Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Assalto al paradiso (fino all'ultimo barile)

Assalto al paradiso (fino all'ultimo barile)

di Ivan Bonfanti - 14/05/2008

 
Doveva essere un'asta come tante, nel mercato globale dove gli affari migliori si fanno con discrezione e riservatezza, possibilmente distanti dai riflettori e dalla curiosità dell'opinione pubblica. Datata 2 gennaio 2008 (registro federale, volume 73) la Final Notice for Sale (nota finale per la vendita) informava che l'amministrazione degli Stati Uniti aveva rotto gli indugi; una fetta consistente di circa 70mila km quadrati del mare di Chukchi - tempio di vita selvaggia e animali artici a ridosso delle coste Usa - veniva messa in vendita con l'obiettivo di diventare un campo di estrazione per petrolio e gas naturali. A nulla sono servite le obiezioni di animalisti, ecologisti e cittadini dell'Alaska che da anni si opponevano all'ipotesi di consegnare ai padroni dell'estrazione l'ennesima fetta di territorio incontaminato, una banchisa dove il gobal warming sta già stravolgendo i delicatissimi equilibri naturali e che dà rifugio a una popolazione animale - orsi polari, leoni marini, uccelli e grandi predatori del mare - che altrove non può più fuggire. Macché. Neppure l'insurrezione della comunità dei nativi Inupiat a Point Hope ha avuto asilo. Come da copione, nel febbraio scorso ad Anchorage, l'asta si è chiusa con l'offerta record di 3,4 miliardi di dollari, lanciata da una join venture di sette compagnie petrolifere. Tra queste il gigante norvegese StatoilHydro, con la fetta principale, quindi la spagnola Repsol E&P e infine, tra la sorpresa degli addetti al lavori, l'italiana Eni Petroleum.

La storia poteva finire così. Una firma e via, con le trivelle che si prendono un'altra fetta di mondo e tanti saluti a orsi, trichechi o pennuti. Eppure i cittadini dell'Alaska non si sono dati per vinti, scoprendo peraltro di non essere soli. Il putiferio più fragoroso è infatti scoppiato in Norvegia, soprattutto perché StatoilHydro è statale e l'idea che di trasformare un paradiso naturale in un campo di estrazione in nome dei cittadini non è andata già a perecchi, a Oslo e dintorni. «E' completamente inaccettabile», commenta al telefono Ingeborg Gjaerum, direttore del Wwf norvegese. «Ci viene detto che il Paese sta facendo di tutto per proteggere l'ambiente e le riserve naturali, poi però salta sempre fuori qualcosa di assolutamente urgente per cui improvvisamente il principio viene meno. La realtà è che la Norvegia e Statoil stanno partecipando ad un'attività destinata senza dubbio alcuno a danneggiare un ambiente unico e fragilissimo. Trovo tutto decisamente imbarazzante per il Paese e per la compagnia. Abbiamo protestato, ci hanno detto che ci forniranno delle rassicurazioni dettagliate a breve. Staremo a vedere, ma personalmente temo sarà difficile convincermi».

Dal canto loro, le aziende giurano di «tenere in considerazione» le istanze di conservazione ambientale e protezione animale. «Abbiamo un'esperienza pluriennale maturata in Norvegia e lavoreremo sia con il governo locale che con le popolazione», ha spiegato Anne Torgersen, una portavoce della compagnia. Che a settembre parteciperà all'incontro che metterà intorno a un tavolo il sindaco di Point Hope Edward Itta, altri rappresentanti delle autorità locali, esponenti delle corporation e del governo federale. Dalle parole ai fatti, però, ce ne passa e parecchio. I pochi leader Inupiat che hanno potuto assistere al bando di assegnazione dei lotti sono tornati a casa furibondi. «Era la prima volta che partecipavo a una roba del genere e quello che ho visto non è affatto positivo», ha raccontato George King, un rappresentante dei nativi che ha assistito all'asta. «Di chiacchiere ne abbiamo sentite molte, di fatti ne registriamo uno incontroversibile: l'amministrazione Bush sta vendendo al miglior offerente il nostro oceano e le nostre risorse. Mettendo in pericolo la natura, gli animali e persino speci in via di estinzione, tra i quali a questo punto spicchiamo anche noi, gli Inupiat».

Che le risorse della regione facciano gola lo dimostrano le 667 offerte giunte alla Mms durante la vendita. L'asta record è stata però una doppia fregatura per i locali, visto che le "federal lands" non impongono tasse sulle offerte. «Ma porteremo ricchezza e sviluppo», è il ritornello delle compagnie petrolifere, secondo cui «l'intero Alaska vedrà ampi benefici economici sotto forma di nuove opportunità per i contractors locali e crescita dell'intero comparto del business regionale».

Sarà, ma è difficile immaginare come i mostruosi attrezzi per l'estrazione o qualche piattaforma isolata possa travolgere con prodigiosi vantaggi economici abitanti che vivono in comunità a cento e passa chilometri di distanza dalla banchisa sull'Oceano dove si andranno a cercare le sacche di greggio e gas naturali, ormai quasi completamente spogliate dal resto pianeta. Quello che appare invece decisamente più pericoloso è l'effetto devastante che tale attività umana avrà su uno dei pochi "safe heaven" per la vita naturale rimasti in un mondo che agli animali non appartiene più. Dall'altro lato del continente, in Canada, il governo ha lanciato l'operazione di esplorazione per reclamare la propria sovranità intorno al cosiddetto Passaggio a Nord Ovest, anche in quel caso con rischi tragici per gli animali.

L'orso polare, uno dei più grandi predatori del globo, bestia da 600 chili e oltre, mammifero solitario e meraviglioso che ha plasmato il suo viaggio in questa vita nelle condizioni estreme dei poli desolati del ghiaccio eterno, è ormai in via di estinzione e nell'arco di una ventina di anni rischiamo di trovarlo solo dietro le sbarre degli zoo. Eppure l'amministrazione Usa ha rifiutato, appena in mese scorso, di inserirlo nella lista delle speci protette. Altrimenti occorreva proteggerlo, elementare, e magari rinunciare a quella fettina di pianeta rimasto alle bestie. Il petrolio sta finendo, il mondo va in vacca e le energie alternative ci sarebbero, ma finché c'è da spolpare natura e portafogli il principio pecunia non olet resta il modello vincente. Quanto a foche, pinguini e orsi polari, sono pregati di spostarsi più in là. O magari sparire.