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Una pagina al giorno: paesaggi e memorie ticinesi, di Giuseppe Zoppi

di Francesco Lamendola - 06/05/2008

 

 

Per tutti i Ticinesi della campagna o della montagna, vi fu, sin dall'infanzia, "una città", o, come si dice nei dialetti, "un borgo". Leggete i Racconti puerili di Francesco Chiesa: vi troverete Borgovecchio, che è Mendrisio. Nelle valli si dice ancor oggi "andare al borgo" per "andare in città".

Per me, il "borgo" fu Locarno. Da Locarno venivano le poche "buone cose" dei miei primi anni. A Locarno si teneva, e si tiene, un pittoresco mercato ogni quindici giorni, il giovedì: fortunati noi se la mamma ci andava. A Locarno si vendeva e si comprava il bestiame: ogni tanto, fra le vacche a noi ben note del villaggio, compariva qualche nuovo "muso duro", estraneo, misterioso, da non prenderci confidenza tanto presto. Gli sposi acquistavano a Locarno quei loro confetti, bianchi e rosei, che venivano distribuiti, qualche giorno prima delle nozze, di casa in casa.

Un certo autunno i miei genitori scesero al piano, e proprio in vicinanza di Locarno. Non conobbi allora tutta la città: ero per questo troppo timido e forastico. Ma conobbi un poco il quartiere a noi più vicino: quello, assai popolare, di Sant'Antonio. Mi pare di vedermi (avevo dieci, undici anni) arrivare giù a lenti, sospesi passi. Che gran chiesa è mai questa! Il tetto, una volta (così m'han raccontato), per la troppa neve, è crollato sulla testa dei fedeli: cinquanta morti! E che bella piazza, così tutta circondata da alte case! E questi leoni della fontana, che sputano acqua continuamente! Come son grossi, che bestioni! (Ora mi sembrano leoncini d'un mese). E quel signore, lassù! Porta un mantello aperto sul davanti, pendente dalle spalle: sotto il sole e la poggia, la testa è nuda. "Barone Marcacci" decifro sul piedestallo. Chi era costui? E perché l'han messo lassù? Mi fermo un poco, non a lungo. C'è ben altro al mondo che il barone Marcacci! In un negozio, lì al principio di             quella via, a quanto m'han detto, si può comprare, per dieci centesimi, una certa cosa, una cosa proibita. Accorro, entro timidamente, manifesto a voce bassa il mio desiderio. M'accontentano subito, non fanno difficoltà. Esco felice, raggiante. Mi stringo e palpo in tasca una bella e bianca pipa di gesso.

Non lontano da questa bottega (ma proprio dove, non ricordo bene), c'era una specie di cinematografo. Certi nostri amici, più cittadini di noi, trovarono modo di trascinarvici, una sera. Era con noi la nostra deliziosa e vecchia serva Rosa: quella che, a quasi ottant'anni, rideva ancora così volentieri, così a lungo, come una giovinetta innocente. In tante cose, poi, era una bambina addirittura. Un bel giorno passa via sopra di noi, a breve altezza, un aeroplano: era uno dei primi che comparissero dalle nostre parti. Lei guarda, trasale. «Cos'è mai!» domanda. «Un uomo che vola»rispondo. E lei, sbalordita: «Come mai non si vedono le gambe?».

Quella sera, al cinematografo, si divertì un mondo., rise come una pazzerella, ma anche si spaventò un poco. «Quegli uomini - diceva poi - che ci 'burlavano', tutti addosso!». «E quelle forme di formaggio che, invece di star ferme in cantina, andavano rotoloni per le strade!». All'uscita c confidò a bassa voce: «Voi forse non ci crederete. Ma io son sicura che, in tutto questo, ci ha dentro lo zampino il diavolo». (…)

Fu dopo gli anni di Lugano. Un bel giorno fui trasferito a Locarno. «Non ti piange il core?» mi domandavano gli amici. A me il cuore piangeva un poco, questo sì. Ma ero giovane, e mi tenevo sempre sottomano una forbicina con cui tagliavo, recidevo dalla mia vita tutti i rimpianti. La misi subito in azione, e partii.

Dapprima volli rivedermela bene, la mia Locarno: un bel giorno d'estate in cui non avevo altra cura: con il proposito fermissimo di andare a stare in un bel posto, e in una casa che fosse tutta per me. Come, da un povero ragazzo valligiano, fosse venuto fuori col tempo un uomo tanto folle di bei paesaggi, è un mistero che non voglio ora indagare.

Giunto a Locarno, decisi subito di non stare al piano. Le rive d'un lago, veramente, a me piacciono molto. Direi anzi che mi piacciono troppo. Pensate: uscir di casa, e trovarsela lì, tutta innanzi, l'azzurra distesa viva! Svegliarsi la mattina, aprir gli occhi, e veder danzare sul soffitto la rete d'oro dei riflessi che le mobili onde mandano su come per una prova di magia! Ma la collina mi piace ancor più. La collina è una delle più belle trovate di quel grande Inventore che costrusse il mondo. La collina vi mette in alto e dice: «Guardate». Ha davanti la pianura, ha davanti, e sotto, il lago o il mare. La collina è fresca: i venti si dilettano a correrci intorno come fanciulli. (…)

Salire è per chi voglia un piacevole gioco. La funicolare azzurra s'avvia calma e brava, per quanto decisa, volonterosa. Slitta all'insù, con moto uguale, proprio come la sua gemella, su presso il Santuario, slitta all'ingiù. Percorrere da principio una via tutta fiorita: da una parte, camelie, rose, glicini, secondo la stagione; dall'altra, ben presto, ricchi, odorati giardini. A mezza strada incontra la carissima gemella che scende: i passeggeri si guardano, e per poco non si salutano, come ragazzi. Si sale ancora, si passa sotto una volta vi verdi rami intrecciati, s'entra in una breve galleria, se ne riesce. Ed ecco, mentre la vettura corre in cima a un viadotto altissimo (la cima degli alberi è lì, sotto i piedi) ecco, di fronte, piantata in vetta alla sua roccia, la Madonna del Sasso. Giunto in cima, uscito all'aperto, quel giorno mi diressi prima a sinistra. A Orselina entrai in una certa osteria, uscii su un terrazzo, vi passai una delle ore più alte, più liriche, della mia povera vita.

Che cosa m'incantava di più? Il paesaggio davanti a me, anzi sotto di me, o le nuvole sui monti? Forse m'incantavano entrambi supremamente. Si vedeva Locarno in riva al suo lago. Ma soprattutto si vedeva il lago con le sue rive tutte costellate di villaggi: il lago che, là in fondo, a Pino, a Cannobio, è già italiano, e non più svizzero: il lago che, veduto così dall'alto, pare un cielo caduto in terra, disteso sotto i piedi, come nei sogni. E le nuvole? Oh, le nuvole non furono mai così bianche e bionde come quel giorno. Non si collocarono mai tanto bene in cima al Tàmaro, in cima al Camoghè: Non dispiegarono mai con maggior pace e maestà i loro giochi eccelsi, celesti… Infine, parve che s'abbassassero, che s'avvicinassero: come grandi uccelli, candidi, piumosi.

Tornai quindi sui miei passi, raggiunsi la Funicolare, andai ancora un bel po' dall'altra parte, verso i cosiddetti Monti della Trinità o Monti di Locarno. Ora, sì, toccavo finalmente terra. Andavo in cerca d'una casetta apta mihi. La trovai, senza fatica. Vi trascorsi alcuni anni felici.

Poi di nuovo fui trasferito: lontano, oltre le Alpi. Anche questo modo estremo di conoscere e di amare il proprio paese mi fu concesso: lasciarlo, starne lontano.

Mantengo però ancora una casettina ai Monti. E ci torno, appena posso, così volentieri come se in essa la vita fosse un poco più lieve a portarsi che altrove. (…)

Son tornato ieri per le mie vacanze, mi sono assestato nella piccola casa. Stamani mi son messo a tavolino, ho cominciato a scrivere. Ma gli occhi mi scappavano sempre via. Come elegante il Tàmaro, proprio là dirimpetto!, a duemila metri! Come inciso tutto bene, finemente, nell'azzurro!

Venuto il pomeriggio, non c'è verso, non resisto più. Sono fuori, vado a spasso. Veramente mi rincresce un poco di lasciare il mio giardino ove quattro peschi giovinetti, di tre anni appena eppur già grandicelli,  sono così bene in fiore che tutta l'aria intorno ne esulta e ride. Ma li ritroverò ancora al mio ritorno, me li terrò ancora a lungo acanto. E poi non sono forse con me, più graziosi che mai, anche ora, mentre vado?

Vado e m'appoggio - ne ho proprio l'impressione fisica - alla dolcezza dell'aria.. Vado, e riaccolgo in me, con tutta la festa che si meritano, le cose piccole e le grandi, le prossime e le lontane: quella "rosa del Giappone" fiorita or ora, tutta rosa, nell'orto… quella "pioggia d'oro" che splende e canta nel giardino d'una villa… il villaggio dai due campanili, oltre il fiume, a specchio del lago…  le due isolette, più oltre, posate ed equilibrate sull'onde come in un gioco ben riuscito… il paesello di Ronco, su a mezza costa, in tal posizione che solo il pensarlo inazzurra l'anima… i monti ancora inviluppati in alto di nevi e ghiacci, ciò che si vede e ciò che non si vede, ciò che m'entra negli occhi e ciò che l'anima sente e presente dietro la collina, giù per i piani, su per le valli.

Scendo verso la città. Ma con tutta calma. Mi soffermo ogni tanto, una volta torno persino un pezzetto indietro. Dallo stradone devio giù per un sentiero, m'imbatto in una casa rustica tutt'avvolta in un nembo di mimose in fiore. Procedo, tutt'a un tratto mi sento sul capo come una carezza: lievissima.

Alzo gli occhi, e vedo. È un salice piangente. Ma ancora non piange. Aspetta di piangere un giorno grigio d'autunno, quando i venti e le tempeste l'avranno battuto e flagellato. Per intanto ride anch'esso, che è il suo tempo. Sì, ride, veramente ride. In ogni ramo, in ogni foglia… Verde di  gioventù, imbevuto di sole… Nell'aria - odorosa - che passa. (…)

Sono sceso ancora: nutrendomi di cose innocenti, di paesaggi corroboranti. Ho attraversato Piazza Sant'Antonio: non senza uno sguardo al barone Marcacci e ai suoi leoncini. I filata poi la via della pipa di gesso, son giunto in breve in fondo alla Motta: dove comincia Piazza Grande.

Un'occhiata, un'impressione fresca, gradita. A pianterreno, portici e portici, fin dove l'occhio arriva; sopra, ma soltanto in due o tre case, archi e colonne, nell'aria vivida, avvolgente. I portici, li percorreremo or ora. Gli archi e le colonne conviene invece goderli di quassù e immaginarne altri e altre in riva al lago, sul dorsale dei colli, in grembo ai monti: come una musica i cui motivi tornino e ritornino melodiosi, a quando a quando, in tutto il mio paese.

I portici, a Locarno, sono la passeggiata obbligatoria, inevitabile. Ti proteggono dalla pioggia e dal vento. Ti mantengono locarnese, se già lo sei; ti fanno diventare, se non lo sei. Ti avvicinano alla benevolenza dl prossimo: mentre passi (stanne certo) tutti in cuor loro ti danno il benvenuto.

T'avvii, ed ecco un capretto (l'autunno scorso, era un camoscio) che ti pende sul capo: è la bottega del tuo amico macellaio. Fai due passi, e t'imbatti in cappelli, ombrelli, ombrellini, ombrelloni. Due passi ancora, e vedi sventolare, appesi a certe sbarre, grembiuli, pezzuole colorate, e ogni genere di stoffe chiare, leggiadre. Una sagra di paese ti sorge innanzi a un tratto: le giovinette portano l'antico costume, tutti i volti sono un poco accesi.

Non mancano nemmeno i negozi che ti sembrano traboccarti tra le braccia e i piedi. Ti fermi: fra la gente e la merce, non puoi procedere più. Ti stanno innanzi e intorno mille cianfrusaglie e diavolerie: si ferro, rame, ottone, legno, paglia, maiolica…

Chiunque tu sia, amico locarnese, avrai certamente, sotto questi portici, o poco lontano, il "tuo" caffè: quello ove ti siedi a sorseggiare un cappuccino a leggicchiare i giornali. Non soltanto lo avrai, ma gli sarai fedele. «Si cambia più facilmente di religione che non di caffè» dicono i Francesi.

Oggi ti accomodi all'aperto, i tavolini non mancano. Sopraggiungono gli amici, ti circondano, ti fanno festa. «Di nuovo a Locarno!» dice l'uno. E un altro: «Eh già! Si torna sempre ai vecchi amori!». E un terzo: «Che c'è di nuovo oltralpe?». A tali peregrine domande tu rispondi non meno peregrinamente. E all'amico pessimista, sempre rannuvolato, molli a tradimento anche tu una domanda: «E così, come va la dolce vita?».

Dir cose insulse, superficiali, ha un senso più profondo che non paia: riposa dell'aspra vita. Resta dunque lungamente al caffè, amico mio. A poco a poco, se mi darai retta, avrai il senso confortante d'esserti rifatto per davvero cittadino di Locarno, e di venir riammesso, con molta indulgenza per tutti i tuoi trascorsi, in una comunità da cui parevi (e non eri) staccato e distante. (…)

Ristabilire così i contatti è bene: l'uomo non è solo. Ma, come a questo paese e a questa gente, così io mi sento legato all'insigne civiltà cui partecipano. Se il paese in certo senso mi limita, la civiltà mi amplifica ed eleva l'anima all'infinito.

Per servire intimamente, dal profondo, a questa civiltà, non s'è ancora scoperto mezzo migliore della solitudine. Stare a lungo con se stessi e con l'anima propria: non esiste regola più sicura, né più feconda. Farsi e mantenersi attorno il silenzio: per udirvi degnamente le sole voci che importino. Viaggiare certo giova; ma solo per qualche tempo. Poi conviene viaggiare in altro modo: per altri più meravigliosi paesi.

I libri, un tempo così ardentemente bramati, ora mi riempiono anche questa casa che pur sarebbe destinata al riposo, alla vacanza. Ne ho anche troppi, in verità. Comunque, fra i tanti, mi tornano sempre alla mano i pochi prediletti: Dante, Petrarca, Foscolo, Leopardi, Manzoni… Qualche minore è pur talvolta ricercato: il Boiardo, il Poliziano… Come potete meravigliarvi, amici, se, per giorni e giorni, non ricompaio tra voi?

Cari, immortali Maestri! Che io sia tanto piccolo, tanto indegno, non pare che se n'adontino. Che la mia casa basti appena per me e per loro, direi persino che l'abbiano caro. Amano la quiete, il raccoglimento, le giornate limpide, sospese. Scendono volentieri con me in giardino, m'accompagnano anche pei boschi, soffrono di posare alla buona sull'erba, tollerano persino che, di tempo in tempo, io alzi lo sguardo, e dia loro per compagni gli alberi che mi sorgono verdeggianti intorno. Il lago che fra essi traspare glauco e balenante, le montagne, le nubi: la mia terra, i miei cieli… Un momento, poi torno a loro. Sono sempre vissuto con loro, fin dai più giovani anni. Qualunque cosa accada, vivrò sempre con loro, fino alla morte. Mi sembra una grazia non terrena immeritata, sovrabbondante, di aver potuto concepire - io nato fra squallidi monti - un amore così alto, così ingenuo, così regale veramente. (…)

Cominciò stanotte, e fu dapprima una cosa torbida, insana, mescolata stranamente al buio, al sonno e ai sogni: pioggia torrenti, lampi brevi e scattanti, tuoni da spaccare cieli e montagne. «Lo dicevo io» pensava ognuno svegliandosi. «Era troppo caldo: non poteva durare». Poi il tuono si fece continuo, tambureggiante. «In qualche posto succedono disastri…». Infine, s'udì la pioggia scrosciare ancor più larga, ancor più gagliarda. «Il Bambino Gesù li ha aperti proprio tutti, i rubinetti del cielo!» ci gridò la piccina dal suo letto.

Stamani, la veniva ancor giù che Dio la mandava. Dopo una breve schiarita in sul mezzogiorno, è piovuto ancora un poco alle tre, alle quattro. Poi è cessato, e s'è sentito il vento: in aria e nelle ossa. Si dice "vento" soprattutto se viene dal nord; se no, in certi luoghi almeno, si dice "aria". Il vento ha un gran merito: porta il bel tempo. Inoltre, è alquanto freschetto: scende dalle Alpi, ha sfiorato i ghiacciai.

Le ore passano, il vento si rinforza, il cielo si rasserena. Si esce come da un incubo, si rialza il capo, si spalancano le finestre. «Entra, entra, bell'aria vispa, aria di sera. Rinnova la casa. Preparaci il guanciale per un sonno lungo, ristoratore!».

E voi, occhi, andate. Questa è l'ora vostra.. Il vento lavora per voi. Sul Tàmaro, una nuvola: bianca e lunga. Naviga lenta, naviga come un dirigibile, verso il sud. Buon viaggio, nuvola fausta. Vola sulla Lombardia, vola sul Piemonte. Raggiungi il mare, vola incantata sul mare.

Lassù, verso Bellinzona, quasi ancor contro il piano, quattro, cinque pennacchi, bizzarri, di fumo grigio. Sono brandelli di nebbia, rimasti a terra. Vorrebbero alzarsi, diventare nuvola anch'essi, migrare anch'essi pei cieli. Non possono, rimangono miseramente lì.

Chi potesse volare come le nubi, volare sulle valli, ora! Vedrebbe cento e cento cascate e cascatelle. Bianche e grige, balzanti e rimbalzanti., Le une con sordo scroscio, le altre con delicato mormorio. Tutte maestre nell'arte di cader bene. Con sovrana eleganza.

Intanto, da tutte queste aeree vicende, è nato l'arcobaleno. Poggia, da una parte, sulla vetta del Tàmaro; dall'altra, sul pinnacolo del Sassariente. S'inarca altissimo nel cielo, fra i due: costruitelo voi, ingegneri, un ponte così! Di rado io lo vidi tanto grande e continuo. I colori vi si distinguono mirabilmente. E il rosso annuncia abbondanza di vino., il verde abbondanza di fieno, il giallo abbondanza di grano.

Così lo interpretano, l'arcobaleno. E i fisici perfino lo spiegano. A noi poveretti basti ammirarlo. Così fiabesco, così celeste. Dal profondo. In silenzio.

 

Presento il mio Ticino di Giuseppe Zoppi (1896-1952) apparve in prima edizione presso l'editore Mondadori, nel 1939; e in seconda edizione, ancora per Mondadori, nel 1941, in piena guerra. Poi, le difficoltà economiche in cui l'editore milanese venne a trovarsi dopo il secondo confitto mondiale, lo obbligarono a cedere i diritti di pubblicazione  per una terza edizione, che apparve nel 1949, per i tipi dell'Istituto Editoriale Ticinese.

Abbiamo scelto di ricordare Giuseppe Zoppi perché ci sembra che l'oblio in cui è caduto lo scrittore ticinese sia largamente immeritato. Certo, giudicato sul metro dei "grandi", egli non può risultare che un autore minore - cosa della quale era perfettamente consapevole lui per primo. Eppure crediamo che gli spetti un doveroso riconoscimento, non solo quale uno dei maggiori esponenti della letteratura della Svizzera italiana e il maggiore discepolo di Francesco Chiesa (l'autore di Tempo di marzo e Racconti del mio orto), ma anche quale scrittore giudicato in sé stesso, per i meriti della sua limpida e cordiale scrittura.

Nativo della Valle Maggia, Zoppi ha rivissuto il mondo incantato della sua fanciullezza contadina in pagine piene di freschezza, specialmente in quella che è considerata la sua opera maggiore, Il libro dell'Ape; ma anche nelle pubblicazioni successive: La nuvola bianca, Il libro dei gigli e Quando avevo le ali. E lo stesso entusiasmo, la stessa aspirazione alla bellezza ha riversato, come insegnante, nel periodo in cui - a partire dal 1931 - ha tenuto, presso il Politecnico di Zurigo, la cattedra che era stata di Francesco De Sanctis, prefiggendosi la "missione" di far meglio conoscere in Svizzera i tesori della letteratura italiana.

 

Giuseppe Zoppi è stato un poeta, innamorato della natura del suo Ticino e della cultura italiana; uno spirito contemplativo ed estatico, capace di guardare con stupore e gratitudine al mondo delle piccole, grandi cose d'ogni giorno. Una lettura distratta e superficiale potrebbe farlo apparire eccessivamente "bucolico", ingenuo e "disimpegnato": perché, da Leopardi in poi - ma soprattutto da Svevo e Pirandello - noi non siamo più capaci di apprezzare uno scrittore se non ostenta un pessimismo radicale, se non denigra la vita in ogni modo, se non avviluppa i suoi lettori in una vischiosa ragnatela di amarezza, disillusione, angoscia e completo relativismo etico. Per essere apprezzati dalla critica, bisogna essere problematici ad ogni costo; e, se ciò ha una sua ragion d'essere nei grandi autori che abbiamo qui sopra menzionato, talvolta, nei loro piccoli e goffi imitatori, non v'è ragione alcuna - ragione d'arte, intendiamo - se non quella di navigare lungo il filo della corrente, dicendo quello che dicono tutti e assumendo le pose richieste dalle mode del momento.

Giuseppe Zoppi è uno spirito candido, francescano (e, per certi aspetti, un po' oraziano): ma la sua semplicità non dev'essere confusa con il semplicismo; la sua serenità, per incomprensione degli aspetti problematici della vita. Al contrario, il suo candore e la sua semplicità sembrano scaturire da una radice di robusto buon senso contadino; la sua saggezza è una saggezza agreste, che si rivela non tanto nelle deliziose descrizioni del paesaggio da lui tanto amato, ma in squarci lampeggianti di profondità speculativa. Si rifletta, per esempio, su questa frase, buttata lì quasi con noncuranza, a proposito delle chiacchiere che si fanno al caffè, coi vecchi amici: «Dir cose insulse, superficiali, ha un senso più profondo che non paia: riposa dell'aspra vita».

È vero che invano si cercherebbe, nelle pagine di Zoppi, una eco esplicita dei drammi della storia, dei problemi sociali e così via. E allora? La stessa cosa vale per la narrativa e per il teatro di un grande come Anton Cechov, e di numerosi altri. Non si chiede a un poeta di essere, per forza, socialmente e politicamente impegnato: gli si chiede d'essere uomo tra gli uomini, di dare espressione a sentimenti universali.

Altro che scrittore bucolico! (E del resto, non dimentichiamo che l'autore delle Bucoliche, Virgilio, è stato il più grande della letteratura latina, e uno dei maggiori di ogni tempo). Giuseppe Zoppi era un uomo mite e gentile, innamorato del Ticino e dell'Italia, sensibile a tutto ciò che è bello e buono e vero; e capace di scorgere l'impronta di una superiore armonia in ogni piega dell'esistenza. In una parola, era un saggio.

C'è bisogno di riscoprirli e di tornarli a leggere, questi scrittori saggi, figli di una civiltà contadina che, del mondo, aveva compreso molte cose - assai più cose, crediamo, di quante non sia mai in grado di comprenderne la cosiddetta civiltà dei consumi.

 

 Dal libro di Giuseppe Zoppi Presento il mio Ticino, 3a edizione riveduta, Istituto Editoriale Ticinese, 1949, pp. 129-144: