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Serbia: un paese spaccato a metà

di Stefano Vernole - 12/05/2008




Le elezioni parlamentari dell’11 maggio hanno confermato la profonda spaccatura della Serbia, divisa esattamente a metà tra coloro che continuano a sperare in un futuro migliore grazie all’aiuto dell’Occidente e quelli che hanno invece capito come la politica delle concessioni a Bruxelles e a Washington rappresenti sostanzialmente una resa della residua sovranità nazionale.
Innanzitutto i risultati reali dimostrano quanto l‘immagine diffusa dai mass media di un popolo serbo tutto proteso verso la “scelta europeista” sia più frutto del condizionamento propagandistico al quale da anni siamo abituati, specie quando si tratta delle sorti dell’ex Jugoslavia.
Analizzando infatti sul sito del Cesid (http://www.cesid.org/eng/index.jsp) (1) la spartizione dei seggi, notiamo come la coalizione reclamante la vittoria, quella guidata dall’attuale presidente Boris Tadic, disponga ora di 123 deputati in Parlamento, contro invece i 127 di un possibile governo formato dai Radicali, dai Socialisti e dai Democratici dell’ex premier Kostunica.
Ricordiamo che dopo l’auto-proclamazione dell’indipendenza kosovara, proprio il partito guidato da quest’ultimo si sia reso protagonista degli attacchi più duri non solo contro gli Stati Uniti ma anche contro il processo di avvicinamento dell’Unione Europea, al punto che uno dei suoi ministri, durante la campagna elettorale, aveva minacciato di “stracciare” l’accordo di associazione e stabilizzazione con Bruxelles, firmato dai liberali solo pochi giorni fa.
Proprio sulla necessità che l’Unione Europea riconoscesse l’integrità della Serbia (Kosovo e Metohija compreso) prima di ogni possibile intesa tra le due parti, era caduto il precedente governo nel quale Tadic e Kostunica si trovavano alleati, mentre su questo punto trovavano una forte convergenza i tre partiti, Radicali, Socialisti e Democratici che potenzialmente in questo momento disporrebbero di un risicato vantaggio in termini di deputati (quattro più della coalizione liberale, Tadic più Jovanovic, alla quale si aggiungerebbero senz’altro i seggi riservati alla minoranza ungherese di Pastor, del Sangiaccato musulmano di Ugljanin e degli Albanesi di Preshevo).
Le intransigenti posizioni contro la NATO e Washington assunte ormai da diversi mesi dall’ex capo del governo di Belgrado, avevano portato presunti “esperti dei Balcani” a definire Vojislav Kostunica “il nuovo Milosevic” e spiegano, ma solo parzialmente, il mancato decollo del Partito Radicale, trovatosi a fare i conti con un nuovo concorrente nella denuncia del doppio peso utilizzato dall’Occidente verso la Serbia.
Un’altra, parziale sorpresa, è rappresentata dal risultato proprio del Partito Socialista, che sfiora l’8% dei voti e allontana ogni possibile ipotesi di scioglimento o confluenza in altre formazioni patriottiche.
Se allora, almeno da un punto di vista dell’immagine internazionale, la nuova formazione guidata da Tadic può cantare vittoria affermandosi quale primo partito e distanziando di oltre 9 punti i Radicali (che alle precedenti elezioni legislative godevano della maggioranza relativa e rappresentavano lo spauracchio degli ambienti economico-finanziari), solo le prossime ore scioglieranno il dilemma su quale governo possa essere formato dopo queste consultazioni.
Commentando, invece, la deludente percentuale ottenuta dalla formazione guidata da Nikolic, che aumenta di appena mezzo punto nonostante la mobilitazione nazionalista seguita alla secessione di Pristina (i sondaggi l’accreditavano del 35% mentre si è fermata al 29%), bisogna sottolineare alcuni fattori che ne hanno probabilmente bloccato l’avanzata.
Innanzitutto la mancanza di una compiuta classe dirigenziale, indispensabile quando ci si prepara ad assumere le redini del paese (al contrario dei Socialisti, i cui quadri altamente formati gli hanno permesso di recuperare consensi), compensata parzialmente dallo “zoccolo duro”, rappresentato dai ceti popolari.
In secondo luogo un inedito moderatismo, dovuto probabilmente alla necessità di tutelare la figura di Vojislav Seselj, tuttora impegnato in una durissima battaglia contro l’iniqua giustizia internazionale incarnata dal Tribunale dell’Aja ma che non ha consentito di fornire obiettivi concreti alle quotidiane manifestazioni spontanee di protesta anti-occidentali, animanti in questi mesi anche la “borghese” Belgrado (significativo il dato sull’astensionismo, che è quasi al 40%).
Infine la posizione abbastanza defilata della Russia, indicata da Nikolic quale possibile alternativa alla scelta europea, che ha però preferito non sbilanciarsi troppo nel suo sostegno al leader radicale, in quanto non interessata ad alzare la tensione in un momento in cui si appresta a concludere importantissimi accordi economici con la Serbia.
Su tutto, però, rimane pendente l’irrisolta questione del Kosovo e Metohija, la cui indipendenza è stata subito esclusa, dopo gli esiti del voto, dallo stesso Tadic.
Ancora una volta, allora, potrebbe essere la famosa improvvisazione-spontaneità serba a smuovere le acque in una determinata direzione, qualità che nei pressi di Mitrovica non sembra mancare.



Note

1) Giova ricordare che l’istituto demoscopico Cesid, incaricato di fornire le proiezioni elettorali e i risultati definitivi, è estremamente vicino ad ambienti occidentali. Tra i suoi link si possono peraltro notare alcune istituzioni notoriamente legate alla CIA e agli ambienti finanziari statunitensi (George Soros in testa), quali: Freedom House, Open Society Fund e Usaid.