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Più che grano sembra oro

di Roberta Carlini e Vittorio Malagutti - 13/05/2008

 

 
In campagna si viveva di contributi pubblici. Ma adesso il boom delle materie prime moltiplica i profitti delle aziende. Festeggiano i piccoli imprenditori come pure i grandi. Da Benetton alla Banca d'Italia
Il boom dei prezzi agricoli? Lo cavalca anche la Banca d'Italia. Poca cosa rispetto ai guadagni miliardari degli hedge fund che speculano sulle materie prime. Di certo però, mai come in questi mesi la società Bonifiche Ferraresi, quotata in Borsa, ha dato soddisfazioni ai suoi azionisti. E il primo della lista, il più importante di tutti con una quota del 62,3 per cento del capitale, è proprio la banca delle banche, guidata dal governatore Mario Draghi. Dopo anni di magra, la grande azienda agricola controllata da Bankitalia ha appena mandato in archivio un bilancio coi fiocchi: 6 milioni di profitti su 10,6 di giro d'affari. Merito di proventi fiscali per 4 milioni, ma anche i ricavi dei campi sono cresciuti alla grande: quasi il 20 per cento in più sul 2006. E le prospettive per quest'anno si annunciano ancora migliori. "Profitti in aumento", prevedono gli analisti. Per forza: sui mercati internazionali le quotazioni dei cereali restano a livelli stellari. Per il grano duro, quello che serve per fare la pasta, siamo al doppio o anche di più in confronto alla primavera del 2007. E allora in campagna si torna a guadagnare.

Festeggiano i soci di Bonifiche Ferraresi. E tra questi, con una quota poco più che simbolica, il 2 per cento, troviamo anche la holding lussemburghese di Carlo Sama, leader di quel che resta dell'impero agroindustriale dei Ferruzzi di Ravenna. Più che soddisfatti anche i Benetton. Dieci anni fa comprarono la Maccarese dall'Iri, cioè dallo Stato. Da allora la famiglia di Treviso ha investito molto per rilanciare la più estesa azienda agricola d'Italia (3.200 ettari, circa 9 milioni di fatturato) e mai come quest'anno, dopo tanti bilanci in rosso, le prospettive appaiono rosee. Storie di pesi massimi, queste. Ma la febbre del grano ha contagiato un po' tutti, dalla Lombardia alla Sicilia. Gli imprenditori agricoli, abituati a vivacchiare sfruttando la rete di sicurezza dei contributi pubblici, adesso vedono aprirsi prospettive di business che fino a poco tempo fa neppure osavano immaginare. "Era ora, dopo 20 anni di prezzi fermi o in calo finalmente il mercato si muove", si sfoga Mauro Tonello, 160 ettari coltivati a cereali nel ferrarese.

Mario Draghi
Tutti con l'occhio alle borse merci, quindi, con il grano duro che sforna record di mese in mese. Sopra i 300 euro a tonnellata nell'agosto 2007. Da allora è bastato meno di un mese per toccare quota 400. All'inizio di quest'anno il prezzo è arrivato di slancio a 450 euro, fino a sfiorare il primato assoluto di 500 euro a tonnellata verso fine marzo, per poi assestarsi e scendere un po' in aprile. "A memoria mia è la prima volta che succede una cosa del genere", confida Marco Grasso, 48 anni, imprenditore agricolo del foggiano. Viene da una famiglia di agricoltori, segue il grano "da sempre". La sua azienda, 700 ettari, è molto grande rispetto alla media italiana, che è fatta di appezzamenti di 6-7 ettari. "Noi il grano duro non l'abbiamo mai ridotto", racconta Grasso, "anche quando qui nel Tavoliere veniva abbandonato da molti". In effetti, molti in Puglia hanno venduto i loro terreni per farci mettere pannelli solari, o pale eoliche.

Invece adesso si torna al grano. Quest'anno in Italia il raccolto sarà molto più abbondante. Perché ovunque chi poteva ha sostituito girasole, orzo, barbabietola per seminare frumento. Oppure sono stati riutilizzati terreni sfruttando le deroghe dell'Unione europea che ha eccezionalmente sospeso l'obbligo di mettere a riposo una parte dei campi, il cosiddetto set-aside. Risultato: la semina del grano duro è aumentata del 18 per cento e quella del tenero del 14 per cento. Cala di conseguenza il terreno destinato ad altre colture. L'orzo, per esempio, è in ribasso del 12,8 per cento. "Per il frumento duro noi siamo al 15 per cento in più rispetto all'anno scorso", conferma Claudio Destro, direttore generale della Maccarese. Insomma, finché ci riescono, tutti cavalcano l'onda lunga dei rialzi. Più semine porteranno più ricavi, nella speranza di moltiplicare anche i profitti. Ma c'è anche un pedaggio da pagare. "I rialzi di questi mesi sono stati in parte annullati dai forti aumenti dei costi di produzione", frena Federico Vecchioni, presidente di Confagricoltura.
Come dire che, rispetto a un anno fa, gli agricoltori adesso spendono di più per i concimi, aumentati del 32 per cento, e per i carburanti (più 7 per cento) per effetto soprattutto della crescita delle quotazioni del petrolio. E sul bilancio finale pesa anche il rincaro delle sementi. Lo stesso Vecchioni però ammette che "c'è stato un forte recupero di reddito per le imprese agricole". Un recupero che sembra destinato a proseguire anche nei prossimi mesi, mentre si avvicina il momento cruciale del raccolto, a partire da giugno. L'anno scorso, di questi tempi, cominciava il gran rialzo sui mercati delle materie prime. E, secondo quanto raccontano i diretti interessati, molti agricoltori, per la gran fretta di approfittare di quei primi aumenti, hanno venduto il prodotto già durante la trebbiatura senza riuscire ad approfittare del boom dei mesi successivi.

La conferma arriva da un imprenditore del foggiano, Giuseppe Ortuso, 50 ettari in proprietà e 30 in affitto, coltivati a grano, pomodori e camomilla: "Hanno tutto in mano i commercianti. Qui molti agricoltori hanno venduto a 19-20 euro al quintale, mentre chi come me ha potuto aspettare fino a novembre è riuscito a farsi pagare 44 euro". Il fatto è che i piccoli agricoltori sono costretti a vendere durante la trebbiatura. Stoccare il prodotto costa troppo. "È a volte i produttori neppure si consorziano tra loro", dice Ortuso. Così l'anno scorso i grossi guadagni li hanno fatti altri. Chi? "Stoccatori e grandi mulini", dice Giuseppe Politi, presidente della Confederazione italiana agricoltori (Cia), che sottolinea il fatto che i mulini in Italia sono pochi, non si fanno concorrenza tra loro e impongono le condizioni agli agricoltori.
Anche l'industria avrebbe fatto la sua parte. "Hanno comprato a prezzi vecchi per poi ritoccare all'insù i listini con la scusa del boom dei prezzi delle commodity", si sente ripetere nelle campagne. Nel mirino ci sono i pastifici, dai piccoli fino a una multinazionale come Barilla.
"Il fatto è che le grandi industrie hanno troppo spesso privilegiato gli acquisti speculativi al ribasso sui mercati internazionali", attacca il presidente di Coldiretti, Sergio Marini. Gli industriali rispediscono al mittente le accuse. Sul prezzo della pasta - dicono - hanno influito anche altri fattori, come il prezzo dell'energia. Inoltre, buona parte degli agricoltori sono riusciti comunque a cavalcare fin dall'inizio l'onda dei rialzi, trasformando in moneta sonante buona parte degli aumenti delle quotazioni.

Nelle campagne c'è già chi vede all'orizzonte nuovi guai. Molti temono che i contadini intaschino questi profitti straordinari investendo poco o nulla per rinnovare le aziende. "I tempi dei campi e quelli dei mercati sono diversi, l'agricoltore non può pensare di seguire l'onda della speculazione", dice Mario Lanzi, della Cia lombarda. Altri invece paventano conseguenze negative sul fronte politico. La nuova ricchezza della campagne potrebbe diventare un argomento in più per chi vuole dare un taglio netto ai sussidi europei. Se i cereali diventano oro, perché mai il bilancio comunitario, e quindi dei singoli Stati, dovrebbe farsi carico di un sostegno al reddito degli agricoltori? Questo l'interrogativo che comincia a circolare nell'opinione pubblica. "Non si può impostare una nuova politica di incentivi sulla base di un periodo assolutamente straordinario dei mercati", mette le mani avanti il presidente di Confagricoltura Vecchioni. Che teme un brusco risveglio per la sua categoria. "I prezzi prima o poi scenderanno e le campagne si troveranno ad affrontare i soliti problemi". In sostanza, conclude Vecchioni, "senza incentivi per molti imprenditori non ci sarebbe più convenienza economica a coltivare grano".

Si vedrà. Resta il fatto che la bolla, salvo qualche marginale correzione, per ora non accenna a sgonfiarsi. E, come molti analisti pronosticavano già nei mesi scorsi, adesso rischiano di prendere il volo anche i prezzi dei terreni agricoli. Naturale: se il grano vale oro, anche i campi diventano beni pregiati. Un copione scontato, che in Europa va in scena già da qualche tempo, come racconta un'inchiesta pubblicata a fine aprile dal 'Financial Times'. In Inghilterra le quotazioni sono aumentate del 40 per cento nell'ultimo anno. In Italia invece i primi segnali di rialzo sono più recenti. Risalgono più o meno all'inizio dell'anno. Per il momento non sono molti gli agricoltori che pensano ad allargare le loro proprietà. Sono più numerosi che in passato, invece, gli investimenti che arrivano dalla città: industriali o professionisti che considerano i terreni agricoli un bene rifugio con rendimenti crescenti. Il fatto è che da noi c'è poca terra in vendita. E allora chi andava a caccia d'affari si è buttato nell'Europa orientale.Gli italiani si sono riversati in Romania, dove i valori fondiari sono andati alle stelle. Solo che molto spesso questa corsa all'oro è diventata un incubo. Da quelle parti ci sono intere regioni prive di catasto. Mancano le macchine. I trasporti sono un disastro. E coltivare diventa un'impresa impossibile. Come dire, una speculazione a perdere.