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Ultime notizie dal mondo

di redazionale - 07/05/2008

a)   USA. Vertice NATO a Bucarest e questione anti-missile (15 aprile). Un’interessante analisi del generale Jean (16 aprile) sulla questione e in relazione alla strategia statunitense della “guerra globale e duratura”.

 

b)   Tibet. Autodeterminazione e geopolitica passano anche per i monasteri buddisti sul tetto del mondo (17 aprile).

 

c)   Paraguay. La Teologia della Liberazione al governo. Chi è «il vescovo dei poveri», Fernando Lugo, neo presidente, e dove vuole andare. Con uno sguardo alla storia del paese (24 aprile).

 

d)   Vaticano. Il Papa negli States benedice l’Impero. Forti malumori nella Chiesa (19 aprile).

 

Sparse ma significative:

 

·    USA / Unione Europea. Prove tecniche di super-Banca Centrale Europea (16 aprile). Per altro sugli USA (19, 20, 22, 23 aprile), USA / Afghanistan (18 aprile) e USA / Iran sui venti di guerra (16, 29 aprile).

 

·    Palestina / Israele. Ancora su Carter, l’ex presidente USA, ed il suo incontro con Hamas (Palestina 18, 23 aprile). Lettera di ebrei contro l’anniversario per i 60 anni di Israele (Israele 30 aprile). Denuncia shock di militari israeliani: la tortura contro i palestinesi è una «pratica comune» (Israele 20 aprile). Le aperture interessate di Israele a a Damasco (Israele / Siria 24 aprile). Altro su Israele (16, 18, 20, 23) e Palestina (18, 21, 26, 29).

 

·    Iran / India. Nuova Delhi respinge le pressioni USA contro Teheran ed anzi stringe rapporti (23, 30 aprile).

 

·    Russia / Georgia. Il pretesto sono Abkhazia e Ossezia del Sud. Ma la partita è tra Washington e Mosca (17, 25 aprile).

 

Tra l’altro:

 

Catalogna (15 aprile).

Turchia / Kurdistan (16, 18 e 22 aprile).

Colombia (22, 25 aprile).

Polonia (22 aprile).

Kosovo (16 aprile).

Sri Lanka (24, 25 aprile).

Siria (28 aprile).

Giappone (18 aprile).

Nepal (17, 25 aprile).

Iraq (16 aprile).

Cina / Uzbekistan / Turkmenistan (15 aprile).

Russia (25 aprile).

Sahara Occidentale (24 aprile).

Cuba (27 aprile).

Ecuador (22 aprile).

Italia / Libia (23 aprile).

Somalia (21, 24 aprile).

Messico (16, 21, 25 aprile).

Iran (15, 24, 25 aprile).

Pakistan (25, 29 aprile).

Guatemala (15 aprile).

Brasile (15 aprile).

Libano (17 aprile).

Libia / Russia (18 aprile).

Unione Europea / Turkmenistan (17 aprile).

 

 

  • Catalogna. 15 aprile. Un migliaio di persone sottoposte ad analisi per fuga radioattiva dalla centrale nucleare di Ascò. La fuoriuscita di particelle radioattive sarebbe cominciata nel novembre 2007, sebbene di ciò sia stata data comunicazione solo adesso dopo denunce del fatto, lo scorso 5 aprile, di Greenpeace. Il Consiglio di Sicurezza Nucleare ha elevato l’incidente al livello due della scala internazionale, che ha sette livelli.

 

  • Iran. 15 aprile. Uno scudo antimissile mondiale contro la minaccia statunitense ed israeliana. L’ironica (ma non troppo) proposta è del ministro della difesa iraniano, Mostafa Najjar. «Se il mondo ha bisogno di uno scudo anti-missile, dovrà essere usato contro i missili e la minaccia nucleare che proviene da USA ed Israele, che direttamente o indirettamente minacciano differenti paesi con aggressione e guerre», ha detto il ministro la scorsa settimana. Riguardo la presunta minaccia dello “Stato canaglia” iraniano, il ministro rileva che «l’arsenale missilistico del nostro paese è puramente difensivo ed è solo una minaccia agli aggressori». Washington prevede di dispiegare i missili intercettori in Polonia, in aggiunta all’installazione di radar nella Repubblica Ceca. I dieci missili in Polonia potrebbero essere operativi dal 2013. Najjar ha aggiunto che Teheran, per assicurare stabilità e sicurezza nel Medio Oriente, è aperta alla cooperazione con ogni paese, tranne Israele, che l’Iran non riconosce.

 

  • Cina / Uzbekistan / Turkmenistan. 15 aprile. Prosegue nel riserbo l’espansione energetica cinese nell’area di influenza regionale russa. La compagnia energetica uzbeka Uzbekneftgas ha formato una joint venture con l’omologa cinese CNPC per costruire una pipeline che porterà gas dal Turkmenistan alla Cina. Secondo le dichiarazioni di una fonte anonima di Uzbekneftgas all’Agence France-press, il presidente Islam Karimov ha sottoscritto la settimana scorsa l’accordo sulla joint venture paritetica tra Pechino e Tashkent, denominata Asia Trans Gas. Il fine dell’accordo è la costruzione di una pipeline di 530 chilometri dal confine turkmeno a quello kazako (e da qui fino alla Cina) attraverso il territorio uzbeko. Secondo stime, il Turkmenistan è il decimo detentore di riserve di gas naturale. Per l’esportazione il Turkmenistan deve però ricorrere a condutture che attraversano il territorio russo. I piani cinesi andranno ad incrinare il monopolio russo sul transito di gas turkmeno il cui controllo è per Mosca fonte vitale di vantaggi economici e geostrategici.

 

  • USA. 15 aprile. SI al sistema di difesa/offesa antimissilistico: è la decisione più importante sul piano strategico dello scorso vertice NATO di Bucarest (2-3 aprile). Nel comunicato finale, che per definizione riflette la posizione congiunta di tutti i paesi membri, la NATO ha formalmente approvato il piano USA di spiegamento in Europa di certi elementi del sistema da difesa/offesa antimissile balistici (BMD) degli Stati Uniti. Si tratta del cosiddetto “Terzo Sito” (in aggiunta ai due già esistenti a Fort Greeley in Alaska e Vandenberg Afb in California), che dovrebbe comprendere una stazione radar nella Repubblica Ceca e una batteria di missili intercettori in Polonia. La NATO non solo ha approvato questo piano, ma ha anche indicato che il “Terzo Sito” deve essere visto come facente parte del sistema di sicurezza collettivo dell’Alleanza: una vittoria di straordinaria portata per Washington e l’amministrazione Bush sul piano politico, diplomatico e strategico, ottenuta superando la fortissima opposizione della Russia, e in una fase in cui molti membri europei della NATO sono sempre più preoccupati di mantenere buone relazioni con la Russia sul piano economico e delle forniture di energia. In un unico paragrafo di poche asciutte frasette la NATO annuncia il più profondo cambiamento nella sua strategia complessiva. Sino ad un passato ancora molto recente, si condannava la dottrina militare della difesa/offesa antimissile contro armi a media lunga portata (intermediate-range ballistic missile, IRBM, e intercontinental ballistic missile, ICBM), essendo diametralmente opposto al principio della deterrenza nucleare tramite la minaccia della distruzione reciproca (Mutually Assured Destruction, MAD), sinora visto come il fondamento di tutta la politica di sicurezza della NATO.

 

  • USA. 15 aprile. Se adesso la NATO afferma che «la difesa antimissile si inquadra nella risposta complessiva alle minacce contro il territorio e la popolazione degli Alleati», si sta scientemente abbandonando il principio del deterrente per allinearsi con le nuove politiche di sicurezza espresse nella National Security Policy dell’amministrazione Bush (fondata anche sulla dottrina e la pratica della guerra preventiva), e che hanno appunto comportato la denuncia unilaterale statunitense del trattato ABM e la decisione di dispiegare un sistema BMD. Con la dichiarazione finale NATO, inoltre, quel “Terzo Sito” che ha sollevato più di un dubbio all’interno di vari Paesi europei viene adesso definito un beneficio per l’Alleanza in quanto tale. Quali “promesse” (o minacce?) gli Stati Uniti hanno messo sul tavolo per arrivare a una tale unanimità? Infine, la dichiarazione finale NATO parla adesso di una «architettura di difesa antimissile per tutta la NATO» di cui non si era in precedenza mai parlato, e sulla quale non risulta esserci stata alcuna discussione. Sul piano pratico, visto che il “Terzo Sito” è strettamente inserito nel sistema USA, che il suo funzionamento dipende esclusivamente dal sistema di allarme USA e che gli Stati Uniti hanno già spiegato chiaramente che il sistema funzionerà al di fuori di qualsiasi possibile decisione da parte dei governi ceco e polacco, esiste un solo possibile modo per integrare il “Terzo Sito” in una futura “architettura NATO”: far sì che questa architettura sia costituita da altri siti simili sparsi per tutto il territorio dell’Alleanza, ma sempre sotto controllo esclusivo statunitense, anche se con la foglia di fico della NATO. Siamo quindi di fronte a un cambiamento davvero epocale. La NATO ha deciso –ma senza che l’opinione pubblica e gli stessi parlamenti degli Stati membri siano stati consultati o anche solo informati– di adeguarsi ai concetti strategici formulati dall’amministrazione Bush. L’era della deterrenza si chiude e si apre quella della difesa/offesa antimissile, preludio a nuove guerre statunitensi.

 

  • Guatemala. 15 aprile. Migliaia di contadini, nella capitale, oggi, davanti all’ambasciata statunitense, contro il Tratado de Libre Comercio e contro lo sfruttamento delle risorse minerarie ad opera delle transnazionali. 125 i chilometri percorsi a piedi. La marcia, promossa in occasione del 30° anniversario del Comité de Unidad Campesina, era partita il 12 dalla località nota come Los Encuentros, nella regione dell’altipiano. L’obiettivo della manifestazione è quello di far conoscere le condizioni di vita delle campagne, dove la miseria colpisce il 70% della popolazione.

 

  • Brasile. 15 aprile. Il leader dei Sem Terra (Mst) Eli Dallemole, di origini italiane, è stato assassinato il 30 marzo da due uomini incappucciati di fronte alla moglie e ai tre figli, nell’insediamento Libertação Camponesa di Ortigueira (Stato del Paraná). Da tempo si denunciano attacchi di milizie armate, pagate dai latifondisti della regione, contro le famiglie di Mst. Nell’ottobre scorso, in un’occupazione di protesta contro le coltivazioni transgeniche della multinazionale Syngenta Seeds a Santa Tereza do Oeste, sempre nel Paraná, era stato ucciso il militante di Via Campesina Valmir Mota Keno.

 

  • Kosovo. 16 aprile. L’Unione Europea ha approvato lo scorso 3 aprile la bozza della Costituzione del Kosovo. Lo annuncia il Rappresentante Speciale dell’Unione europea in Kosovo, Peter Feith.

 

  • Kosovo. 16 aprile. Gli Stati Uniti puntano alla creazione di un nuovo esercito nel Kosovo occupato con l’assistenza della NATO e l’ausilio del Corpo di Protezione del Kosovo. La notizia è stata rivelata il 31 marzo dal quotidiano polacco Gazeta Wyborcza. La settima scorsa il presidente USA, George Bush, aveva dichiarato apertamente il sostegno statunitense alla creazione di un esercito in Kosovo. «Bush ritiene che questo rafforzerà la sicurezza degli Stati Uniti e accrescerà la capacità del nuovo Stato indipendente al fine di garantire la pace, fare fronte al terrorismo e rispondere alla crisi umanitaria», ha osservato il quotidiano polacco. Il Corpo di Protezione del Kosovo è un’organizzazione per il servizio di emergenza civile creata nel 1999 e inizialmente controllata dai veterani del gruppo dell’Uck. In base alle informazioni raccolte dalla Gazeta Wyborcza il nuovo esercito voluto da Washington avrà al suo attivo 2500 uomini e 800 riservisti.

 

  • Israele. 16 aprile. Tel Aviv ha pianificato la più importante esercitazione militare mai effettuata. Il governo israeliano ha preparato cinque giorni di esercitazioni tenutesi a partire dal 6 aprile e che simuleranno attacchi di missili convenzionali e non convenzionali dall’Iran, dal Libano e dalla Siria. Gli ufficiali hanno dichiarato che lo scopo è di testare la coordinazione tra manovre militari, di polizia e dei servizi di emergenza e misurare i tempi di reazione come l’evacuazione di città colpite da missili nemici. L’esercitazione prevede anche lanci di razzi e di missili su città israeliane del sud e si svolgerebbe in contemporanea con una simulazione gestita dal governo, con il primo ministro israeliano Ehoud Olmert che dovrebbe riunire il Consiglio dei Ministri per ordinare una risposta all’attacco nemico ed i membri del governo che saranno evacuati e messi al sicuro in bunker. Secondo alcuni analisti geopolitici, tali esercitazioni militari «non sono di natura difensiva, come pretende il governo israeliano, e mostrerebbero che Israele è sul piede di guerra nel quadro delle strategie militari USA su Iran e Siria».

 

  • Iraq. 16 aprile. L’Esercito del Mahdi è il principale agente umanitario. La milizia di Moqtada al-Sadr, l’Esercito del Mahdi, è divenuta la principale organizzazione umanitaria dell’Iraq e nelle sue zone d’influenza distribuisce generi alimentari e alloggi ai civili più colpiti dalla guerra. È quanto sostiene un rapporto della ONG Refugees International. Secondo lo studio, altre milizie sciite e sunnite ne stanno seguendo l’esempio. Il movimento politico di al-Sadr concorrerà per la prima volta alle elezioni locali del prossimo ottobre; analisti politici prevedono buoni risultati a danno dei partiti sciiti che sostengono il primo ministro Nuri al-Maliki. Secondo Refugees International, il movimento sadrista sta operando in modo simile ad Hezbollah in Libano.

 

  • Turchia / Kurdistan. 16 aprile. Ankara condanna 53 sindaci kurdi per aver scritto una lettera al premier danese. Un tribunale di Diyarbakir (Kurdistan Nord) ha condannato a due mesi e mezzo di prigione 53 sindaci kurdi che scrissero nel 2005 una lettera al primo ministro danese, Anders Fogh Rasmussen, chiedendo di resistere alle pressioni di Ankara che voleva la chiusura della televisione kurda Roj TV. Tra i condannati figura Osman Baydemir, popolare sindaco di Diyarbakir, la principale città del Kurdistan Nord occupato. Tutti i condannati sono membri del Partito per una Società Democratica (DTP), minacciato di illegalizzazione. Il primo ministro danese ha definito «incomprensibile che da una semplice lettera con questa richiesta possa derivare una condanna». La Danimarca si rifiutò, alla fine, di chiudere l’emittente, visibile via satellite in Kurdistan.

 

  • USA / Unione Europea. 16 aprile. Prove tecniche di super-Banca Centrale Europea. Ne parla Massimo Giannini su la Repubblica (7 aprile 2008). L’articolo si concentra innanzitutto sulla crisi finanziaria in corso negli USA ma con effetti globali. Una crisi le cui premesse vanno ricercate nella politica neoliberista e di deregolamentazione finanziaria avviata in particolare all’inizio degli anni Ottanta dall’allora governatore della Federal Reserve (Fed, la Banca Centrale USA), Paul Volcker, e proseguita da Alan Greenspan, l’autore delle politiche delle “bolle speculative” (dei valori azionari ed immobiliari, eccetera) e fautore di riforme come l’abolizione (1999) della legge bancaria “Glass Steagall Act”, finalizzate in ultima istanza ad incrementare il potere delle grandi banche d’affari USA. «Lì si è aperta la faglia, che ci ha portato al terremoto di oggi. I conflitti di interesse, le cartolarizzazioni, i titoli salsiccia, i subprime, le insolvenze immobiliari, quelle delle carte di credito, quelle sui crediti al consumo. E poca o nessuna vigilanza». Giannini riporta la convinzione secondo cui l’epicentro di quello che definisce “terremoto planetario” nasca dalle cartolarizzazioni. «Dai titoli salsiccia nei quali le banche americane “insaccano” i crediti ad alto rischio sui mutui, li ricollocano sul mercato o li parcheggiano fuori bilancio, lontani dagli occhi “indiscreti” della vigilanza bancaria. Da quelli che George Soros definisce “strumenti finanziari esoterici”, come i “Credit default swap”, che secondo lo stesso Soros ammontano a qualcosa come 45mila miliardi di dollari. E anche se nessuno lo dice, i banchieri centrali europei pensano che questo Far West di prodotti finanziari sia l’effetto di una strategia da “todos caballeros” che la Federal Reserve ha seguito in tutti questi anni».

  • USA / Unione Europea. 16 aprile. All’interno del dibattito tra le alte sfere della politica e della finanza globale a dominanza USA sul come risolvere la crisi finanziaria che, come rileva Giannini, tra le sue “vittime” annovera il dogma neoliberista della contrarietà all’assistenzialismo statale («la trasformazione della banca d’affari USA Jp Morgan nella ciambella di salvataggio della Bear Stearns, poiché pubblicizza una perdita privata accollandone il costo ai contribuenti, segna la fine del pensiero unico darwiniano che per quasi un secolo ha regolato il boom finanziario americano»), spunta ora l’idea della “Super-Banca Centrale Europea”. «Come osserva ancora Bini Smaghi, anche noi dobbiamo stringere le maglie della vigilanza, rendere più approfonditi e stringenti i controlli, e migliorare il grado di armonizzazione normativa tra le diverse autorità nazionali (…) Il ministro del Tesoro uscente, Tommaso Padoa Schioppa, ha un’idea più ambiziosa: servirebbe un unico organismo di vigilanza a livello europeo». Giannini si mostra dispiaciuto del fatto che nell’Unione Europea «abbiamo un’unica moneta, un solo sistema di pagamenti, un solo organismo che ha in mano la leva dei tassi di interesse, ma non abbiamo una banca centrale deputata al controllo centralizzato delle attività creditizie e al coordinamento della vigilanza con gli altri regolatori di mercato. I 27 Paesi Ue contano 52 autorità, ciascuna delle quali ha regole diverse e spesso non dialoga con le altre, mentre negli USA se ne contano oltre 100, e la Fed ne ha appena assunto un implicito coordinamento». Conclude Giannini: per una “Super BCE” «allo stato attuale non ci sono le condizioni (…) come dimostrano le resistenze di alcune singole banche centrali a rinunciare alla propria sovranità nazionale in materia di vigilanza sul credito». Si parla comunque di «uniformare almeno i criteri della vigilanza, fissando regole uguali per tutte le singole Banche centrali», e di rafforzare la cooperazione tra le Banche centrali. «Soprattutto quei Paesi, in cui ci sono ancora ostacoli legislativi per i supervisori nel fornire informazioni alla Bce su singole banche o specifiche istituzioni finanziarie, dovrebbero rimuoverli al più presto».

 

  • USA / Iran. 16 aprile. Si torna a parlare di guerra all’Iran. L’agenzia russa Ria Novisti del 31 marzo ha dato voce ad una «fonte d’alto livello della sicurezza» che asserisce: «Le ultime informazioni d’intelligence segnalano un’intensificazione dei preparativi militari USA per una operazione dal cielo e da terra contro l’Iran». Il Pentagono, ha aggiunto la fonte, «sta cercando un modo per assestare un colpo che consenta “di mettere il Paese in ginocchio al minimo costo”». Altri analisti statunitensi su vari siti di controinformazione ritengono anch’essi probabile un attacco a sorpresa contro le installazioni nucleari di Teheran sulla scorta delle seguenti informazioni: un recente viaggio di Dick Cheney nelle capitali islamiche del Golfo, giudicato simile a quello compiuto poco prima dell’invasione dell’Iraq (marzo 2003), effettuato al fine di estorcere il consenso dei Paesi del Golfo ad un attacco USA alle basi nucleari iraniane, viaggio che il quotidiano saudita Okaz ha commentato rivelando che il Consiglio della Shura (il consesso dei consiglieri della monarchia) sta preparando «piani nazionali per affrontare rischi nucleari e radioattivi improvvisi di qualunque genere che possano toccare il regno, in ciò seguendo l’avvertimento di esperti su possibili attacchi ai reattori nucleari iraniani di Bushehr»; la presenza navale USA nel Golfo Persico, che ha raggiunto, per la prima volta in quattro anni, il livello che aveva poco prima dell’invasione dell’Iraq: oltre alla “Eisenhower”, che è nell’area dal dicembre 2006 insieme alla sua squadra d’appoggio, sta entrando nel Golfo la “John Stennis” (con 3.200 uomini d’equipaggio ed 80 aerei, fra cui caccia-bombardieri) con otto navi d’appoggio carichi di missili patriot e quattro sottomarini nucleari; le recenti dimissioni forzate dell’ammiraglio William Fallon, il capo del CENTCOM (il comando USA per il Golfo e l’Asia Centrale), che in precedenza aveva assicurato: «Nessun attacco all’Iran finché ci sono io».

 

  • USA. 16 aprile. NO all’adesione di Georgia ed Ucraina nella NATO, ma SI allo “scudo antimissile”, strumento cruciale per il futuro dominio geopolitico dello spazio. Altro che mezza “sconfitta” per Bush dopo il vertice di Bucarest di inizio aprile. Secondo il generale ed analista geopolitico Carlo Jean, Bush ha infatti insistito tanto sull’adesione di Kiev e Tbilisi alla NATO «per farsi dire di sì sull’argomento che gli stava più a cuore: quello delle difese antimissili o Bmd. Bush sapeva benissimo che ben dodici alleati europei erano contrari all’attivazione delle procedure di ammissione alla NATO dell’Ucraina e della Georgia e che non avrebbero cambiato la loro posizione». Ed allora, persistere su Ucraina e Georgia, più che per «umiliare la Russia ed approfittare della sua debolezza, dimostrata anche dalle deboli proteste di Mosca contro le promesse USA di dare armi ai kosovari», è stato per Jean strumentale al vero obiettivo di presentarsi al prossimo vertice di Sochi con Putin e Medvedev ma anche al Congresso USA «con il sostegno unanime della NATO sullo schieramento antimissili in Polonia e in Repubblica Ceca». Jean evidenzia che questo, «puntualmente, gli è stato dato. Agli USA si può dire di no una volta, ma non due. Per di più, gli alleati degli USA, accantonati i loro dubbi sui missili, hanno invitato Mosca ad abbandonare le sue obiezioni. Questo era proprio l’obiettivo di Bush», ribadisce Jean, secondo cui appunto la “sconfitta” subita da Bush per l’Ucraina e la Georgia sembra aver facilitato il consenso NATO su altri campi.

 

  • USA. 16 aprile. Per Jean, il sistema missilistico USA, comunemente noto come “scudo anti missilistico”, è uno strumento cruciale per il dominio geopolitico USA. Il generale sgombra il campo della tesi per cui la finalità dello “scudo” è la protezione degli USA contro qualche testata nucleare lanciata da uno “Stato canaglia” come Iran e Corea del Nord. «Quest’ultimo dovrebbe essere disponibile al suicidio. Infatti, verrebbe subito incenerito dalla rappresaglia americana. Se proprio volesse colpire gli USA, metterebbe la bomba in un container diretto ad un grande porto». Il vero scopo dello Scudo, invece, «è il dominio dello spazio, da cui dipendono sempre più l’economia e la potenza militare degli USA». La geopolitica USA, da Theodore Roosevelt in poi, è stata per Jean «sempre fondata su di una versione offensiva della dottrina Monroe: dominare non solo l’emisfero occidentale, ma anche gli oceani che lo proteggono e mantenere divisa l’Eurasia. Un blocco continentale potrebbe infatti concentrare tutti i suoi sforzi nel costruire una potente marina oceanica, anziché disperderli nei conflitti fra le varie regioni». Gli USA hanno deciso perciò di estendere allo spazio il loro dominio negli oceani. «Devono essere in grado di proteggere i loro satelliti e di contrastare quelli dei loro potenziali avversari e concorrenti. Lo scudo è soprattutto una scusa per ottenere dal Congresso i fondi necessari. Consente di sviluppare le tecnologie per il dominio globale dello spazio. L’intercettazione di un missile richiede le stesse tecnologie». Il problema consiste ora nel finanziamento del progetto, «su cui da Reagan in poi gli USA vi hanno già speso 110 miliardi di dollari», e le cui tecnologie «stanno maturando e potranno garantire per decenni la superiorità militare americana». Bush conta di superare i dubbi del Congresso grazie al sostegno dei paesi NATO ma anche della Russia.

 

  • Messico. 16 aprile. Contro i tentativi del governo di privatizzare la compagnia petrolifera Pemex, prosegue l’occupazione delle tribune parlamentari. Migliaia di donne (38 brigate, ciascuna di 500 unità) circondano il Senato con indosso, molte di loro, il caratteristico vestito della Rivoluzione Messicana. Per questo sono state soprannominate Adelitas, come la più celebre soldadera dell’epoca. La protesta guidata dal Frente Amplio Progresista (Fap), guidato dall’ex candidato presidenziale López Obrador, ma non da tutti i parlamentari del Prd (il partito più importante all’interno del Fap), è iniziata subito dopo l’invio ai parlamentari, da parte del presidente Felipe Calderón, della sua proposta di privatizzazione, che per ora prevede che le compagnie transnazionali si possano far carico della raffinazione del greggio. Poiché si tratta comunque di un’attività considerata strategica e riservata allo Stato, la riforma necessita di una modifica costituzionale. Il Frente Amplio Progresista ha annunciato che manterrà la protesta fino alla fine di aprile se il governo non accetterà di ridiscutere la privatizzazione.

 

  • Unione Europea / Turkmenistan. 17 aprile. Il Turkmenistan ha presentato una prima offerta concreta all’Unione Europea per esportare il proprio gas naturale. Lo riferiscono fonti dell’agenzia di analisi geopolitica Stratfor. Il presidente turkmeno Gurbanguly Berdimukhammedov ha incontrato la Commissaria Europea per gli affari esteri Ferrero-Waldner nella capitale turkmena Ashgabat lo scorso 9 aprile, esprimendo disponibilità per esportare 10 bilioni di metri cubi di gas naturale all’Europa dal 2009. L’accordo avrebbe considerevoli ripercussioni geopolitiche. Da parte USA, l’accordo diminuirebbe la dipendenza europea dalle forniture e dalle condutture russe. Il gas verrebbe infatti trasportato attraverso un gasdotto che collegherebbe il Turkmenistan con l’Azerbaigian, quindi Turchia ed Europa, rilanciando così la conduttura Nabucco sponsorizzata da Washington. Un accordo di questo tipo metterebbe invece in pericolo la strategia egemonica geopolitica di Mosca. Fino ad ora, infatti, il gas turkmeno viene acquistato a prezzi di favore da compagnie russe, convogliato in territorio russo attraverso le condutture energetiche ereditate dall’era sovietica e rivenduto a prezzi di gran lunga maggiorati agli Stati europei. A Mosca, comunque, non mancano i mezzi per fare pressioni sul governo turkmeno. C’è inoltre da tenere conto che la conduttura transcaspica che collegherebbe Turkmenistan ed Azerbaigian sarebbe sottoposta al diritto internazionale e da discutere con gli altri paesi rivieraschi del Caspio, a cominciare appunto dalla Russia ma anche dall’Iran. Il monopolio russo sul gas turkmeno è comunque messo in pericolo anche dalla penetrazione economica cinese. I debiti del Turkmenistan verso Pechino, anche in relazione ad investimenti cinesi nell’apparato produttivo del Paese, sono alla base della costruzione di un gasdotto turkmeno-cinese, che dovrebbe entrare in funzione nel 2009. Dopo l’accordo con l’Unione Europea, comunque, la domanda che si pongono gli analisti è questa: riuscirà il Turkmenistan a soddisfare contemporaneamente gli appetiti di questi tre grandi fornitori? In caso contrario, quale “cliente” ne farà le spese?

 

  • Libano. 17 aprile. «L’ONU non agisce di fronte alle incursioni israeliane in Libano». La denuncia di Hezbollah è arrivata ieri con un comunicato, di fronte alle ultime violazioni che sono continue come più volte segnalato anche dal contingente ONU presente nel paese. «Le violazioni israeliane perdurano da tempo e sono pressoché quotidiane sul suolo libanese, sotto gli occhi del mondo e della forza dell’ONU (FINUL, ndr)», prosegue il comunicato. «Qual è la posizione del Consiglio di Sicurezza, del segretario generale dell’ONU (Ban Ki-moon, ndr) e del governo libanese di fronte a queste incursioni?», chiede la formazione sciita libanese. Le ultime penetrazioni terrestri dei militari israeliane, confermate dall’ONU, si aggiungono a quelle aeree pressoché quotidiane in aperta violazione della risoluzione 1701 dell’ONU che ha posto fine alla guerra dell’agosto 2006 di Israele contro Hezbollah. Il 18 marzo scorso, un’imbarcazione militare sionista ha violato pure le acque libanesi, intercettata dalla FINUL. Martedì, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU «ha riaffermato il suo impegno alla messa in atto di tutte le disposizioni della risoluzione 1701», sebbene non abbia adottato alcuna misura rispetto alle violazioni di Tel Aviv.

 

  • Russia / Georgia. 17 aprile. Mosca rafforza la cooperazione con Ossezia del Sud e Abkhazia, provocando la collera della Georgia. Tbilisi rilancia l’accusa a Mosca di volersi annettere questi territori, dopo che il presidente russo, Vladimir Putin, ha invitato il suo governo a «cooperare con le autorità» di queste due enclave, in particolare in ambito economico. Secondo il ministero russo degli Esteri, detta cooperazione consentirà di «creare un meccanismo di difesa dei diritti, delle libertà e degli interessi dei cittadini russi che vivono in Abkhazia e Ossezia del Sud». Negli ultimi anni Mosca sta concedendo passaporti russi alla popolazione locale. Per il capo della diplomazia georgiana, David Bakradze, questo annuncio «è un tentativo per legalizzare l’annessione di queste due regioni georgiane» e suppone «una violazione di tutte le leggi internazionali». Ha quindi aggiunto che la Georgia utilizzerà «tutti i mezzi diplomatici, politici e legittimi per porre termine a questo processo che destabilizza la situazione nella regione». Tanto l’Abkhazia come l’Ossezia del Sud, confinanti con la Russia, dichiararono unilateralmente la loro indipendenza immediatamente dopo la caduta dell’Unione Sovietica. Ad oggi, nessun paese ha riconosciuto la loro indipendenza. La decisione di Mosca è stata accolta con soddisfazione in entrambi i territori, mentre Unione Europea e NATO hanno espresso inquietudine.

 

  • Russia / Georgia. 17 aprile. Gli analisti inscrivono questi ultimi atti della Russia nella sua volontà di riaffermazione di fronte all’allargamento della NATO, al progetto di scudo antimissile e alla polemica indipendenza del Kosovo. Thomas Gomart, dell’Istituto francese di relazioni internazionali, segnala che «siamo di fronte ad un nuovo passo nell’indurimento generale della politica russa». Secondo queste analisi, la Russia gioca le sue carte in un contesto che le è più favorevole del 1991. Ciononostante è diffusa la convinzione degli analisti nello scartare l’intenzione di Mosca di arrivare fino al riconoscimento formale. «Non avrebbe senso perché allora si priverebbe di una decisiva leva di pressione sulla Georgia», dice Sergei Mijeev, specialista del quotidiano Vremia Novostei. «In fondo l’interesse di Mosca, da un’ottica puramente pragmatica, è quello di mantenere questi due scenari di crisi al limite e attivarli quando le convenga», coincide Gomart. Alexei Malachenko, del centro Carnegie di Mosca, rileva che la Russia prepara così un nuovo scenario su misura con l’avvicinarsi dell’adesione della Georgia alla NATO, uno scenario che esige il riconoscimento della sua presenza nella regione. E, di passaggio, inquieta una NATO che vede che uno dei suoi futuri alleati è incapace di assicurare il suo territorio. Insomma, alla fine Mosca sta ricordando che, dopo il Kosovo, tutto è cambiato.

 

  • Tibet. 17 aprile. Quasi niente in Tibet è come raccontano. Manipolazioni, stereotipi, interessi, da una parte e dall’altra, hanno preso il sopravvento sulle giuste domande del popolo tibetano in difesa del suo diritto di autodeterminazione. Al di là di farisei discorsi occidentali che, per altre realtà o conflitti, invitano a «separare, a non mescolare, sport e politica, o religione e politica». Quel che vale in Tibet e, soprattutto contro la Cina, non è equiparabile ad altri luoghi del mondo, affermano senza pudore alcuni supposti difensori dei diritti umani. Sulla realtà tibetana esistono eccellenti lavori accademici che presentano alcuni l’immagine idilliaca del buddismo altri quella del regime teocratico che imperava in Tíbet. La violenza dei monaci buddisti contro altri correligionari per il controllo e dominio dei migliori posti e monasteri si sono susseguiti in Sri Lanka e più recentemente in Corea del Sud. Inoltre forze buddiste hanno attaccato violentemente non-buddisti in Thailandia, Myanmar e Giappone, e in Sri Lanka hanno difeso le posizioni più intransigenti e scioviniste contro il popolo tamil. Neanche la realtà tibetana si sottrae a questa lotta del potere religioso. Gli scontri e le difese dottrinarie per il controllo dei monasteri tibetani era una costante, e le differenti scuole o sette utilizzavano tutti i mezzi per assicurarsi il dominio ed il controllo sugli altri. Inoltre, dietro questo manto teocratico, si assicurava un’alleanza con i settori più potenti della società, escludendo dal potere e dalla ricchezza la maggioranza della popolazione, sottoposta ad uno sfruttamento economico e sociale, sotto la vernice del manto buddista. La proprietà della terra nelle mani dei potenti, l’esistenza di un piccolo esercito professionale al servizio di queste classi, sono aspetti che si vogliono nascondere presentando il Tíbet come la vera Shangai-La.

 

  • Tibet. 17 aprile. È certo che le ultime proteste sono in linea con un piano preconfezionato da attori stranieri per destabilizzare la Cina, soprattutto in previsione dei Giochi Olimpici che si svolgeranno a Pechino. Alcuni analisti segnalano l’incontro tra il presidente Bush ed il Dalai Lama, lo scorso ottobre, come il via libera ad una campagna per mettere in moto un’altra «rivoluzione colorata», in questo caso in Tibet, per destabilizzare il gigante cinese. Secondo queste fonti, si tratterebbe di una più vasta operazione anti-cinese di Washington mirante ad «attivare una rivoluzione colorata nella vicina Myanmar, dispiegare truppe NATO nel Darfur, per tagliare l’accesso cinese alle ricchezze petrolifere del luogo, cui seguirebbero movimenti nel continente africano per frenare la sua presenza. Inoltre ricercare un’alleanza strategica con l’India per contrastare l’ascesa cinese in Asia». Tornando al Tibet, molti dati indicano un’attività della CIA e di altre agenzie statunitensi nella destabilizzazione della Cina attraverso il Tibet. Già nel 2002 viene pubblicato un libro “The CIA´s secret war in Tibet” (La guerra segreta della CIA in Tibet), dove si apportavano numerosi dati in questa direzione. Inoltre non bisogna dimenticare le consistenti quantità di denaro investite per finanziare il Dalai Lama ed altre organizzazioni dell’esilio tibetano. Questi due argomenti, teocrazia feudale e partecipazione straniera, sono i due pilastri che utilizza la Cina per frenare alla radice qualunque domanda indipendentista in Tibet. Pechino, inoltre, è interessata a mostrare la sua fermezza, a fronte anche di manipolazioni informative intorno agli ultimi accadimenti. Vari analisti hanno dimostrato le pacchiane manipolazioni di immagini (presentando incidenti in India o Nepal come se fossero successi in Tibet) e occultando le proteste più violente nelle strade tibetane dirette in maggioranza contro la popolazione cinese. Questo cocktail aumenta il sentimento nazionale cinese, soprattutto nella maggioritaria etnia han, che lo percepisce come una campagna per demonizzare la Cina.

 

  • Tibet. 17 aprile. Parte della popolazione in Cina, sottomessa a falsi stereotipi o cliché, percepisce il tutto come una manovra del «Dalai Lama e del suo entourage» e, inoltre, come frutto dell’appoggio dei governi e media occidentali per sabotare le Olimpiadi. È certo che Pechino non vuol sentir parlare del diritto di autodeterminazione del Tibet, timoroso della possibilità di un effetto domino in Uighurstan, Mongolia e Taiwan, che minacci la «indissolubile unità della Cina». Il Tibet è cambiato molto in questi ultimi decenni, alcune cose hanno favorito il popolo tibetano, ma non si possono nascondere importanti deficit in ambiti di supposta «modernità». Molti degli abitanti dell’altopiano tibetano sono stati spinti verso le aree urbane, obbligati ad abbandonare la loro forma di vita nomade, il tutto con l’imposizione di dirigenti locali di origine cinese e la perdita dell’accesso alla terra a beneficio dei membri dell’etnia han. Gli effetti di questa «colonizzazione» cinese sono evidenti, ed in Tibet, Uighurstan o Mongolia le culture locali, maggioritarie, sono sottoposti ai tartassamenti delle politiche statali, quando non a persecuzioni. Conviene fuggire da un altro stereotipo, che vuole identificare il Dalai Lama come l’unica voce del popolo tibetano. La sua figura conta su un importante sostegno popolare, ma sempre più voci dentro il Tibet inclinano per un’altra alternativa e perdono fiducia per questa figura legata a un regime al quale si rimproverano relazioni con dirigenti nazisti e richieste di messa in libertà per il dittatore cileno Pinochet. Sull’altopiano del Tibet crescono le voci di chi non vuole il «ritorno del Dalai Lama né della sua corte» e che sostengono che il cambio di cui necessita il Tibet non può essere una specie di autonomia, formula che non vedrebbero male i governi occidentali, Pechino e lo stesso Dalai Lama, ma che è respinta da questi settori che desiderano esercitare liberamente il proprio diritto di autodeterminazione, senza ingerenze. Per questi il sogno è la materializzazione di un Tíbet indipendente, se così decidesse la maggioranza, nell’auspicio che questo non significhi il ritorno al regime teocratico e feudale del passato.

 

  • Nepal. 17 aprile. I maoisti, vincitori alle elezioni del 10 aprile, chiedono al re nepalese che se ne vada «con eleganza». Lo ha detto Baburam Bhatarai, numero due dei maoisti, intervenendo alla riunione inaugurale dell’Assemblea Costituente. Intanto i sette ministri del Partito Comunista Marxista-Leninista Unificato del Nepal, rivale dei maoisti, si sono dimessi dopo la sconfitta elettorale.

 

  • Libia / Russia. 18 aprile. Tripoli paga il suo debito con l’ex-URSS sottoscrivendo nuovi contratti con compagnie russe. Valore: 2.800 milioni di euro. L’accordo è stato raggiunto nel corso della visita a Tripoli dell’ancora presidente russo, Vladimir Putin.

 

  • Palestina / Israele. 18 aprile. Carter rompe l’embargo incontrando Hamas al Cairo. Un avvenimento che in Italia e in Europa è stato oscurato. L’incontro di ieri al Cairo tra l’ex presidente statunitense Jimmy Carter e dirigenti del movimento islamico di Hamas, fortemente osteggiato sia da Washington che da Israele, è durato quasi quattro ore e mezza. Della delegazione di Hamas (sei membri) facevano parte Mahmoud Zahar e Said Siam, esponenti della “linea dura” del movimento che ha preso il potere nella Striscia di Gaza nel giugno scorso. Sempre ieri Washington Post ha pubblicato un intervento del numero due di Hamas, Zahar, che paragona Gaza al ghetto di Varsavia. «Resistere è l’unica opzione che resta agli abitanti di Gaza e come 65 anni fa i coraggiosi ebrei del ghetto di Varsavia si sollevarono in difesa della propria gente, anche noi, abitanti di Gaza, che è oggi la più grande prigione a cielo aperto del mondo, non possiamo che fare altrettanto». La Casa Bianca ha ribadito oggi che l’iniziativa privata di Carter, 84 anni, di incontrare gli esponenti del movimento «non è utile». Il premio Nobel per la pace 2002 è impegnato in un viaggio di nove giorni nella regione, nel tentativo di dare impulso al processo di pace.

 

  • Palestina / Israele. 18 aprile. Un’iniziativa, quella dell’ex presidente degli Stati Uniti, Jimmy Carter, nata sulla scia dell’uscita nel 2006 di un suo libro intitolato “Palestine: Peace not Apartheid” (Palestina: pace e non apartheid), edizione 2007, Pocket Books, Londra (8,99 sterline; www.simonsays.co.uk) nel quale bolla la politica di Israele nei confronti dei palestinesi come un «sistema di apartheid», scrive che l’establishment dello Stato ebraico deve ricercare una pace giusta con i palestinesi e non praticare una politica di separazione razziale nei confronti di questo popolo sotto occupazione dal 1967, sostiene di essere arrivato da alcuni anni alla conclusione che il principale ostacolo alla soluzione del conflitto mediorientale risieda nel rifiuto israeliano di applicare le risoluzioni dell’ONU e di evacuare i Territori occupati con la guerra del 1967 e invita a negoziare con gli islamisti di Hamas assediati a Gaza. La missione di Carter ricorda a tutti qual è la situazione reale sul campo: l’unilaterale ritiro israeliano da Gaza ha messo quel territorio sempre di più nelle mani dell’esercito che lo controlla e bombarda a piacimento, al punto che, chiusa nella morsa dei carri armati e senza contatti esterni, rischia la radicalizzazione estrema e il disastro umanitario perché le stesse Nazioni Unite non sono più in grado di distribuire aiuti alimentari per un popolo contadino costretto alla fame sulla propria terra da dove le colture, ripetutamente, vengono sradicate dai tank degli occupanti. Mentre l’occupazione militare continua in Cisgiordania e a Gerusalemme est, il Muro di Sharon si allunga, le colonie crescono al punto che chi volesse onestamente vedere cosa resta della Palestina, scoprirebbe un pulviscolo di appezzamenti senza la continuità territoriale necessaria per essere Stato. Intanto carceri e campi di concentramento sono pieni di diecimila prigionieri politici palestinesi, aumentano i campi profughi e i tre milioni e mezzo sparsi per il mondo sono figli di nessuno.

 

  • Palestina / Israele. 18 aprile. Il vicepremier israeliano Eli Yishai (leader del partito ortodosso Shas) vuole incontrare Khaled Meshaal, esponente politico di Hamas in esilio a Damasco. Oggetto dell’incontro riguarderà lo scambio dei prigionieri israeliani con islamisti palestinesi. È quanto scrive Haaretz di Tel Aviv. Il dirigente israeliano ha affidato un messaggio in tal senso all’ex presidente USA Jimmy Carter. Yishai ha poi preso nettamente le distanze («un errore») da chi ha criticato, in Israele, l’ex presidente statunitense Carter per i suoi contatti con Hamas. Il viceprimo ministro israeliano ha assicurato di essere disposto a negoziare con chiunque per liberare i militari prigionieri «incluso con Hamas». Gilad Shalit è nelle mani di Hamas, mentre Ehud Goldwasser e Eldad Regev sono in quelle della libanese Hezbollah. Nel campo israeliano si stanno aprendo delle crepe nella barriera della fermezza voluta dal premier Olmert che –sostengono sempre più commentatori e intellettuali– non ha portato né sicurezza per gli israeliani (i palestinesi lanciano i razzi come e quando vogliono) né la sconfitta di Hamas, data da tutti i sondaggi in crescita di popolarità grazie alla resistenza che riesce a opporre agli occupanti. Nell’incontro tra Carter e Meshaal, ieri, nella sede di Hamas a Damasco, i temi sono stati: la situazione di Shalit, una eventuale tregua con Israele e la fine del blocco sionista a Gaza. Meshaal ha sostenuto di essere alla ricerca di un cessate il fuoco che porti alla riapertura dei valichi della Striscia e includa anche la Cisgiordania. Ha reiterato il sostegno all’iniziativa araba, che offre a Israele pace e riconoscimento da parte di tutti i paesi arabi in cambio di un pieno ritiro di esercito e coloni dai Territori occupati nel 1967. Qualsiasi altra possibilità sarebbe per Hamas «una resa» inaccettabile. Il dirigente di Hamas a Gaza, Mahmud al-Zahar, che ha incontrato Carter giovedì a El Cairo, ha espresso la disponibilità di Hamas a liberare Shalit se Israele scarcererà 450 prigionieri palestinesi. Israele, per ora, si è rifiutata di arrivare a questo scambio ritenendo i prigionieri richiesti coinvolti in attentati mortali. Hamas sta calcolando ogni mossa nel tentativo di rompere l’assedio che l’ha esclusa dal governo e che sta costando tante sofferenze ai palestinesi della Striscia. Prima la campagna mediatica per mostrare al mondo le immagini dei bambini costretti a studiare a lume di candela; poi l’abbattimento, con la dinamite, del muro che separa Gaza dall’Egitto; poi ancora gli attacchi sempre più sofisticati contro i soldati israeliani presso i valichi di frontiera; ora la «legittimazione» ad opera di Carter. La responsabile della diplomazia USA, Condoleezza Rice, ha intanto dichiarato che gli incontri di Carter non sono di interesse per Washington, ha bollato Hamas come «principale ostacolo per la pace» e sottolineato che l’iniziativa dell’ex presidente Carter è stata compiuta a titolo personale.

 

  • Palestina. 18 aprile. Nei Territori occupati ieri era il Giorno dei prigionieri. Sono oltre 9mila i detenuti politici palestinesi nelle carceri d’Israele, tra loro 300 tra ragazzi e bambini e oltre 700 senza alcun capo d’imputazione. È stato il giorno dei detenuti politici ieri nei Territori occupati. Raduni, sit-in e cortei si sono svolti un po’ ovunque per ricordare i 9.087 palestinesi in carcere in Israele, secondo gli ultimi dati diffusi dall’associazione Addameer (per altre fonti il numero sarebbe più alto, vicino a 11mila). La questione delle migliaia di prigionieri politici tocca un po’ tutte le famiglie della Cisgiordania e, in misura minore, di Gaza. Di fatto ogni palestinese ha avuto o ha in carcere un fratello, un padre, un amico. Ma non mancano le donne (80) e bambini e adolescenti (circa 300) tra i «politici» in cella. Oltre 2.500 detenuti rimangono in attesa di giudizio, 700 sono agli «arresti amministrativi» (sei mesi in carcere senza processo, rinnovabili a discrezione delle autorità militari israeliane), 262 hanno speso dietro le sbarre più di 15 anni, 140 hanno la cittadinanza israeliana e 15 sono drusi del Golan che si considerano siriani e respingono l’occupazione. «La condizione di chi sta in carcere è difficile», dice l’avvocato Quzmar, che assiste diversi prigionieri politici e di tutte le età, «l’assistenza sanitaria è limitata allo stretto necessario e non è tempestiva. E da qualche tempo anche il cibo si è fatto insufficiente». Le autorità, aggiunge, «spendono in media 500 shekel (circa 90 euro, ndr) al mese per ogni detenuto e ora per risparmiare chiedono alle famiglie di versare denaro per i congiunti incarcerati, ma questi soldi spesso vengono spesi per altro». Dolorose sono le limitazioni delle visite: i parenti dei detenuti con un’età compresa tra i 16 e i 35 anni non possono recarsi alle prigioni. «E non dimentichiamo che molti detenuti sono soggetti ad abusi e torture durante il tahqiiq (interrogatorio, ndr)», sottolinea Quzmar.

 

  • Israele. 18 aprile. Nuovi appalti per la costruzione di 100 unità abitative nelle colonie ebraiche di Elkana ed Ariel (Cisgiordania) sono stati pubblicati oggi dal ministero israeliano dell’edilizia. Lo riferisce la radio dei coloni Canale 7. Immediata la protesta del movimento Peace Now, secondo cui «il governo di Ehud Olmert elimina con le sue stesse mani ogni speranza di accordo con i palestinesi e trasforma in una farsa grottesca la Conferenza di pace di Annapolis» del dicembre scorso.

  • Turchia / Kurdistan. 18 aprile. La più vasta operazione militare turca mai lanciata nelle regioni rurali dell’Anatolia sud-orientale. Nome in codice: “Spada”. L’obiettivo è neutralizzare i ribelli kurdi del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan). Lo riferisce il sito web del quotidiano Zaman precisando che è in atto simultaneamente nelle province di Hakkari, Sirnak, Tunceli, Diyarbakir, Bingol e Siirt. L’ultima operazione su larga scala dell’esercito turco risale al 21 febbraio scorso nel nord Iraq. Questa è di più ampie dimensioni.

 

  • Giappone. 18 aprile. La partecipazione giapponese all’occupazione è incostituzionale. Lo ha dichiarato il Tribunale Superiore di Nagoya (centro del Giappone) con riferimento all’invio in Iraq di forze aeree nipponiche, argomentando che la sua missione di trasportare truppe della Forza Multinazionale a Baghdad, zona di guerra, costituisce un atto che fa parte dell’uso della forza da parte degli altri paesi. Secondo il magistrato capo, Kunio Aoyama, «le attività di trasporto aereo delle forze giapponesi sono contrarie all’art. 9» della Costituzione giapponese (che vieta esplicitamente l’uso della forza come strumento di risoluzione delle dispute intrernazionali) e alla legge speciale del 2003 che consente alle Forze di Autodifesa giapponesi di prestare appoggio umanitario agli sforzi di ricostruzione in Iraq. Ne dà notizia l’agenzia Kiodo. Il tribunale si è pronunciato dopo aver ricevuto un appello di 1.100 cittadini contro una decisione del Tribunale del Distretto di Nagoya nell’aprile 2006, che aveva respinto la loro domanda di sospensione della missione. Ha però respinto la richiesta di sospendere il dispiegamento delle forze giapponesi ed il pagamento dell’indennizzo che sollecitavano queste ultime.

 

  • USA / Afghanistan. 18 aprile. Nelle carte del Pentagono la prova delle torture. I militari statunitensi usarono metodi illegali per interrogare i detenuti in Afghanistan nel 2003. Lo rivela un documento del Pentagono diffuso dall’Associazione americana per le libertà civili (Aclu).

 

  • Vaticano / USA. 19 aprile. Ratzinger dice “sì” all’«interventismo umanitario» e non denuncia la guerra. Nel 60° anniversario della dichiarazione dei diritti dell’uomo, il segretario generale dell’ONU Ban Ki-Moon ha accolto Benedetto XVI. Il pontefice ha parlato della necessità del «pre-empting and managing the conflicts» (prevenire e gestire i conflitti) «adottando ogni possibile via diplomatica, offrendo attenzione e incoraggiamento anche al più debole dei segnali di dialogo e al desiderio di riconciliazione». Nel lungo e articolato intervento –metà in francese e metà in inglese– il Papa ha inoltre denunciato il paradosso «di un consenso multilaterale che continua ad essere in crisi, perché è ancora subordinato alle decisioni di pochi, mentre i problemi del mondo devono essere risolti da inteventi della comunità internazionale, in forma di azione collettiva». Difficile trovare riferimenti diretti nelle parole papali; grande assente è stata la parola «guerra» e i suoi responsabili. Il pontefice ha parlato del dovere di ingerenza –o, usando il suo linguaggio, «la reponsabilità di proteggere»– ma solo in caso di «violazione forte e grave dei diritti umani» o di «crisi umanitarie, naturali o causate dall’uomo». Nel discorso si legge che «l’azione della comunità internazionale e delle sue istituzioni, a patto che rispetti i princìpi dell’ordine internazionale, non dovrebbe mai essere interpretata come un’imposizione senza garanzie o una limitazione della sovranità». I diritti umani, che secondo il pontefice sono «basati su quella legge naturale inscritta nei cuori umani e presente in diverse culture e civiltà», sono stati uno dei punti centrali dell’intervento, durato circa trenta minuti.  A sua volta, il segretario dell’ONU ha elencato una serie di «obiettivi fondamentali che condividiamo»: la non proliferazione delle armi nucleari, il disarmo, il surriscaldamento del pianeta, il dialogo tra religioni e culture.

 

  • Vaticano. 19 aprile. Scambio surreale di dichiarazioni tra il Pontefice, giunto alla Casa Bianca mercoledì, nel giorno del suo 81° compleanno, ed il presidente statunitense George Bush. Il Papa ha lodato la «generosità» degli Stati Uniti, dicendosi fiducioso che «la sua preoccupazione per la grande famiglia umana continuerà a trovare espressione nel sostegno per i pazienti sforzi della diplomazia internazionale nel risolvere i conflitti e promuovere il progresso». Ha alla fine concluso il suo discorso con l’augurio “God Bless America” (Dio benedica l’America), che è anche il titolo di una popolare canzone considerata una sorta d’inno nazionale ufficioso. Da parte sua Bush, durante il discorso di benvenuto al Papa, non è stato da meno nel pronunciare surreali amenità: «In un mondo in cui qualcuno evoca il nome di Dio per giustificare atti di terrore, assassinio e odio, abbiamo bisogno del suo messaggio che Dio è amore e abbracciare questo amore», ha continuato, «è il modo più sicuro per salvare l’uomo dal cadere preda dell’insegnamento del fanatismo e del terrorismo». Per poi concludere, con inusitato sprezzo del ridicolo: «Abbiamo bisogno del suo messaggio che la vita umana è sacra».

 

  • Vaticano / USA. 19 aprile. Disattesa dal Papa la lettera aperta di circa 3mila esponenti cattolici e di religiosi di correnti progressiste che chiedevano che non incontrasse George W. Bush, in segno di protesta per la guerra all’Iraq. Nella lettera un’istanza (porre «immediatamente fine a questa guerra») ed una domanda: «se Lei si inginocchia in segno di dolore e di indignazione davanti alla croce del Cristo torturato, può offrire la sua benedizione ad un capo di governo che giustifica gli abusi più terribili delle menti e dei corpi come qualcosa di “legale”?». Uno dei firmatari, il vescovo Thomas Gumbleton, di Detroit, si è aggiunto, insieme ad altri vescovi, a quanti lottano per la dignità e in difesa degli immigrati, poveri, discriminati e incarcerati, con appelli per riforme di fondo, in favore della giustizia sociale, dell’eguaglianza e per la fine della pena di mote. Sulla stessa linea si è posizionato padre Roy Bourgeois, impegnato nella campagna per la chiusura della Scuola delle Americhe, dove sono stati istruiti alcuni dei peggiori militari latinoamericani responsabili di colpi di Stato, torture e mattanze, con la consulenza ed il sostegno statunitense.

 

  • USA. 19 aprile. Stato di Polizia permanente negli USA. È quanto si ricava dalle considerazioni del sociologo Jean-Claude Paye sulla conferma del Patriot Act, che sostanzialmente fa tabula rasa delle libertà pubbliche e individuali negli Stati Uniti. L’autore di “La fine dello Stato di diritto” (Manifestolibri) e di “Global War on Liberty” (Telos Press), analizzando il rinnovo del “Patriot Act” avvenuto un paio di anni fa, rileva che le procedure di deroga adottate dopo l’11 settembre 2001 sono diventate permanenti senza sollevare ampie contestazioni. Paye ricorda che «il Patriot Act autorizza l’incarcerazione a tempo indeterminato, senza processo né capi d’accusa, di stranieri sospetti di terrorismo, installando un generale sistema di sorveglianza della popolazione. Alcune di queste misure di controllo sono permanenti, altre furono votate per un periodo di quattro anni. Queste ultime, contenute in 16 articoli, venivano a scadere alla fine del 2005». Le norme del Patriot Act, continua Paye, «hanno l’effetto di aumentare considerevolmente i poteri dell’esecutivo e principalmente quelli dell’FBI. Le poche modifiche inserite nel corso delle procedure per il rinnovo della legge sono lontane dal ristabilire l’equilibrio in favore del potere giudiziario». Con il rinnovo del Patriot Act «viene prolungato l’articolo 213, una procedura permanente che stabilisce tecniche d’inchiesta molto invasive, denominate “sneak and peek”. Esso autorizza l’FBI a penetrare in un domicilio o un ufficio in assenza dell’occupante. Durante questa inchiesta segreta, gli agenti federali sono autorizzati a scattare fotografie, a esaminare il disco rigido di un computer e a inserirvi un dispositivo digitale di spionaggio, chiamato “lanterna magica”. Una volta installato, questo sistema registra qualunque attività informatica senza che ciò appaia. Tale possibilità esisteva già nell’ambito delle procedure d’inchiesta classiche, ma sottomessa all’autorizzazione di un tribunale e con l’obbligo di notificare immediatamente la procedura alla persona interessata».

 

  • USA. 19 aprile. Un’altra procedura permanente che è stata prorogata «è quella della clausola 505 che ampia le possibilità, per l’FBI ed altre amministrazioni, di ottenere “lettere di sicurezza