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La chiamata dell'Essere agli enti come l'ammiccare infinito di vivide stelle

di Francesco Lamendola - 15/05/2008

 

Carlo Carretto (1910-1988) è stato  uno dei testimoni dell'Essere più coerenti e vigorosi del nostro tempo;  le sue pagine di spiritualità, col trascorrere degli anni  (ne sono già passati venti dalla sua morte) conservano intatta la loro freschezza e la loro perenne attualità. È uno de pochi mistici italiani del Novecento la cui voce si fa più chiara e distinta, mentre si attutisce e tace il vuoto chiacchiericcio di tanti pseudo-intellettuali, di tanti vanitosi e inconcludenti "cattivi maestri" della modernità.

Le sue Lettere dal deserto, tanto per citare un titolo fra i molti, sono più che mai vive e palpitanti per gli uomini e per le donne d'oggi, assetati di verità e di permanenza e delusi, se non anche nausearti, della grancassa con cui mode effimere sono state spacciate per verità oracolari e per grandi conquiste del pensiero.

Figlio di contadini delle Langhe (le mitiche Langhe di Cesare Pavese e di Beppe Fenoglio) trapiantati ad Alessandria, maestro elementare e direttore didattico, era stato sospeso e inviato al confino durante la seconda guerra mondiale e infine, con l'avvento della Repubblica di Salò, radiato dalla scuola. Finita la guerra, nel 1945 aveva fondato, con Luigi Gedda, l'Associazione Nazionale Maestri Cattolici e, nel 1946, aveva assunto l'incarico di presidente nazionale della Gioventù Italiana di Azione Cattolica, carica che aveva tenuto fino al 1952. Uomo di idee progressiste, era stato poi costretto a dimettersi all'epoca in cui la Democrazia Cristiana aveva accentuato la sua linea politica conservatrice, cercando il sostegno parlamentare dell'estrema destra.

Contemporaneamente erano maturati in lui una forte vocazione religiosa e un imperioso desiderio di raccoglimento contemplativo, tanto da spingerlo ad entrare nella Congregazione religiosa dei Piccoli Fratelli di Gesù, fondata da Charles de Foucauld. Dal 1954 al 1964, per dieci anni, si era ritirato nel Sahara algerino, immergendosi in una vita di preghiera e di silenzio, ma continuando a parlare al suo pubblico attraverso una serie di libri di meditazione, promananti una estatica e francescana comunione con le cose e un accorato, incessante dialogo con Dio, sentito sempre come Colui che si rivela nella concretezza del prossimo.

Rientrato in Italia, nel 1965 aveva fondato a Spello, un Umbria, un centro di preghiera e contemplazione eremitica, che divenne un importante punto di riferimento per la spiritualità e per il dialogo con laici e con persone di buona volontà di qualunque credo religioso. E nell'ermo di San Girolamo, a Spello, è morto il 4 ottobre del 1988, festività del santo da lui più amato e ammirato: Francesco d'Assisi.

Insieme al suo amico Arturo Paoli (che fece un itinerario esistenziale simile al suo, compresa l'esperienza della vita eremitica nel Sahara), Carlo Carretto è stato un sobrio ma efficace scrittore cristiano e - un po' come Kierkegaard nell'Europa "secolarizzata" del XIX secolo - un testimone e un maestro di speranza; una delle più nobili voci di risposta alla presunta "morte di Dio" annunziata da Nietzsche e, in genere, dal pensiero nichilista contemporaneo. Dio per lui, non è affatto morto, anzi è ben vivo nel cuore di ogni uomo: è vivo e viene verso le sue creature, fin da prima che venissero create. Se esse non lo scorgono, è perché il loro occhio non è puro, ma reso torbido dal peccato, ossia dall'egoismo e dall'eccessivo amor di sé. Ecco dunque che, per udirne i passi e per scorgerne la luminosa presenza, gli uomini devono spogliarsi della propria presunzione e dello spirito di avidità che ha offuscato loro la vista.

 

Scrive Carlo Carretto nel suo libro di meditazioni dal deserto Il Dio che viene (Città Nuova Editrice, Roma, 1971, pp. 25-34):

 

Dio viene sempre e noi, come Adamo, ne sentiamo i passi.

Dio viene sempre perché è la vita e la vita ha l'esplosività della creazione.

Dio viene perché è la luce e la luce non può stare nascosta.

Dio viene perché è l'amore e l'amore ha bisogno di donarsi.

Dio viene da sempre; Dio viene sempre.

Stasera, contemplando lo straordinario cielo del deserto, ho visto il corpo celeste più lontano dalla Terra e visibile ad occhio nudo: la Nebulosa di Andromeda.

Appariva come pallida luce fluorescente a forma di lenticchia allungata, tra la regolarità geometrica di Cassiopea e l'incomparabile diamante delle Pleiadi. Quella luce della piccola lenticchia non è di oggi. È di un milione di anni fa.

Stasera ho visto indietro, nel tempo di un milione di anni, ossia di diecimila secoli.

La luce pallida della Nebulosa, giunta al mio occhio stasera, è partita di lassù un milione di anni fa, alla velocità di trecentomila chilometri al secondo. Già da allora, e senza dubbio prima di allora, dio s'era mosso per venirmi incontro.

Ma Andromeda è la galassia più vicina alla nostra e e gli astronomi sono ormai abituati a calcolare le distanze a decine di miliardi di anni luce che ci separano dalle altre galassie sperdute nell'immenso.

Dio è da molto tempo che si è messo in cammino per venire a me, quando non ero nato. E con me non erano nati né il sole né la luna né la terra né la mia storia né i miei problemi. (…)

Quando vengo per pregare nel deserto, preparo la mia preghiera con la contemplazione delle cose. Penso proprio che il Signore le abbia messe lì per questo. (…)

Perché non è forse la meraviglia il primo incontro cosciente col mistero' Non è forse nella meraviglia la prima nascita della preghiera?

Non sta nel potere di meravigliarsi il primo potere di contemplare?

Dicevo che quando vengo per pregare, preparo la mia preghiera col guardare il cielo e la terra.

Direi di più. Coll'immergermi nel cielo e nella terra.

Prima di iniziare il mio dialogo con Dio, Faccio la ricognizione del pezzo di terra dove Lui mi ha voluto.

Non è un perditempo passeggiare, guardare, toccare, contemplare le cose.

Anzi bisogna andare più in là. Vivere le cose.

Non ridete se vi dico che ho fatto una scoperta su questa strada di "vivere le cose".

E la scoperta consiste nell'entrare nel gioco della creazione come nella più meravigliosa e semplice strada per incontrarmi col Creatore.

Intanto mi dispongo al gioco nella libertà, , nella libertà più grande che sia possibile.

Se venissi ad esempio qui nel deserto con un bel vestito, mi sentirei subito schiavo di esso, con la solita paura di sporcarlo o di perdere la piega dei pantaloni.

No, vengo con un vestitaccio che mi permetta di rotolarmi nella sabbia tutte le volte che la gioia di Dio mi prende.

Se venissi con apparecchi vari, elettrodomestici, letto o cose del genere, perderei la gioia di raccogliere la legna nell'Oued e di vedere la fiamma viva tra due sassi semplici e veri come la creazione.

Com'è bello far la cena in una pentola nera di fumo che, appena usata, non chiede nulla al mio tempo e che accetta di stare in un angolo silenziosa come le vecchiette di un tempo!

Ma bisogna andare più in là ancora per entrare nel gioco serio della natura.

Bisogna accettare il vento, il freddo di notte, il caldo di giorno, i disagi, la sabbia, la poca salute, le contrarietà come discorsi usati da Dio per insegnarci la povertà e la pazienza, e non come motivo di inutili lamenti.

Soprattutto bisogna il più possibile tornare indietro nel tempo, vicino all'origine delle cose, quando la materia era più visibile della tecnica e la bellezza dei tramonti più a disposizione delle comodità che ci vengono dalla civiltà del benessere.

Sì, cerco di entrare nelle cose come i primitivi che vivevano nella natura e della natura, e non si ponevano nemmeno il problema dell'esistenza di Dio.

Certo, non cercavano di dimostrarlo perché lo sentivano, Dio era là e "il rumore dei suoi passi giungeva loro" (Gen., 3, 8).

L'esistenza di Dio è evidente a chi ne sente i passi. (…)

Quando questa non è ancora incominciata, l'uomo sente nella creazione "il rumore dei suoi passi" e come Adamo "fugge dalla presenza di Jahvè-Dio" e si nasconde "in mezzo agli alberi del giardino" (Gen., 3,8).

Perché fugge' Perché non possedendo più l'antica innocenza ha paura di stare davanti a Dio, perché, avendo perduta l'antica trasparenza, non riesce più a vederlo com'è.

Qui sta il vero motivo della difficoltà per gli uomini di tutti i tempi di vedere Dio nella creazione. Non sono più semplici, non sono più veri, ed è questo che si chiama peccato.

Se esiste una propedeutica alla fede da parte dell'uomo, questa lo impegna a liberarsi dal peccato che ne è il vero ostacolo. "Se non divenite piccoli, non entrerete nel regno dei cieli" (Mt. 18. 3),  ci dice Gesù con forza, e il divenire piccoli significa divenire trasparenti, buoni, veri.

Ogni passo che l'uomo fa per liberarsi dalla menzogna, dalla turpitudine, dalla violenza, dall'egoismo, dall'orgoglio, è un passo fatto verso la visione di Dio.

Ogni sforzo a vivere la verità, a fare il bene, a rispettare la vita è una preparazione lontana all'avvento della luce. Ed è certo che la luce verrà sotto la sola spinta dell'amore di Dio, ma è altrettanto certo che potrà essere accolta da chi ha rinunciato ad essere tenebra.(…)

Ecco, possiamo non accoglierlo, possiamo non volere la luce. Ed è qui il nostro vero dramma.  Diamo a volte l'impressione di voler cercare Dio, lo diciamo anche, ma in realtà non vogliamo disturbare la nostra comodità, non vogliamo compiere gli strappi dovuti.

Diciamo di voler la fede, ma senza aprire il portafoglio ai poveri, sosteniamo di cercare Cristo, ma senza impegnarci autenticamente a cambiare la nostra vita, che pur vediamo chiaramente sbagliata.

Io mi sento di sfidare             qualsiasi uomo che dica. "Io cerco Dio e non lo trovo!".

Prova - gli direi - a fare ogni giorno tutte le tue cose nella verità, liberati dal demone dell'orgoglio e dallo spessore soffocante dell'egoismo, sradica ogni razzismo che è in te, accogli ogni uomo come un fratello, e… vedrai… lo vedrai!

Perché vivendo l'«Amore», facendo la «Verità»,rispettando la«Vita», tu vivi, fai, rispetti Dio che è già in te.

Perché non è che Dio verrà in te ora che sei diventato "buono". Lui c'era già, Lui è già venuto da sempre e viene sempre.

Ma sei tu ora che lo puoi vedere perché hai purificato il tuo occhio, hai addolcito il tuo cuore, sei disceso dalla tua altezza.

Ricordalo. Lui c'era già, Lui c'era già, Lui c'era già!

L'unica difficoltà era che non lo vedevi.

E ora, identificando vieppiù l'amore, la luce, la vita con Lui, vedi Lui anche se avvolto ancora nell'oscurità di una nascita non matura ed espresso dalla misteriosa parabola delle cose create.

 

Si può dunque affermare che Carlo Carretto ha portato avanti, in termini di contemplazione religiosa, un discorso analogo a quello dei filosofi personalisti cristiani e, più in generale, di quei pensatori che - in opposizione al nichilismo e all'esasperato soggettivismo dilaganti da Hegel in poi - hanno affermato l'esigenza di tornare alle radici della metafisica e a una riscoperta ontologica delle radici dell'Essere, sola maniera di riscoprire la ricchezza dell'alterità e quindi, come direbbe Levinass, per scorgere il volto dell'Altro, uscendo dal folle orgoglio di un solipsismo sempre più sterile e asfittico.

Tra questi pensatori dobbiamo ricordare Vittorio Possenti, docente presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Venezia. Nel suo bel libro Terza navigazione. Nichilismo e metafisica (Roma, Armando editore, 1988, pp. 344):

 

(…) L'architrave che collega ontologia e antropologia sta nell'assunto che il livello più alto dell'essere sia l'esistenza personale, che fra tutte le modalità di esistenza la più perfetta sia quella della persona, dove può venire elevato un canto in onore dell'esistente. Qui può venire in soccorso l'espressione: «Qualcosa di ciò che esiste merita di continuare ad esistere», contrariamente alle amare acque del pensiero dialettico, dove tutto ciò che esiste merita di morire. L'atto preconcettuale di consenso all'essere ingloba un atto di accettazione-consenso alla persona.

Con valide ragioni si possono accostare nichilismo speculativo e antipersonalismo, come sembra mostrato dal carattere antipersonalistico delle opere di Nietzsche, Gentile, Heidegger. Esse (…) sono filosofie del Neutro, che mettono il mora il dialogo io-tu, la comunicazione, un'ontologia dell'interiorità e dell'«esteriorità» nel senso di di Lèvinas, che osserva. «Il materialismo non sta nella scoperta della funzione primordiale della sensibilità, ma nel primato del Neuro». Antropologicamente il nichilismo  è cancellazione del volto. La persona ha volto, le cose sono enti senza volto. Chi non ha volto è cosa ed è perciò segno di altro, mentre il volto rinvia a se stesso.  Esso che non è parte integrante del mondo inteso come la totalità di ciò che accade, vale in sé e rivela se stesso. Uno schiavo in Grecia era un aprosopos, un senza volto. Proprio questo le filosofie del Neutro intendono. Che la persona non riceve il suo significato e il suo valore dall'essere-nel-mondo. Delle due possibili definizioni dell'uomo, la definizione in base al suo rapporto con l'Essere e la Verità, oppure a quello col Mondo, le metafisiche della persona/interiorità si orientano verso la prima, capace d'altronde di includere il positivo della seconda.

Ce il nichilismo teoretico col suo oblio dell'essere possa condurre all'oblio dell'altro dovrebbe apparire qualcosa di più di una ipotesi…

 

Non vogliamo dire, con questo, che la sola autentica metafisica sia quella delle filosofie personalistiche; ma che tutte le filosofie della modernità (e  sono la maggioranza), le quali hanno inteso ridurre la conoscenza a una produzione del soggetto pensante, hanno finito per perdere di vista la concreta dinamica del rapporto fra sé e l'altro, per sostituirla con un atto anonimo - appunto, im-personale - del pensiero stesso (vedi, ad es., l'attualismo gentiliano e, in generale, l'idealismo in tutte le sue varianti, marxismo compreso).

Da ciò sono derivate diverse conseguenze notevoli.

 

La prima conseguenza, che è scomparso il volto dell'Altro e, specularmente, il volto del Sé; è scomparsa la relazione dall'io al tu.

Ma, se è scomparso il tu (e, in un certo senso, anche l'io), è scomparsa l'unica maniera realmente umana di porre le domande alla realtà, a cominciare dalla domanda di senso. Si è dato per scontato, cioè, che un senso non esista; anzi, per essere più precisi, che non abbia alcun significato porsi una domanda del genere. E, con le varie filosofie del linguaggio (cfr. Wittgenstein), si è giunti ad abolire la domanda stessa. Bisogna imparare a tacere quello che non si può dire: tale l'approdo della "saggezza" di un disperato immanentismo e di un logicismo esasperato. Ma ci si è scordati, in un certo senso, che l'essere umano è un essere che interroga, costitutivamente, il mondo e se stesso. Di conseguenza, tali filosofie hanno tradito la natura profonda dell'essere umano, amputandola di una componente essenziale.

 

La seconda conseguenza, che l'essere umano ha non solo un intrinseco e inesauribile bisogno di domandare, ma anche di protendersi verso la Verità.

Ora, se si abolisce la relazione concreta con l'Altro (e con quell'altro che è in noi, ossia il Sé), viene abolita ogni speranza e possibilità di avere la Verità quale testimonio del proprio domandare e quale causa finale del proprio domandare.

Scompare il tu, scompare la relazione; scompare la relazione, scompare la domanda; scompare la domanda, scompare il principio di Verità. Ed ecco che l'idea stessa di Verità, intesa come istanza suprema e come senso, insieme, del nostro domandare, tramonta nel cielo del pensiero contemporaneo: è il necessario preludio al "tramonto" di Zarathustra e alla trasmutazione di tutti i valori. Se non ci sono più né la Verità, né la santa aspirazione vero di essa, il mondo rimane polverizzato in cento, mille, infinite verità parziali e soggettive, tutte con la lettera minuscola. Ogni verità è uguale a un'altra verità qualsiasi; sono tutte legittime e tutte pari in dignità gnoseologica ed ontologica. All'essere umano, quindi, non resta altro da fare che recarsi al grande supermercato delle verità e comprare, con buona pace e perfetta coscienza, quella che più si attaglia alla propria misura.

 

La terza conseguenza è un predominio sempre più massiccio della conoscenza razionale e, dunque, della strapotenza tecno-scientifica.

Il conoscere e il sapere non sono per nulla, in tale prospettiva, un fatto di ascolto e, perciò, di amore; al contrario, sono un fatto di logica formale. Ciò che è definibile sul piano della logica e dimostrabile sul piano della matematica, è tutto quanto ci occorre per vivere nel mondo con piena consapevolezza e con dominio sicuro dell'esistente.

Questa ipertrofia del pensiero razionale, considerato - a torto, secondo noi - come il punto più alto e la ragion sufficiente dell'intelligenza umana, porta con sé la svalutazione, il disprezzo e l'abbandono di tutti quegli approcci al reale che percorrono strade diverse: il pensiero creativo, la spiritualità, la mistica, l'abbandono all'Essere inteso come atto sovra-razionale e non già extra-razionale o, peggio, irrazionale.

Eppure, a costo di apparire terribilmente "sentimentali", occorre avere il coraggio di affermare ad alta voce che nessuna vera conoscenza e nessun vero sapere possono scaturire da un pensiero astratto e distaccato, che sia senza stupore e senza amore, senza senso del mistero, senza entusiasmo ed inquietudine, senza uno sguardo capace di riconoscere la bellezza.

 

Ecco perché la costellazione di Andromeda, brillando nell'aria fredda e limpidissima del deserto, parla agli uomini capaci di stupirsi, di coinvolgersi, di abbandonarsi al mistero dell'Essere, in un linguaggio tanto chiaro e distinto, quanto nessuna filosofia del Logos strumentale e calcolante potrà mai sperare di fare.

Dice benissimo Carlo Carretto: è il nostro occhio che ha bisogno di snebbiarsi, per poter vedere la verità, la bontà e la bellezza supreme dell'Essere, che è lì davanti a noi; anzi, che continua a venire verso di noi, dagli abissi insondabili prima dello spazio e del tempo.

Ma se l'occhio non è puro, noi non riusciremo mai a vedere l'Essere, pur avendolo innanzi; meglio: pur essendo immersi nello splendore della sua luce.

Ecco, allora, che invece di pretendere orgogliosamente di costruire l'immagine del reale all'interno dei nostri schemi iper-razionali, dovremmo reimparare l'umiltà con la quale, per secoli e millenni, gli esseri umani - sia nelle società "primitive", sia in quelle "progredite" - hanno saputo riconoscere il proprio limite e porsi in ascolto dell'Essere.

Non è un'impresa impossibile: basta sforzarsi di purificare il proprio occhio, i propri pensieri, la propria anima.