Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / L’esercito delle 12 scimmie

L’esercito delle 12 scimmie

di Phil Rees - 07/05/2008

 «Mi piace la scimmia» ha cinguettato Mao-be raccogliendo con le dita la carne da un cranio. «Le cervella sono la parte migliore» ha ribadito entusiasta, con la bocca piena.
Mao-be e l’amico Noe-be masticavano la carne ben cotta di una scimmia che avevano preso quel mattino. Noe-be aveva in mano una coda ritorta: «Anche questa è gustosa, come il manzo, ma più dolce». I due giovani sui 25 anni indossavano maglietta e jeans durante il pranzo nel loro accampamento, un’accozzaglia di piccole capanne di legno sul limitare della foresta pluviale. Mao-be e Noe-be sono due dei circa 500 membri superstiti di una tribù a rischio di scomparsa, i Nukak-Makù, cacciatori-raccoglitori nomadi che vivono nei pressi del fiume Guaviare, nel cuore della giungla amazzonica nel Sud della Colombia. I due giovani erano i portavoce della tribù nei contatti con il mondo esterno.

Noe-be considerava un po’ bizzarro il mio interesse per il loro pasto a base di scimmia alla brace ed era imbarazzato: «Anche se sembra umana, non la confondiamo con una testa umana» mi ha rassicurato. La scimmia viene arrostita intera, come un maialino, infilata in uno spiedo che gira. Si presta particolare attenzione alla cottura della testa. «Bisogna cuocerla a lungo perché all’interno il cervello è crudo e il cranio è più resistente alla cottura».

Noe-be mi ha offerto un pezzo di cervella. Ho esitato. Mi vanto di aver mangiato di tutto nel corso dei miei viaggi; ho assaggiato lo scorpione in Cina, la giraffa in Kenya, il cane in Corea e il sangue di serpente in Vietnam. Ma in questo caso gli operatori umanitari presenti nel campo sono intervenuti dicendo che mangiare le scimmie provoca schizofrenia. Si sapeva che i tra Nukak si verificava una forte incidenza di depressioni e i suicidi erano purtroppo molto comuni. In mancanza di un’evidenza medica conclusiva, i locali erano convinti che mangiare carne di scimmia provocasse malattie mentali. Dopo una pausa, ho sorriso educatamente e declinato l’offerta, alquanto sollevato dal fatto che altri avevano preso la decisione. Noe-be ha fatto spallucce e ha trangugiato il pezzo di carne rosata.

Ero arrivato quel giorno al campo dei Nukak con la luce del sole che filtrava tra le nuvole e sprazzi di arancione che illuminavano la foresta vicina. Mao-be e Noe-be indossavano solo perizomi e le donne decoravano il volto degli uomini con una tintura ottenuta da bacche rosse. I Nukak hanno un viso largo, scolpito, sono privi di sopracciglia e hanno pochi peli sulla faccia. Quel rituale all’alba faceva parte dei preparativi per la quotidiana battuta di caccia. Quel mattino mi sono unito alla dozzina di cacciatori, che mi hanno chiesto di farmi dipingere il viso. I Nukak credono che dipingersi la faccia sia un segno di amicizia; ciò inoltre gli permette di uccidere le scimmie aderendo a un rigoroso codice morale che è approvato dai loro dèi.

In questa cultura, la scimmia è sia venerata sia mangiata, nel quadro di un rituale di conciliazione con la natura. Sono rimasto sorpreso vedendo i bambini nukak giocare con le scimmie piccole, trattate come animali domestici. Nel campo ne sciamavano decine. Le scimmie sono trattate con dolcezza e rispetto fino al momento in cui vengono uccise per essere mangiate. Nella mitologia nukak, il popolo è salito da un mondo sotterraneo e la vita odierna si svolge in un mondo intermedio, che devono spartire con le scimmie. Il fiume Guaviare è considerato il «padre» della loro nazione e i suoi laghi sono la «madre della vita». Il loro traguardo spirituale è accedere al mondo superiore, in cui l’uomo possiede poteri sovrannaturali.

Lo stile di vita tradizionale dei Nukak è rimasto in larga misura immutato fin dagli albori dell’umanità. Il primo contatto di questo gruppo con il mondo esterno risale al 1988, quando una trentina di indiani è uscita dalla giungla entrando in una cittadina vicina. Erano nudi e avevano con sé cerbottane; gli abitanti della cittadina e gli indiani sono rimasti a guardarsi increduli.

La loro civiltà sarebbe cambiata per sempre. L’improvviso cozzo tra culture ha travolto i Nukak, che non avevano resistenza all’influenza. All’inizio tutti i membri della tribù di oltre 40 anni sono morti di malattia.

Fino a quel momento, essendo nomadi si muovevano a loro piacimento, dormendo in amache costruite con grandi foglie di palme. Oggi metà della popolazione restante dei Nukak vive in questo campo di fortuna. Ultimamente, molti erano fuggiti dalla giungla a causa della furiosa guerra civile in Colombia. Il campo di battaglia tra i guerriglieri di sinistra e il governo si è spostato più all’interno della giungla e i coltivatori di coca hanno diboscato ampi tratti della foresta in cui una volta si aggiravano i Nukak. Quando lasciano la giungla, gli indiani vedono il mondo esterno e si convincono che i suoi abitanti posseggano poteri magici. Quando vedono una torcia elettrica, credono che il suo possessore abbia imbrigliato la potenza del sole. Vedono gli aerei volare sopra le loro teste e credono che corrano lungo strade invisibili costruite nel cielo.

Una delle prime cose che imparano dagli operatori umanitari è che devono coprirsi il corpo. Un’adolescente del campo aveva ricevuto un abito da sposa da un’istituzione benefica cristiana: le era stato detto che non poteva girare nuda. Poi subentra il desiderio di possedere oggetti. Un Nukak ha elencato le parole spagnole che ha imparato e che non hanno un equivalente nella sua lingua: «Vestiti, pantaloni, scarpe, sapone, acqua di colonia».

La scimmia però resta un elemento centrale nella cultura dei Nukak e nella loro idea della propria sopravvivenza. Cacciano ancora con le tradizionali cerbottane. In un angolo del campo un gruppo di uomini applicava sui dardi un veleno fatto con piante trovate sul suolo della foresta. Noto come curaro, questo agente tossico naturale blocca i ricettori del cervello provocando il rilassamento dei muscoli. Nel giro di qualche minuto, la vittima perde il controllo degli arti e, pur rimanendo cosciente, non è in grado di muoversi.

La caccia è iniziata con una faticosa marcia di quattro ore, attraversando corsi d’acqua e addentrandoci nella giungla. I Nukak si muovevano agili attraverso il sottobosco, nel caldo umido tropicale, mentre io mi trascinavo dietro di loro, sbuffando e inciampando nei rampicanti. Quando i cacciatori individuavano una scimmia nel fogliame, si arrestavano di colpo e ne imitavano il verso. Puntavano le cerbottane e poi si sentiva un sibilo al quale seguivano sorrisi e congratulazioni. Guardando in alto, dopo essermi asciugato il sudore dagli occhi, vidi sopra di me una scimmia colpita da due dardi. L’animale era appeso con entrambe le braccia a un ramo. Sembrava che portasse qualcosa. Lentamente, un braccio gli è ricaduto lungo il fianco; le forze lo abbandonavano e dopo cinque minuti è caduto da un’altezza di 30 metri. Avvicinatomi, mi sono accorto che portava con sé uno dei suoi cuccioli. Uno dei Nukak ha preso il piccolo, apparentemente illeso ma ancora aggrappato alla madre paralizzata. Lo ha cullato tra le braccia, mentre un altro cacciatore tirava fuori un randello con il quale ha ucciso la madre.

Siamo tornati al campo con mezza dozzina di scimmie morte e siamo stati accolti da una turba di ragazzini seminudi, alcuni con una scimmietta sulle spalle.
Il piccolo della scimmia uccisa è stato portato a una delle donne della tribù. A quel punto è avvenuta una cosa che mi ha lasciato stupito: la donna ha portato la scimmietta al petto e l’ha nutrita con il proprio latte. «Ci prendiamo cura dei piccoli. Li facciamo crescere e poi li liberiamo» mi ha spiegato Mao-be. «È naturale che lo si faccia. Dobbiamo assicurarci che ci siano scimmie affinché i nostri figli sopravvivano».

Qualche settimana dopo la mia partenza, ho saputo che Mao-be si era addentrato nella giungla con una bottiglia di curaro, la tossina vegetale usata per le frecce avvelenate. Ha bevuto la bottiglia ed è stato trovato morto il mattino seguente. Era stato accusato di avere rubacchiato tra le donazioni fatte alla tribù per comprarsi vestiti e alcolici e non aveva sopportato il disonore.

Mentre il nostro mondo si trova ad affrontare le implicazioni morali ed economiche della manomissione della natura – sotto forma di cambiamento climatico, allevamento industriale degli animali, piante geneticamente modificate – molto potremmo imparare dal rapporto dei Nukak con il mondo che li circonda. Essi sanno che le scimmie costituiscono una fonte naturale e sostenibile di cibo e questo dato viene rispettato dalla loro cultura.

Purtroppo, dopo aver preso contatto con una società consumistica che attribuisce scarso valore alla sostenibilità, il mondo dei Nukak si va disintegrando: l’Onu avverte che nell’arco di poco più di una generazione essi e la loro cultura finiranno per estinguersi.


Tratto dall’ultimo numero (34) della rivista Slowfood

Phil Rees è un giornalista e scrittore. Vive a Londra.

Traduzione di Davide Panzieri