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I palestinesi di Gaza, vittime del paradosso del carburante

di Carlo M. Miele - 06/05/2008




Da mesi la popolazione di Gaza fa i conti con la mancanza di carburante determinata dal lungo embargo israeliano. Tagli dell’energia elettrica e lunghi periodi di penuria alimentare sono diventati la norma per gli 1,5 milioni di palestinesi che vivono nell’enclave controllata da Hamas.

Un vero dramma, divenuto ancora più pesante da sostenere a partire dallo scorso fine settimana, quando l’Egitto ha dato il via a nuove forniture di gas allo Stato ebraico, che aumenteranno di un quinto la capacità energetica israeliana. Circa 1,7 miliardi di metri cubi che verranno trasportati ogni anno (per i prossimi 15) da el-Arishin fino ad Ashkelon, passando proprio al largo della Striscia di Gaza, in acque territoriali palestinesi.

Il paradosso energetico non nasce oggi, ma quasi trenta anni fa, con lo storico trattato di pace fra Tel Aviv e il Cairo. Allora, nel 1979, l'Egitto si impegnò a vendere petrolio (divenuto poi gas) all’ex nemico, in cambio del suo ritiro dal Sinai.

Nel 1999 le autorità egiziane annunciarono con non poca enfasi la nascita del “gasdotto della pace”, che avrebbe dovuto portare il gas dei pozzi del Sinai nei Territori occupati palestinesi, in Israele e in Siria.

Col tempo il progetto è mutato sostanzialmente. Tanto che fino a oggi ne è stato realizzato solo un breve tratto, quello che porta dalla egiziana al-Arish (a ridosso del confine con la Striscia) agli impianti israeliani di Ashkelon. Il tutto grazie a una lunga conduttura sottomarina, che attraversa le acque del mare palestinese, senza però “fermarsi” a Gaza.

In base al contratto firmato nel 2005, le forniture di gas egiziano (dal valore di 2 miliardi e mezzo di dollari, e venduto dal consorzio East Mediterranean Gas del Cairo, in cui entrano anche capitali israeliani) proseguiranno per i prossimi 15 anni.

A poco sono servite le critiche dei Fratelli musulmani egiziani, che hanno contestato il governo per aver accettato di rifornire di energia “il paese che massacra i palestinesi”. Anche una vecchia richiesta avanzata dagli egiziani per portare una parte del loro gas alla termocentrale di Gaza è caduta nel vuoto, anche in virtù della riconversione a diesel dell'impianto della Striscia.

Nel frattempo restano bloccati anche i pozzi marini di gas posti a poco più di 30 chilometri dalla costa di Gaza e gestiti dal 2000 dalla società britannica Bg, che però sono fermi. L’obbligo di consegnare il 10 per cento dei ricavati ai palestinesi ha finora impedito ogni accordo.

Fatto sta che oggi la Striscia dipende pressoché totalmente dalle forniture di carburante di Israele, che può sospenderle in ogni momento con drammatiche conseguenze per i suoi 1,5 milioni di abitanti.

Così come è avvenuto ieri, quando Tel Aviv ha deciso di chiudere "fino a nuovo ordine" il terminal di Nahal Oz, in seguito a un nuovo lancio di razzi sulle città israeliane da parte delle Brigate di al-Qods, obbligando così l’Agenzia delle Nazioni Unite per i profughi palestinesi (Unrwa) a sospendere la fornitura di scorte alimentari alla striscia di Gaza per mancanza di carburante.

Una decisione che - secondo il portavoce dell'Unrwa, Chris Gunness – potrebbe comportare “problemi umanitari molto gravi", in quanto l’80 percento degli abitanti della enclave palestinese (1,1 milioni di persone, in buona parte minori) fa affidamento proprio sugli aiuti umanitari per la sua sussistenza.

Già lo scorso 29 aprile, in occasione della prima chiusura recente del terminal di Nahal Oz – un gruppo di ong (tra cui gli israeliani di Medici per i diritti dell’uomo e del Centro giuridico per la libertà di movimento Gisha e i palestinesi dell’organizzazione umanitaria Al-Mizan) avevano chiesto a israelee di sospendere le restrizioni sul carburante, sostenendo che una "sanzione collettiva" contro la popolazione civile può essere considerata un "crimine di guerra".

(fonte: Ansa, Agence France Presse, Bbc News)