: “Nell’antica Germania le condizioni economiche generali erano scarsamente favorevoli alla grande azienda qualunque essa fosse. Il nobile, il ricco vi disponeva di molte terre, nelle quali abbondavano i terreni incolti, e di numerosi schiavi, spesso conquistati in guerra; se si voleva in qualche modo valorizzare queste vaste superfici, non vi era altro mezzo che quello di frazionarle...”.(17) In questo senso la proprietà germanica non era ancora del tutto trasformata per l’agricoltura: i vasti spazi incolti servivano a praticarvi la caccia e la pastorizia. Dunque pur partendo da punti opposti il frazionamento dei latifondi continuò durante la dominazione germanica.
Per quanto riguarda l’affrancamento degli schiavi, esso portò ad una lenta e graduale attenuazione dell’importanza della schiavitù nella società medievale: “È probabile che questa, già all’epoca carolingia avesse sensibilmente attenuato il suo apporto. Solo però nei secoli successivi la videro, se non interrompersi del tutto (questo non doveva verificarsi mai nel corso del Medioevo), almeno diminuita in una misura tale che, nella maggior parte dell’Europa, la schiavitù praticamente scomparve...”.(18) Questo risultato fu l’effetto di cause diverse, ma convergenti, che in buona parte avvenne inconsapevolmente, non fu certo un atto di una qualche autorità a liberare gli schiavi. Abbiamo già visto quale fu l’atteggiamento ufficiale della chiesa nei confronti della schiavitù, di cui essa stessa fruiva i vantaggi. Il Cristianesimo si oppose agli affrancamenti fatti dai propri fedeli e non accettò che fossero fatti nuovi schiavi a meno che la schiavitù: “fosse imposta ai pagani, agli infedeli, e, nell’ambito della cattolicità, agli stessi scismatici, considerati come privati della vera comunione cristiana; esso tollerò che si mantenessero sotto il giogo gli schiavi battezzati, purché essi stessi o i loro antenati fossero stati, al momento del loro asservimento, estranei alla vera fede”.(19) La chiesa inoltre intervenne più volte per condannare gli abusi nei confronti degli schiavi; così nel IX secolo Reginone di Prüm invitò i vescovi a: “escludere dalla comunione, per due anni, quei proprietari che avessero ucciso senza giudizio; i cattivi trattamenti che si praticavano correntemente gli sembravano verosimilmente non degni di attenzione”.(20) In un Penitenziale detto di Teodoro, redatto nello stesso periodo, la chiesa britannica, sempre nel IX secolo, vietò ai padroni di sottrarre allo schiavo i suoi risparmi, rinnovando per altro le antiche disposizioni del diritto romano. La chiesa riconobbe inoltre validità si matrimoni contratti tra schiavi, anche se i figli nati da tali matrimoni sarebbero stati automaticamente schiavi.
Ma nei confronti dell’affrancamento degli schiavi il comportamento della chiesa restò ambiguo. Infatti se non poteva non riconoscere come “opera pia” la liberazione degli schiavi fatta dai buoni cristiani, per quanto riguardava gli schiavi appartenenti alla chiesa, vari canoni conciliari: “continuamente riprodotti, proibiscono ai vescovi, se innanzitutto non risarciscono la loro Chiesa con i loro beni personali, di affrancarne gli schiavi, ed all’abate di concedere la libertà agli schiavi che erano stati dati ai suoi monaci”.(21) La contraddittorietà delle posizioni della chiesa nei confronti degli schiavi risulta ancora più evidente proprio nei confronti del movimento monastico che si estendeva sempre di più tra i laici. Nel 530 san Benedetto compose la prima regola di quello che sarebbe diventato il potente ordine benedettino. A parte il fatto che il giovane Benedetto abbandonò la sua famiglia agiata scegliendo la vita povera del monaco, nella sua regola la povertà era una scelta preliminare all’accettazione dei voti: “Ma prima della professione formale, il futuro monaco deve abbandonare ogni suo possesso, che distribuirà ai poveri o consegnerà al monastero”.(22) Tra i voti del monaco vi era poi l’obbligo del lavoro manuale, non solo per sfuggire all’ozio e come mezzo di mortificazione, ma soprattutto: “Qualora poi le esigenze locali o la povertà richiedessero che i monaci siano personalmente occupati nella raccolta delle messi, non si affliggono, poiché allora sono veramente monaci se vivono del lavoro delle proprie mani”.(23) Niente era più contrario all’utilizzo del lavoro degli schiavi!
Ma anche le tradizioni germaniche andavano nel senso della riduzione della schiavitù: “Condizione della potenza e del prestigio era poter raggruppare attorno a sé un gran numero di dipendenti che non fossero schiavi, ma uomini liberi, atti a sedere nelle assemblee giudiziarie e qualificati per figurare nell’oste”.(24) Il contadino alle dipendenze di un padrone non poteva più essere considerato uno schiavo, perché non era più trattato come una cosa, ma come una persona, anche se era sottoposto a tutta una serie di obblighi e di vincoli (poteva essere donato o venduto o lasciato in eredità) che facevano di lui un servo, un non libero. Era collocato al fondo della scala sociale e disprezzato: non poteva testimoniare contro gli uomini liberi, non era ammesso nelle gerarchie ecclesiastiche, era ingiurioso per un libero essere chiamato servo. Continuava a subire tremendi castighi in caso di ribellione: “Tuttavia questo servo, così disprezzato e posto in uno stato di dipendenza così stretto, non aveva nulla di uno schiavo. Non ne presentava le caratteristiche giuridiche, in quanto poteva possedere la terra a titolo di tenimentum o anche a titolo di piena proprietà, donare, vendere e, sotto certe condizioni, ereditare; in quanto serviva nell’esercito e sedeva nei tribunali [...] Meno ancora egli presentava le caratteristiche dello schiavo sotto il profilo economico. La sua forza di lavoro non apparteneva infatti ad alcun padrone”.(25)
Ma nonostante questi miglioramenti giuridici e sociali la condizione del contadino nell’alto medioevo continuò ad essere miserabile e soprattutto in preda alle catastrofi naturali che di volta in volta potevano privarlo di ogni sostentamento e condurlo alla morte. Oltre alle depredazioni che sistematicamente subivano in seguito alle guerre, i contadini dovettero subire le conseguenze di siccità, inondazioni, epidemie, cattivi raccolti, morie di animali, invasioni di insetti nocivi. La mancanza di scorte, l’assenza di organizzazioni statali, l’egoismo dei padroni trasformavano ognuna di queste calamità in tragedie. Così secondo Gregorio di Tours nel 585: “Ci fu in quell’anno una carestia in tutta la Gallia. Molti facevano il pane con una farina con cui mischiavano frutti, fiori, erbe e radici polverizzate; molti vi mischiavano del fieno fatto in polvere. Molti poi, privi del tutto di farina, mangiavano erbe e morivano poiché il loro corpo si gonfiava. Molti morirono di fame”.(26) Secondo gli Annali di Lorsch nel 793: “in Borgogna e in Francia la fame fu così grande che molti ne morirono”.(27) In un altro Annale della Mosella vengono descritte le conseguenze della stesa carestia che si estese anche in quella regione e crebbe a tal punto: “che gli uomini mangiavano gli escrementi gli uni degli altri, che gli uomini mangiavano gli uomini, i fratelli i fratelli, le madri i figli [...] Si vide quello stesso anno – 793 – in diverse regioni, a primavera, del grano falso per i campi, le foreste, le valli, in enorme quantità; si poteva vederlo e toccarlo, ma non mangiarlo”.(28) E ancora nell’834: “In molte regioni della Gallia gli uomini furono costretti a mangiare terra mischiata a un po’ di farina e modellata a forma di pane”.(29) Nell’868 si verificò una carestia che provocò migliaia di morti in Borgogna e in Aquitania; il numero dei morti era tale che “non si trovava più chi li seppellisse; a Sens in un solo giorno morirono 56 persone [...] Alcuni invitavano a casa gli affamati, li uccidevano e li mettevano sotto sale”.(30)
Anche animali e piante dovettero subire l’inclemenza del tempo, coinvolgendo naturalmente anche i contadini che di piante e animali vivevano. Così nel 591 secondo la cronaca di Gregorio di Tours: “Vi fu una grande siccità che spazzò via l’erba dai pascoli. A causa di ciò si diffuse tra il bestiame e le greggi una grave epidemia, che risparmiò pochi capi. Essa portò la rovina non soltanto tra gli animali domestici, ma anche fra le diverse specie di animali selvatici: in mezzo ai boschi, nelle zone più fitte, si trovò atterrata una grande quantità di cervi e di altri animali”.(31) Altre fonti ricordano altre calamità in seguito a fenomeni meterologici eccezionali: nell’872 venne una brinata che gelò tutto “inaridendo le giovani foglie della foresta”; invece nell’874 fu la neve caduta in tale quantità tra novembre e dicembre che impedì persino “agli uomini di entrare nei boschi”.(32)
Queste disgrazie colpirono meno gli schiavi, che comunque continuavano a esistere, perché la loro morte costituiva una perdita di capitale per i padroni. La schiavitù continuò soprattutto come tratta degli schiavi da e verso i paesi musulmani: “Un buon numero di schiavi, per lo meno nel secolo X e nel secolo XI, era infatti esportato verso la Spagna musulmana, ricca e abituata all’uso del lavoro servile; Verdun, a metà strada, era uno dei centri più attivi di questo commercio; i suoi mercanti, prima di inviare al di là dei Pirenei i giovanetti che essi avevano acquistato, li castravano, onde rialzarne il valore agli occhi dei padroni di harem. Altri, con molta probabilità, erano venduti nel Levante. Tra gli schiavi che Venezia imbarcava sulle sue navi in direzione di Bisanzio e certamente anche dell’Egitto, è difficile credere che non ve ne fossero di questa provenienza”.(33) Se era sparita quasi completamente la schiavitù nell’agricoltura dell’Europa dell’anno Mille, questa invece continuò nelle case dei ricchi, anche come sfoggio di esotismo: “Slavi o Tartari razziati sulle rive del Mar Nero, Siriaci o Berberi ‘olivastri’, Mori del Maghreb verranno così, per parecchi secoli, a popolare della loro umile presenza le case borghesi dell’Italia, della Provenza o della Catalogna”.(34)
Ma la società antica, con l’anno Mille, venne definitivamente superata per tutta una serie di ragioni. Intanto il clima mutò in senso positivo, con inverni miti ed estati asciutte. Conseguentemente si ebbe una ripresa dell’agricoltura e quindi della popolazione. L’aumento della popolazione a sua volta indusse a ricercare terreni incolti: “Le imprese di disboscamento, dissodamento, colonizzazione, che soprattutto a iniziare dal secolo IX si intensificarono in tutte le regioni europee, ad opera di chiese e monasteri, di signori e di comunità contadine...”.(35) Sorsero nuove abbazie benedettine come quella di S. Benigno di Fruttuaria, che sotto la guida del suo fondatore Guglielmo di Volpiano nel Canavese: “crebbe rapidamente anche in Italia radunando molte dipendenze nella regione subalpina ed altre in Emilia, Veneto, Lombardia, Liguria, tra le quali, i famosi cenobi di S. Apollinare Nuovo di Ravenna, S. Giusto di Susa e S. Maria di Caramagna...”.(36) In Piemonte venne costruita nel secolo X l’abbazia benedettina di S. Michele della Chiusa, meglio nota come Sagra di S. Michele, sulla via Franchigena, la cui giurisdizione si estese a 176 chiese e abbazie in Italia, in Francia e in Spagna. Nel sud d’Italia rifiorì l’abbazia di Montecassino, fondata da S. Benedetto, e distrutta dai saraceni nell’883. Ma il centro vero del rilancio della Regola di S, Benedetto fu l’abbazia di Cluny in Francia fondata nel 910 e sviluppatasi negli anni successivi fondando altri monasteri alle sue dipendenze al punto di controllare vastissime proprietà: “Organizzate secondo il modello comune a tutti i grandi domini fondiari del tempo, esse erano costituite da una riserva, o pars dominica, terreni in genere assai vasti che fornivano prodotti necessari alla vita quotidiana dei monaci, coltivati sotto il loro diretto controllo o talora lavorati da loro stessi, e da una serie di poderi concessi ad affittuari che coltivavano la terra loro assegnata ed erano obbligati a svolgere prestazioni d’opera e a versare canoni, di solito in natura, al monastero”.(37)
Tutto questo fervore di attività non coincide con la storiografia romantica “dei terrori dell’Anno Mille”(38) che sarebbero stati la conseguenza dell’interpretazione allegorica del millenarismo fatta da Agostino 700 anni prima e che era invalsa nella tradizione cristiana. Se la chiesa era nata con Gesù e la sua durata doveva essere di mille anni, perché i cristiani invece di darsi alla disperazione per l’avvento dell’Apocalisse, si diedero un così gran da fare a costruire chiese, abbazie, a dissodare e bonificare terreni? In effetti: “Eminenti personalità politiche e religiose del tempo attendono all’analisi temporale e all’interpretazione dei segni lasciandosi spaventare e tranquillizzare. Non è quindi assolutamente solo la ‘massa incolta del popolo’ ad abbandonarsi ad una siffatta convinzione nella fine del mondo; al contrario questa presuppone piuttosto una qualche educazione teologica e speculativa e mette in agitazione proprio i ceti dirigenti”.(39)
È vero però che da anni esistevano nelle chiese immagini tratte dall’Apocalisse che non potevano non avere un’influenza sulla gente comune.
A Roma nell’arco trionfale dei SS. Cosma e Damiano era raffigurato l’agnello con a lato il rotolo dei sette sigilli, i sette candelabri e i simboli degli evangelisti, “le quattro creature viventi”. A Ravenna in S.Apollinare in Classe c’era il mosaico dei dodici agnelli che escono dalle due città sante e vanno verso il Cristo giudicante. Ma a partire dall’XI secolo i cicli pittorici sull’Apocalisse si moltiplicarono: nel duomo di Novara; in S. Pietro al Monte di Civate, vicino a Lecco; a Castel S. Elia presso Nepi nella chiesa di s. Elia; ad Anagni nella cripta del duomo.
Anche nel linguaggio parlato comparvero immagini apocalittiche; ad esempio nel 991, durante un sinodo di vescovi francesi tenutosi a Reims, l’arcivescovo Arnolfo così espresse la collera del clero nazionale nei confronti di Roma e del papa: “Dov’è mai scritto – egli disse – che la moltitudine innumerevole dei preti di Dio, sparsi nell’orbe terrestre, ornati di sapienza e di merito, debba essere soggetta a mostri così fatti, vituperio del mondo, privi di qualsiasi scienza divina? [...] Se non nutre in cuore carità, ed è gonfio soltanto di scienza ampollosa, esso [cioè il papa] è l’Anticristo che siede sul trono nel tempio di Dio, e come Dio vuol mostrarsi agli sguardi della moltitudine”.(40)
L’indignazione era giustificata poiché in quegli anni il papato era egemonizzato dalla famiglia romana dei Teofilatto, in particolare da Teodora e Marozia “tristemente famose per aver fatto e disfatto papi secondo i loro capricci di donne svergognate”.(41) Anche il figlio di Marozia, Alberico, creò papi secondo il suo arbitrio, riuscendo infine a far eleggere nel 956 il proprio figlio Ottaviano di soli 12 anni, papa Giovanni XII, elezione che provocò l’intervento degli imperatori di Germania.
L’indignazione del clero francese era legittimata anche dal fatto che dall’abbazia di Cluny s’era sviluppato un moto di rigenerazione morale che era partito proprio dalle riflessioni sull’Apocalisse. In attesa dell’inizio del regno millenario di Cristo sulla terra non si doveva stare con le mani in mano ma cominciare a trasformare la realtà. Innanzitutto bisognava riportare i monasteri benedettini all’applicazione integrale della regola fondata sull’”ora et labora”. Ma poi tutta la chiesa andava risanata dai suoi mali che non erano soltanto la crisi romana, Roma di nuovo la Babilonia dell’Apocalisse. Accanto a questa c’era la crisi morale in cui si trovava tutta la Chiesa cattolica a causa della compravendita delle cariche ecclesiastiche (simonìa) e del concubinato degli ecclesiastici.
Così nel Dialogus de statu sanctae ecclesiae, di anonimo intorno al 960, si accusano prìncipi e sacerdoti, che mescolano diritto e arbitrio, vescovi che, non ancora insediati e consacrati, sperperano il patrimonio della chiesa: “Voi li chiamate cristiani, in realtà sono degli Anticristi [...] Perché non temete il giudizio di Dio. Voi non siete cristiani! Voi siete quell’animale visto dal profeta Daniele...”.(42)
Le richieste di rigenerazione morale e le proposte di riforma ottennero le prime risposte nel sinodo di Roma del 1059, durante il papato di Leone IX, che vietò ai chierici e ai laici ogni rapporto col clero coniugato. I papi successivi vietarono anche ai fedeli di ascoltare la messa o di ricevere i sacramenti dai preti coniugati o nominati dall’imperatore: “Le cronache italiane, tedesche, fiamminghe, son piene di episodi; per anni interi, a Milano, a Piacenza, a Cremona, a Firenze, in tutte le città nostre – per non parlare se non di queste – imperversò la caccia al prete simoniaco, al prete coniugato e concubinario. Il popolo minuto fa le sue prime armi; le donne più violente degli uomini a guidare o secondare i tumulti, la loro prima comparsa nelle manifestazioni della vita collettiva”. (43)
Tutto questo attivismo e questo desiderio di riforma dei costumi era dovuto all’interpretazione manichea dell’Apocalisse, che prevedeva la necessitò di liberare il mondo dal male perché Cristo tornasse sulla terra e vi regnasse per mille anni. Infatti negli anni in cui rifioriva il millenarismo apocalittico, in Europa cominciarono a essere scoperti e processati gruppi di eretici “manichei”.
Verso il 1015 a Limoges il vescovo Gerardo intervenne energicamente contro alcuni di loro. Nel 1018 in Aquitania furono scoperti altri “manichei” che: “negavano il battesimo, la croce e tutto quanto è di sano insegnamento. Astenendosi da cibi, sembrano quasi monaci e simulavan la castità... e facevan uscir molti dalla retta fede”.(44) Nel 1022 furono messi a morte parecchi eretici manichei a Tolosa.(45) Nello stesso anno dieci canonici della chiesa di S. Croce di Orleans furono accusati di
essere "novi Manichaei".
Data la gravità della vicenda, tanto più grave perché uno dei canonici, Stefano, era stato il confessore della regina Costanza d’Aquitania, venne convocato un concilio di vescovi per giudicarli. Dalla discussione, durata un’intera giornata, emersero le loro eresie: “negavano la validità del battesimo e dell’eucaristia e ritenevano inefficaci le preghiere rivolte ai santi martiri e confessori. La salvezza e il perdono dei peccati sono ottenuti attraverso un rito di imposizione delle mani per il quale il fedele viene ripieno del dono dello Spirito che ammaestra intorno al significato profondo delle Scritture e alla vera divinità”.(46)
Di fronte alla minaccia del rogo i canonici non abiurarono e preferirono il martirio, sicuri di ottenere “trionfi immortali e supremi gaudi”. Dopo essere stati scomunicati furono trascinati alle porte della città e messi al rogo, non prima che la regina avesse “cavato, con un bastone che teneva in mano, un occhio a Stefano, una volta suo confessore”.(47) Fu dichiarato eretico anche un altro canonico, morto ormai da tre anni, e venerato come santo: il suo corpo venne dissotterrato e le sue ossa furono disperse.
Un altro Concilio venne convocato nel 1025 ad Arras per giudicare alcune eretici, che si dichiaravano discepoli di un certo Gandolfo, venuto dall’Italia e che aveva trasmesso loro i princìpi della nuova fede: “abbandonare il mondo, frenare la carne dalla concupiscenza, procurarsi il vitto col lavoro delle proprie mani, non recare danno ad alcuno, mostrare carità verso tutti coloro che sono di questa nostra credenza”.(48) Inoltre essi negavano validità ai sacramenti praticati nella Chiesa cattolica e in particolare negavano valore al matrimonio per la salvezza individuale. Non si doveva alcuna venerazione alla croce, in quanto strumento di tortura di Cristo, e invece dovevano essere venerati gli Apostoli e i martiri della fede. Nonostante il culto dei martiri questi eretici abiurarono e salvarono le loro vite.
Non furono altrettanto saggi alcuni membri della comunità contadina di Monforte d’Asti, che contava più di tremila affiliati, i quali, catturati e trascinati a Milano nel 1034, piuttosto di abiurare si lasciarono bruciare. Che i contadini fossero colpiti dall’idea di un regno millenario di giusti, cominciò a produrre anche rivendicazioni di tipo sociale: “Verso la fine dell’Anno Mille viveva in Gallia, nel villaggio d Vertus, nella contea di Châlon, un uomo del popolo di nome Leutardo [...] Per la stanchezza si addormentò, e gli parve che un grande sciame di api gli penetrassero nel corpo per la sua segreta apertura naturale; poi gli uscirono dalla bocca con un forte ronzio, e lo tormentarono con frequenti punture. Dopo essere stato a lungo molestato dai loro pungiglioni, gli sembrò che parlassero e gli ordinassero di fare molte cose impossibili agli uomini [...] Si diffondeva in interminabili discorsi privi di utilità come di verità, e, tentando di apparire un dottore, faceva dimenticare le dottrine dei maestri. Pagare le decime, diceva, era perfettamente inutile”.(49)
Ma prima che la rivendicazione contadina dell’abolizione delle decime diventasse generale e provocasse la ribellione dei contadini stessi, dovettero passare molti anni, durante i quali si verificarono eventi straordinari e catastrofici.

1. C. AZZARA, Le invasioni barbariche, Il Mulino, 1999, p. 18.

2. M. ROSTOVZEV, Storia economica e sociale dell’Impero romano, Nuova Italia, 1973, p. 609.

3. M.BLOCH, La servitù nella società medievale, La Nu

4. Ivi, pp. 89-90.

5. R.DOEHAERD, Economia e società nell’alto medioevo, Laterza, 1971, p. 78.

6. Ivi, p. 83.

7. M. BLOCH, op. cit., p. 104.

8. R. DOEHAERD, op.cit., pp. 81-2,

9. CAMERON A., Il tardo impero romano, Il Mulino, 1999, p. 148.

10. Ivi, p. 104.

11. M.PACAUT, Monaci e religiosi nel Medioevo, Il Mulino

12. C. AZZARA, op.cit., p. 26.

13. K.BRINGMANN, Storia romana, Il Mulino, 1998, p. 104.

14. M. BLOCH, op.cit., pp. 86-7.

15. Ivi, p. 88.

16. Ivi, p. 91.

17. Ivi, p. 95.

18. Ivi, p. 114.

19. Ivi, pp. 123-4.

20. Ivi, p. 106.

21. M. PACAUT, op.cit., p. 44.

22. Ivi, p. 107.

23. Ivi, p. 48.

24. M. BLOCH, op.cit., p. 113.

25. Ivi, p. 119.

26. Cit. in, R. DOEHAERD, op.cit., p. 10.

27. Ibidem.

28. Ibidem.

29. Ibidem.

30. Ivi, p. 11.

31. Cit. in, M. MONTANARI, La fame e l’abbondanza, Laterza, 2000, p. 38.

32. Ibidem.

33. M. BLOCH, op.cit., p. 129.

34. bidem.

35. M. MONTANARI, op.cit., p. 49.

36. M. PACAUT, op.cit., p. 147.

37. ivi, p. 132.

38. G. DUBY, L’anno Mille, Einaudi, 1976, p. 5.

39. J. FRIEND, L’attesa della fine dei tempi alla svolta del millennio, in L’attesa della fine dei tempi nel Medioevo, Il Mulino, 1990, p. 43.

40. G. DUBY, L’anno Mille, Einaudi, 1976, p. 5.

41. J. FRIEND, L’attesa della fine dei tempi alla svolta del millennio, in L’attesa della fine dei tempi nel Medioevo, Il Mulino, 1990, p. 43.

42. Citato in J. FRIEND, op.cit., p. 73.

43. G. VOLPE, Movimenti religiosi e sette ereticali, Sansoni, 1961, p. 9.

44. ALDEMAR de CHABANNES, Cronique, in R. MANSELLI, L’eresia del male, Morano, 1963, p. 124.
45. S. RUNCIMAN, Le manicheisme medieval, Payot, Paris 1972, p. 107.

46. G.S. FAMENI GASPARRO, voce: Catari, in TACCHI VENTURI, Storia delle religioni, vol. IV, UTET, Torino 1971, p. 834.

47. Gesta Synodi Aurelianensis anno MXXII ad versus novos Manichaeos.

48. MANSI, Sacrorum Conciliorum nova et amplissima Collectio, citato in TACCHI VENTURI, op. cit. p. 835.

49. RODOLFO il GLABRO, cit. in, G. DUBY, op.cit., pp. 98-9.