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Cara amica, ti scrivo…

di Francesco Lamendola - 07/05/2008

 

 

Cara amica, ti scrivo per riprendere il filo di un discorso interrotto.

Quando ti ho telefonato e poi sono passato a trovarti  - ed era la prima volta che entravo nella tua casa - mi hai accolto, con semplicità e naturalezza, in tuta da ginnastica.

Poche donne avrebbero resistito al bisogno compulsivo di mettersi il vestito bello, di truccarsi e di indossare qualche gioiello, per apparire sotto la luce migliore. Così, senza un preciso secondo fine: come per un riflesso condizionato.

Tu, no.

Mi hai aspettato così com'eri, in tenuta da casa. Non ti sei cambiata né preparata: sei rimasta ad attendere la mia visita in tuta da ginnastica.

Un gesto che mi è piaciuto, perché da esso traspariva il tuo star bene con te stessa. Chi sta bene con se stesso, non sente alcun bisogno di presentarsi agli altri sotto una luce particolare: si mostra con spontaneità, così come egli è. Non desidera mostrarsi trasandato per il gusto di farlo, ma neppure vuole essere schiavo della ricercatezza.

 

Sembra una cosa da poco, una cosa da nulla: invece, dietro un tale comportamento, c'è tutto un mondo. Un mondo di trasparenza, di lealtà: innanzitutto con se stessi. Sono poche le persone che sanno accettarsi così come sono, anche nell'aspetto fisico; figuriamoci il fatto di saper accettare il giudizio altrui.

Sono poche, estremamente poche le persone che sanno guardarsi allo specchio e dire alle proprie rughe, ala propria calvizie, ai propri difetti: «Ebbene, eccoci qui. Voi siete i miei compagni di viaggio; non ho motivo di ostentarvi, ma neppure di tentare di nascondervi. Sarebbe assurdo; anzi, sarebbe patetico».

Quando un essere umano che ha passato la quarantina sa fare questo, significa che ha saputo fare una lunga strada con se stesso; significa che, nel suo piccolo, è un grand'uomo (o una gran donna). Significa che ha compreso un sacco di cose: cose che non stanno scritte sui libri e che, dunque, non ha avuto la possibilità di imparare da un foglio di carta stampata. Vuol dire che le ha imparate dalla vita: il che è una cosa particolarmente rara, particolarmente apprezzabile.

Non solo.

Dal momento che l'intera società moderna procede trionfalmente (si fa per dire) sulla via opposta, cioè sulla via dell'apparire invece che su quella dell'essere, vuol dire anche che quella tal persona ha saputo elaborare, in solitudine, una propria scala di valori e un proprio codice di comportamento. Vuol dire che ha capito la differenza fra la vera e la falsa stima di sé; fra il vero volersi bene e quello fasullo, suggerito dalle mille sirene idiote della pubblicità, del cinema e della televisione. Perciò, possiamo star certi che quella è anche una persona forte, capace di andare controcorrente e di infischiarsene delle mere apparenze.

Conosciamo donne che non farebbero mai entrare in casa propria  gli amici - per non parlare degli estranei - se prima non hanno lucidato l'ultima piastrella e scopato l'ultimo granellino di polvere; che non scenderebbero mai nel negozio sotto casa per comperare il pane o il latte, se prima non si sono truccate per mezz'ora e se non si sono cambiate d'abito, indossando i vestiti migliori, dalla testa fino alla punta delle scarpe. Hanno il terrore di essere trovate in disordine, di essere giudicate sciatte, di essere scoperte "al naturale", senza trucchi e senza veli.

E di chi hanno un tale terrore? Delle vicine, delle colleghe, delle amiche. Non degli estranei; e nemmeno, genericamente, degli uomini - cui pure, istintivamente, vorrebbero piacere; così come essi, istintivamente, desiderano piacere alle donne. No: il terrore di essere giudicate e trovate brutte, o con i vestiti trasandati o con la casa in disordine, nasce nei confronti delle altre donne, e specialmente di quelle della loro cerchia di conoscenze. Finché si tratta di sconosciute, pazienza; ma farsi vedere senza trucco, non bene pettinate e in abiti di casa da una vicina, da una collega o - peggio di tutto - da un'amica: questo sì che sarebbe intollerabile; questa sarebbe la suprema sciagura, che bisogna scongiurare ad ogni costo!

Inutile dire che la cosa diventa sempre più ossessionante, mano a mano che passano gli anni e aumenta l'età.  Perché, secondo i grossolani canoni estetici oggi diffusi e imperanti - è proprio il caso di dirlo -, una donna che ha varcato la quarantina non può sperare altra salvezza se non quella che viene dalle creme antirughe, dalle lampade abbronzanti (che affrettano, al contrario, l'invecchiamento della pelle, ma in compenso fanno tanto Maldive o Santo Domingo), dalla tintura dei capelli (possibilmente coloro biondo-platino: una tinta assurda e, da noi, inesistente allo stato naturale) e dal vestito firmato, nell'ultima versione della moda.

Di nuovo: una quarantenne che non si lascia ossessionare dall'età e dalle rughe, dimostra di essere  davvero una gran donna. Se la società non fosse piena di maschi effeminati, i signori uomini  dovrebbero mettersi in fila per ammirarla e farle un po' di corte.

 

Né solo questo è stato bello, cara amica, nel tuo comportamento.

Anche la tua sincerità, il tuo confessare: «mi manchi, sinceramente l'ammetto»; anche questo tuo rinunciare al vecchio gioco - tipicamente femminile -  del nascondimento, per mostrarti così come sei, nella sfera dei tuoi sentimenti; anche questo è stato bello. Bello perché raro.

Dovrebbe e potrebbe essere la norma, nelle relazioni umane; invece è la rara e felice eccezione. Quante persone aspettano che sia l'altro a scoprirsi, per poi approfittarne subito e mettersi in una posizione di forza, di vantaggio.  Miseri individui - ma sono la maggioranza - che non hanno uno straccio di coraggio, ma si aspettano che lo abbiano gli altri; e se lo aspettano, non per ricambiare la franchezza e la lealtà ricevute, ma per tenersi al coperto quanto più a lungo possibile, in modo da non perdere il vantaggio in cui si trovano…

Perché è un gran bel vantaggio sapere quel che si muove nel cuore altrui, mentre si cela astutamente quel che accade nel proprio. Così, si è sempre in grado di avanzare o indietreggiare, secondo la convenienza, rischiando giusto il minimo indispensabile; mentre l'altro, davanti a noi, si è interamente esposto e, quindi, è più vulnerabile che mai…

Ci sono dei miserabili - e non sono affatto rari - che godono di un rapporto ineguale di tal fatta, dove essi hanno in mano tutte le carte buone e le tengono coperte, mentre l'altro ha messo in tavola le sue, senza calcoli o finzioni.

Perciò, quelle parole che ti uscivano dal cuore: «mi manchi, sinceramente l'ammetto», ti hanno fatto onore. Avresti potuto continuare il gioco a carte coperte; non l'hai fatto: hai preferito metterle in tavola.

Insieme alle tue paure, del resto. E chi non le ha? Ma confessarle, è cosa da persone coraggiose. Tu le hai confessate: non è da tutti.

Anche questo, è stato un bel gesto. Il terzo, dopo quello di mostrarti  per ciò che sei, fisicamente e interiormente.

 

Il quarto, è che hai saputo dire grazie.

Goffamente e un po' ruvidamente; però ti sei ricordata di ringraziare. Per quello che ritieni di aver ricevuto, attraverso un nostro lungo e gratuito impegno che, a tratti -  e adesso in modo particolare -, ci è costato quasi la salute. Certo, ringraziare quando si riceve qualcosa di prezioso - specialmente se la si riceve gratuitamente - dovrebbe far parte della normalità, nelle relazioni umane. Ma così, invece, non è: e ciascuno di noi lo sa bene, per diretta esperienza.

È cosa rara, rarissima, che qualcuno torni indietro a dire "grazie" per un bene ricevuto: specialmente se si tratta di un bene di natura spirituale. Se riceve in dono un oggetto materiale, magari costoso, di solito anche la persona più sgarbata si ricorda di borbottare un "grazie": fa parte delle buone maniere. Subito dopo, magari, quel costoso vassoio o quel servizio da tè prendono la via di qualche   armadio polveroso, che diverrà più o meno la loro tomba; ma, intanto, il ringraziamento è stato detto (o scritto), le forme sono state salvate.

Ma dire "grazie" per un dono spirituale: quando mai? Già, perché non è avvolto nella carta da regalo di qualche boutique del centro; dunque, non è costato nulla. E allora, perché mai si dovrebbe ringraziare?

Questo è, appunto, l'atteggiamento mentale per cui così tante persone hanno smesso di ringraziare la vita. Non ringraziano più: né per il fatto di essere al mondo, e magari in buona salute; né per il fatto di avere una casa e un lavoro; né per essere circondate dall'affetto delle persone care; né per le meraviglie che la natura ci offre ogni giorno: dal canto di migliaia d'uccelli che salutano il primo albeggiare, alla pioggia che lava e purifica, al vento gagliardo che spazza le nubi e porta dolci profumi, al sole che riscalda gioioso, fino al cielo stellato che ci avvolge ogni notte, come un sipario sontuoso, quale neppure il più potente imperatore saprebbe o potrebbe commissionare ai suoi migliori architetti.

Queste persone danno tutto per scontato; o, per dir meglio, non vedono neppure da quanta bellezza sono circondate, da quanta bontà, da quanto splendore. Non se ne accorgono proprio; però, non appena temono di perdere la più piccola comodità materiale, ecco che subito levano fino al cielo i loro lamenti lacrimosi e le loro inconsolabili grida di dolore. Eh già: come potrebbero vivere per qualche giorno senza le televisione? Come potrebbero fare a meno dell'automobile, del videoregistratore, del computer? Come potrebbero sopportare l'affronto che quella antipatica della collega, o della vicina del piano di sotto, si sia comperata un vestito o un paio di scarpe eleganti, proprio identiche alle loro?

 

Ma tu ti sei accorta di aver ricevuto qualcosa.

Te ne sei accorta, e hai voluto dire grazie: come sapevi, senza usare espressioni ricercate. E mescolando il grazie alla confessione delle tue paure.

È scritto nella Bhagavad-gita che gli esseri umani, i quali non pregano il Signore Krishna per ringraziarlo di tutto ciò che ricevono incessantemente, sono in tutto e per tutto dei ladri. Prendono, e tuttavia non solo non offrono nulla per ricambiare, ma neppure ringraziano. Così facendo, commettono un vero e proprio furto.

Anche noi saremmo degli ingrati e, forse, dei ladri, se non ammettessimo il nostro debito con quanti, in vario modo, ci stimolano a proseguire nell'impegno di aiutare il prossimo, per quanto possibile, a trovare la via.

Non che pensiamo di averne le chiavi. A volte accade che - come dice Dante - chi va innanzi faccia  luce a coloro che lo seguono, ma egli stesso rimane al buio. Perciò non è il suo vantaggio che sta cercando: e, se incespica o va a sbattere; se cade e si fa male, lo fa a suo rischio e pericolo. Però,  intanto, egli traccia la strada; e altri dopo di lui, se vorranno, la potranno seguire, con maggior chiarezza e con un minor grado di fatica e di rischio.

 

Facesti come quei che va di notte

che porta il lume dietro e sé non giova,

ma dopo sé fa le persone dotte… (Dante, Purg., XXII, 67-69).

 

Sappiamo che un certo numero di persone - poche o tante, non importa - traggono un beneficio dal nostro impegno disinteressato. Alcune di esse hanno voluto dircelo. Non molte: ma, dei dieci lebbrosi guariti dal Maestro, si sa che uno solo si ricordò, pur nella gioia del momento, di tornare indietro per rendergli grazie (cfr. Luca, 17, 11-19).

A nostra volta, sappiamo bene che il merito del bene che riusciamo a fare, se pure ne facciamo, non è nostro, ma di qualcun altro.

In primo luogo, di quanti ci hanno dato il loro amore o la loro amicizia, formando il nostro mondo affettivo e morale.

In secondo luogo, di quanti ci hanno dato la loro competenza, il loro sapere, contribuendo a formare il nostro mondo culturale e spirituale.

Non tutti sono ancora in questo mondo; alcuni ci hanno lasciati lungo il cammino: ma li ricordiamo tutti, con immutata gratitudine - e li sentiamo sempre accanto.

In terzo luogo, il merito è di qualcuno che, quando i nostri pensieri sono puri e le nostre parole sono buone, pensa attraverso di noi e parla attraverso di noi. Non abbiamo alcun merito da rivendicare in prima persona, se non - forse - quello della fedeltà alla chiamata. Per il resto, ci sentiamo piccoli e fragili; inadeguati, come colui che procede nel buio, a tentoni.

Sarà la strada, tuttavia, a venirci incontro; sarà lei a trovarci. Di questo, non abbiamo certo alcun merito. Perciò, vogliamo ringraziare anche la strada: lo stormire delle foglie nel bosco incantato, il  vento profumato che si spande nella notte d'estate.

E poi, avanti, sempre avanti.

Una forza benevola guiderà i nostri passi, anche se talvolta andremo a sbattere o cadremo.

Come si potrebbe imparare qualcosa dalla vita, senza cadere mai? È cosa sciocca solamente il pensarlo.

Ce n'è di strada, che si allunga innanzi a noi, nella luce argentata della luna!

Forse, non giungeremo mai a vederne la fine…

Ma l'importante non è arrivare; l'importante è camminare. E, se possibile, aiutare qualcun altro ad avanzare a sua volta, rischiarandogli la strada nel buio della notte. Questo è quanto crediamo di avere imparato dalla vita.

Una saggezza semplice, umile, che non ha pretese e non si vanta.

E di che cosa dovrebbe vantarsi, poi? Anch'essa è un dono, ricevuto gratuitamente e senza averlo  davvero meritato.

Anche per essa, non possiamo fare altro che mormorare un "grazie".