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Mikhail Afanas’evic Bulgakov, la difesa della dignità di uno scrittore

di Stenio Solinas - 20/01/2006

Fonte: lineaquotidiano.it


Il Maestro e Margherita

Fa un certo effetto sapere che in
Russia stia spopolando la riduzione
televisiva di Il Maestro e Margherita
di Bulgakov, un kolossal di dieci
ore suddivise in nove puntate, un
cast di 200 attori, un pubblico finora
di oltre 40 milioni di spettatori.
Negozi e uffici hanno stabilito orari
ridotti per permettere agli impiegati
di non perdersi ogni settimana le
scene iniziali, sono stati installati
maxischermi nei ristoranti e nei
bar, una martellante campagna pubblicitaria
è in atto nelle grandi città,
la casa-museo al numero dieci della
Bolhshaja Sadovaja, a Mosca, dove
nel romanzo si installa il Diavolo,
sotto le spoglie dell’illusionista
Woland, e nella realtà visse l’autore,
è meta di rinnovato interesse.
Fra tutti gli scrittori vissuti al tempo
della Rivoluzione d’Ottobre,
Bulgakov fu quello cui toccò la
sorte beffarda di essere seppellito
da vivo. Quasi nulla dei suoi
romanzi e dei suoi racconti sopravvisse
alla censura e i suoi tentativi
di autore teatrale sortirono lo stesso
effetto. Morì che aveva appena cinquant’anni,
caso limite di un autore
che poté misurare la sua grandezza
non sulla base del pubblico e/o della
critica, ma su quella del divieto e
la sua ostinazione a scrivere, contro
tutti e nonostante tutto, è una delle
più alte dichiarazioni di fede nella
letteratura che è dato incontrare. “I
manoscritti non bruciano” si legge
a un certo punto nel Maestro e
Margherita, ovvero i regimi passano,
i dittatori muoiono, ma l’arte
resiste grazie a un fuoco interno
che non la divora, ma la illumina.
Bulgakov conosceva il suo valore e
fu questa consapevolezza che gli
permise di resistere e andare avanti.
Come scrisse Anna Achmatova in
occasione della sua morte: “Tu così
duramente sei vissuto e fino all’ultimo
hai serbato/un magnifico
disprezzo”.
Scritto negli anni Trenta Il Maestro
e Margherita fu pubblicato solo
negli anni Sessanta: in edizione
integrale uscì prima in Europa che
in Unione Sovietica dove, nonostante
il “disgelo”, il fuoco censorio
ardeva comunque e il romanzo
continuava a fare paura. Adesso
che è passato più di mezzo secolo e
il comunismo è un relitto della storia
è interessante cercare di capire
come e perché il fascino del romanzo
persista e che cosa nella Russia
di Putin ne faccia un libro di culto.
Come tutti i capolavori che sfidano
il tempo, il romanzo si presta infat-
ti, al di là della stretta esegesi criticoletteraria,
a una doppia chiave di lettura,
storicistica da un lato, strettamente
legata all’attualità dall’altro.
Nel primo caso, Il Maestro e Margherita
è uno straordinario esempio
di “come eravamo”, ovvero l’autobiografia
di una nazione almeno sino
alla caduta del Muro di Berlino: la
coabitazione e la nomenklatura, la
burocrazia ossessiva quanto parassita,
la censura occhiuta e il politicamente
corretto, la pratica della delazione
e la sfrontatezza scientista, l’irrisione
della religione e la segretezza
come arma di potere. Un popolo
mistico, legato a usi, costumi, tradizioni
ancestrali, si ritrovò dall’oggi
al domani trasformato in un esercito
proletario la cui esistenza era scandita
da piani quinquennali, il cui orizzonte
era simboleggiato dalla conquista,conquista,
sempre in divenire, del socialismo.
Nessuna nazione come l’Urss
sopportò una tensione così forte fra
un futuro annunciato e mai raggiunto
e una quotidianità militarizzata e fatta
di stenti, sotterfugi, meschinità,
terrore. Nessuna nazione come
l’Urss fu così a lungo in balia di un
potere cieco e che però vedeva tutto,
assoluto e imperscrutabile, irrazionale
e tuttavia dotato al suo interno di
una logica ferrea. Nelle vicende
umane del Maestro, un intellettuale
che si vede additato come nemico
del popolo senza che il popolo nemmeno
sappia cosa ha scritto, della
sua innamorata Margherita, condannata
a un matrimonio senza amore in
una società dove non esistono più
rapporti umani perché tutti sospettano
di tutti, entrambi circondati da un
formicaio umano in cui ciascunopensa per sé e si arrabatta, dietro un
ossequio formale, a scavarsi una nicchia
il più possibile confortevole,
non importa se a danno del vicino,
dell’amico, del parente, c’è il ritratto
di un’epoca, di una società, di una
ideologia.
È qui che si inserisce l’altro elemento,
quello della contemporaneità.
Usciti dal comunismo, i russi si sono
ritrovati in una realtà
che mima le società
liberali, ma
mantiene i tratti
di dispotismo
asiatico
che già connaturarono
l’eredità
czarista. Si ritrova
come presidente un ex capo dei Servizi
segreti, assiste ad ascese finanziarie
impressionanti di cui nessuno
conosce le origini e che spesso crollano
rovinosamente nel momento in
cui entrano in collisione con il potere
politico, sperimenta un tasso di criminalità
che ha pochi rivali nel mondo,
verifica sulla propria pelle l’inadeguatezza
della infrastrutture statali,
luce, gas, acqua, telefono, a fronte
di una campagna ossessiva che
magnifica il libero mercato e l’iniziativa
privata, è stretta fra continui
richiami all’orgoglio e alla grandezza
nazionali, repressioni militari di
cui sa ben poco, esibizioni di forza
dietro cui però si rivelano debolezze
endemiche, sfiducia, corruzione.
Come in uno specchio rovesciato la
Russia putiniana si accorge che la
Russia staliniana di Bulgakov ha
cambiato nome e professione di molti
dei suoi protagonisti, ma ne ha
conservato il modo di essere e le
finalità: il burocrate che sognava di
occupare la casa di un altro “compagno”
adesso è lo speculatore immobiliare;
la cameriera che si voleva far
bella con i vestiti della padrona,
esponente della nomenklatura, adesso
ha una boutique ed è lei la nomenklatura;
il medico ciarlatano è divenuto
una risorsa della scienza, il funzionario
avido una risorsa della
democrazia.
Quanto a Woland, ovvero a Satana, il
grande protagonista del romanzo,
quello che ieri poteva essere letto
come un ciarlatano dotato di capacità
carismatiche, un politico che muoveva
i fili della sua recita e nella cui
figura si annullava un’intera umanità
fatta di oscurantismo, miseria, ignoranza,
il trionfo insomma della menzogna,
diventa oggi l’altra faccia
della modernità, l’idea che alla
scomparsa di un regime non abbia
fatto da contraltare una nuova politica,
ma, più semplicemente, una non
politica, il trionfo degli appetiti privati,
la logica puramente criminale
del soddisfacimento dei propri bisogni.
È probabile che la modernità di Bulgakov
derivi proprio dalla sua estraneità
al comunismo. Lì dove nomi
come Majakovsky, Babel,
scontano sulla propria vita
sulla propria arte l’illusione
di aver creduto nella rivoluzione
e fuori di essa non
sono più leggibili, questo
scrittore che dalla rivoluzione
si vide condannato al
silenzio era portatore di un
qualcosa che andava al di là
del contingente, eroico e/
meschino che fosse. Il suo
misticismo (“Io sono uno
scrittore mistico: mi servo di
tinte cupe e mistiche per rappresentare
le innumerevoli
mostruosità della nostra vita
quotidiana, il veleno di cui
intrisa la mia lingua, la raffigurazione
di alcune terribili
caratteristiche del mio popolo”)
gli permette di creare
nel Maestro e Margherita
personaggi unici, di abbattere
le barriere del tempo
dello spazio, di essere
signore assoluto di un’altra
dimensione, lì dove nessuna
censura e nessun ukase (editto
dello Zar, ndr) aveva diritto
di cittadinanza. Di tutto
questo Bulgakov era perfettamente
consapevole, come
del resto attesta il suo stupendo
carteggio con Stalin,
esemplare nella difesa della
dignità di uno scrittore: “La
lotta contro la censura, qualunque
essa sia e sotto qualunque
potere, è mio dovere,
così come gli appelli alla libertà di
stampa. Se un qualsiasi scrittore
pensasse di dimostrare che a lui non
è necessaria, sarebbe come un pesce
che dichiarasse pubblicamente di
potere fare a meno dell’acqua…
Nella vasta arena della letteratura
russa, in Urss io ero l’unico lupo.
Mi hanno consigliato di tingermi
pelo. Consiglio assurdo. Sia tinto sia
tosato, un lupo non assomiglierà
mai a un barboncino”.
Dietro alla passione popolare per
Bulgakov forse c’è anche questo,
l’omaggio postumo a chi negli anni
terribili riuscì a non doversi vergognare
di sé stesso.

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