Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Nicola Tommasoli: morto per niente?

Nicola Tommasoli: morto per niente?

di Alessandra Colla - 07/05/2008

Fonte: alessandracolla

È morto l'altro ieri Nicola Tommasoli, il ragazzo aggredito il primo maggio da un gruppetto di sfaccendati confusi.
Non uso la parola “branco”, e non classifico neanche questi ragazzi come “naziskin” o “fascisti” — lo stanno facendo tutti e io non sono “tutti”. Resto sgomenta, invece, di fronte alla profonda banalità di questa morte, alla sua gratuità, al suo essere frutto di una coazione a ripetere indotta da decenni di martellamento culturale. Non sono la sola: tutti s’interrogano sui meccanismi perversi (e non è retorica, questa) che hanno portato cinque ragazzi qualsiasi a inventarsi un’appartenenza ideologica in nome della quale giustificare la licenza di uccidere.
Perché guardiamoli bene, questi ragazzi improvvisamente assassini: tutto sono fuorché naziskin. Niente teste rasate, niente tatuaggi, niente simboli in evidenza. Sono ragazzi "normali", che studiano, che lavorano, che vivono in famiglia: sono quelli che “io li conoscevo bene”, “non avrei mai pensato”, “chi l’avrebbe mai detto” e via banalizzando.
Mi rendo conto che è la seconda volta che uso il termine “banale” in poche righe: ma non mi viene in mente altro, di fronte alla piattezza dell’equazione obsoleta fascismo = violenza. Preciso che non è “violenza” la parola che m’inquieta, ma “fascismo”: nei confronti del quale si è commesso il tragico errore di assimilarlo a un monolito liscio, compatto e impenetrabile come neppure Arthur C. Clarke avrebbe saputo immaginare (analogo e non meno tragico errore, del resto, lo si è compiuto attribuendo la stessa massiccia opacità all’antifascismo, sia chiaro).
“Fascismo”, dunque, è diventato sinonimo di "male assoluto", come sappiamo: cosa su cui si potrebbe discutere fino alla fine dei tempi senza arrivare a nulla, e quindi lasciamo perdere. Non lasciamo perdere, invece, anzi raccogliamola — e teniamola da conto come l’indizio prezioso che di fatto è — la constatazione che nel confuso immaginario collettivo degli ultimi decenni è andata prendendo piede la caricatura del fascismo: ovvero lo stravolgimento del termine e del suo significato, operato in base all’identificazione di un’intera costruzione ideologica con uno solo dei suoi elementi — la violenza, appunto.
Che è esistita, naturalmente, proprio come esiste tuttora la violenza dei e nei regimi c.d. democratici. Nessuno, mi auguro, vorrà negarlo: l’esercizio della violenza — vogliamo chiamarla coercizione, così le anime belle si agitano meno? — l’esercizio della coercizione, dunque, è parte integrante della natura umana; anzi costituisce la base fondante di ogni istituzione sociale a partire dalla famiglia per passare attraverso la scuola etc. (Qui ci starebbe bene anche un accenno al nome santo d’anarchia, ma finiremmo troppo lontano e non voglio divagare).
Grazie a quello stravolgimento, allora, il fascismo ha perso ogni significato politico per divenire unidimensionale: spogliato di ogni complessità, esso ha finito per diventare immediatamente percepibile/fruibile da tutti e da chiunque nella sua scarna concretezza di violenza quintessenziale, per così dire.
Il procedimento ha avuto buon gioco nel condizionamento culturale, politico e quindi sociale del post-’68, da una parte e dall’altra: a “sinistra” perché l’identificazione del “punto nero” come qualcosa su cui sparare a vista cioè a prescindere rendeva tutto più facile; e a “destra” perché il fascino indiscreto del ghetto è dimostrato e indiscusso — potrei anche tirare dottamente in ballo la labelling theory, ma preferisco citare un personaggio sulfureo come Pierluigi Concutelli: «da quando i fascisti sono diventati emarginati, gli emarginati si credono fascisti».
Ed eccoci tornati al punto di partenza: i ragazzi che hanno ammazzato Nicola Tommasoli non sono skin, e  neanche frequentavano sedi di partito od organizzazioni poltiche di sorta. Più semplicemente, avvertivano forse un lieve disagio sociale: sembra frequentassero lo stadio e gli piacesse giocare a fare i duri menando le mani (all’occorrenza e con sfumature razziste); e dove lo trovi, oggi, uno più duro e cattivo di un fascista? Perché pare proprio che siano in troppi, oggi, a pensare che sfondarsi di birra, fare risse e salutare a braccio teso siano quello che serve per darsi una identità. Il massimo risultato col minimo sforzo, insomma. Pragmatici, questi figlioli.
Nasce da questa constatazione una riflessione che in estrema sintesi si può ridurre ad un’unica domanda: che cos’è, oggi, “fascismo”?
Ossia: il significato (etico, politico, ideologico, sociale, economico, psicologico, storico) che a “fascismo” attribuisce il militante di “destra” coincide effettivamente col significato che gli attribuisce il resto del mondo? O ciascuno dei due si fa un suo film personalissimo e un po’ paranoico in base al quale agire e giudicare l’altro?
Sarebbe interessante, oltre che profittevole per tutti, scoprirlo. Se ne era accorto già Aristotele che se non si concorda sul significato da attribuire alla medesima parola si finisce per esser come tronchi — pezzi di legno, insomma, con i quali non si parla se non nelle favole.
Ma il tempo delle favole è finito e la realtà da affrontare è quella di un ragazzo morto per niente. Facciamo in modo che questo “niente” diventi almeno un pretesto per capire.