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Quale Neoruralismo?

di Michele Corti - 13/05/2008

 

Il «Ruralismo» ha rappresentato per le correnti dominanti della cultura
italiana un termine da esorcizzare, un’etichetta infamante da affibbiare
a fini di delegittimazione di posizioni sgradite. L’anatema della cultura
«progressista» nei confronti del ruralismo discendeva dal suo assimilarlo
ad una forma di subdolo interclassismo, quando non di populismo reazionario
o di un genere di oscurantismo mirante a riportare i rapporti
sociali nelle campagne alla … servitù della gleba o giù di lì. La persistenza
sino a tempi molto recenti di posizioni ferocemente antiruraliste nella
intellighentia italiana è certamente retaggio del maggior peso della realtà
urbana (in termini di processi storici di lunga durata e di capillarità della
presenza degli organismi urbani), ma non si deve dimenticare che un
feroce antiruralismo era diffuso in tutte le culture urbane europee sino
all’inizio dell’età contemporanea.
In modo diverso la campagna e/o i ceti rurali in Germania, in Francia,
in Inghilterra (in quest’ultimo caso, però, si tratta di una campagna senza
contadini) hanno contribuito – all’interno del processo di nation making –
alla costruzione della rappresentazione della nazione, tanto da ribaltare o
modificare profondamente il precedente paradigma antiruralista. In Italia
i contadini del Sud sono stati identificati con i «sanfedisti», i «briganti»,
ma le cose non sono andate molto meglio al Nord, dove gli è stato spesso
rinfacciato di essere «austriacanti» (nel caso del Trentino e del Friuli si
tratta della storia del secolo appena trascorso). Nobiltà e borghesia hanno
utilizzato le tenute agricole quali investimento, produzione, prestigio ed
anche quali residenze di piacere, ma appartenendo a tutti gli effetti alle
élites cittadine dei capoluoghi.1
Tutto ciò ha senso solo retrospettivamente, ai fini delle interpretazioni
della nostra storia o si riverbera nel presente, riguarda processi sociali in
atto e persino prospettive future?... continua

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