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Palestina-Israele: Ricordando il 1948 e guardando al futuro

di Ali Abunimah* - 15/05/2008




Questo mese Israele celebra il 60esimo anniversario della sua fondazione. Ma in mezzo ai festeggiamenti, che comprendono le visite di celebrità e politici internazionali, c’è una profonda inquietudine (Israele ha degli scheletri nell’armadio che ha tentato con difficoltà di nascondere, e le apprensioni per un futuro incerto portano molti israeliani a chiedersi se lo Stato celebrerà un 80esimo compleanno).

Le autorità israeliane continuano a negare completamente che la nascita che celebrano è legata in maniera inestricabile con la distruzione della vitale cultura palestinese e della società che era esiistita fino ad allora. Non è un dilemma nuovo per gli Stati colonizzatori. Gli Stati Uniti, dove io vivo, hanno scoperto che anche il passare dei secoli non può assolvere un Paese dal fare i conti con i crimini commessi al momento della sua fondazione.

Come ha rilevato il noto storico israeliano e deciso sionista Benny Morris nel 2004, "uno Stato ebraico non sarebbe mai nato senza lo sradicamento di 700mila palestinesi. Perciò è stato necessario sradicarli". "Nella storia ci sono circostanze che giustificano la pulizia etnica", ha continuato.

Ma se non si è pronti a giustificare apertamente la pulizia etnica, restano solo due opzioni concrete: negare la storia consolandosi con laversione edulcorata che dipinge gli israeliani come pionieri coraggiosi e ispirati da dio, in un deserto privo di popolazione indigena e circondato da nemici esterni, oppure accettare le conseguenze e sostenere l’enorme risarcimento necessario per portare la giustizia e la pace.

Esattamente prima della fondazione di Israele, i palestinesi di tutte le religioni costituivano i due terzi della popolazione insediata nella Palestina storica, mentre gli immigrati ebrei, arrivati poco prima dall’Europa, rappresentavano la maggior parte dei rimanenti.

Tra quelli sradicati c’era mia madre, che allora aveva nove anni. Adesso che vive ad Amman, ricorda un infanzia felice nel quartiere natale di Lifta, a Gerusalemme. Mio nonno possedeva diversi edifice e molti dei suoi inquilini erano ebrei, compresa la famiglia che aveva in affitto l’appartamento al piano di sotto.

All’inizio del 1948 – prima che l’esercito di qualsiasi Stato arabo fosse coinvolto – lei e la sua intera famiglia, o meglio tutti gli abitanti di diversi sobborghi di Gerusalemme ovest, furono costretti dalle milizie sioniste ad andare via. Il 7 febbraio di quell’anno, il primo ministro fondatore di Israele, David Ben-Gurion disse ai membri del suo partito, "Dal vostro ingresso a Gerusalemme, attraverso Lifta-Romema, Mahane Yehuda, King George Street e Mea Shearim – non troverete stranieri [leggi arabi]. Cento per cento ebrei". Fu così che i palestinesi divennero "stranieri" nella loro terra natale.

Da quel momento, milioni di profughi e di loro discendenti persero le loro case, le fattorie, i frutteti, il bestiame, le officine, i negozi, gli attrezzi, le automobili, i conti bancari, le opere d’arte, le polizze assicurative, i mobili e ogni altro bene che avevano lasciato per andare in esilio, molti in squallidi campi profughi gestiti da Israele e dagli Stati arabi. Oltre l’80 per cento dei palestinesi che ora sono assediati e ridotti alla fame nella striscia di Gaza sono profughi provenienti dalle città che adesso fanno parte di Israele. Ma quello a cui i palestinesi non potrebbero mai rinunciare – ed è questo che noi celebriamo – è l’attaccamento alla nostra madrepatria e la determinazione a vedere che venga fatta giustizia.

I palestinesi di tutto il mondo stanno commemorando l’inizio della nostra tragedia tuttora in corso, ma stiamo anche guardando avanti. Siamo a un importante punto di svolta, dove stanno accadendo due cose in una volta sola. Primo, nonostante le dichiarazioni di rito di sostegno internazionale, la prospettiva di una soluzione dei “due Stati” è scomparsa del tutto nel momento in cui i palestinesi della Cisgiordania e della striscia di Gaza sono intrappolati in riserve circondate dai crescenti insediamenti israeliani e dalle straderiservate ai coloni – una situazione che ricorda i bantustan del Sud Africa dell’apartheid.

Secondo, nonostante gli sforzi di Israele per tenere sotto controllo i palestinesi, la popolazione palestinese che vive sotto il dominio israeliano è vicina a superare i cinque milioni di ebrei israeliani. Oggi ci sono 3,5 milioni di palestinesi in Cisgiordania e nella striscia di Gaza, e altri 1,5 milioni di palestinesi che sono nominalmente cittadini dello stato di Israele. Chiamati qualche volta "arabi israeliani", i palestinesi in Israele sono sempre più insofferenti verso il loro status di seconda classe all’interno di Stato ebraico che li vede come una quinta colonna ostile. Mentre i palestinesi in Israele chiedono uguali diritti in uno Stato di tutti i suoi cittadini, alcuni politici ebrei di Israele hanno minacciato di espellerli in Cisgiordania, nella striscia di Gaza o altrove.

Proiezioni ufficiali mostrano che entro il 2025, i palestinesi, a causa del loro più alto tasso di natalità, supereranno di due milioni gli ebrei israeliani nel Paese e, sebbene pochi nella comunità internazionale abbiano aperto gli occhi di fronte a questa realtà, una separazione chirurgica tra queste due popolazioni è impossibile.

I leader israeliani capiscono con cosa hanno a che fare; il primo ministro Ehud Olmert ha detto lo scorso novembre: "Qualora arriverà il giorno in cui collasserà la soluzione dei ‘due Stati’, e ci troveremo a che fare con una lotta stile Sud Africa per uguali diritti di voto, allora, non appena accadrà, lo Stato di Israele sarà finito".

Questa lotta è già iniziata con sempre più palestinesi, che riconoscendo irrealistico quel tipo di statualità, discutono e adottano la soluzione di “uno Stato”, offrendo a israeliani e palestinesi uguali diritti nella terra che condividono. Lo scorso anno, ho fatto parte di un gruppo di palestinesi, israeliani e altri che hanno pubblicato la One State Declaration. Ispirandoci in parte alla Carta della libertà del Sud Africa, abbiamo esposto i principi per un futuro comune in un singolo Stato democratico.

Molti israeliani, in maniera non sorprendente, si tirano indietro di fronte al paragone con il Sud Africa dell’apartheid. La buona notizia per loro è che la fine dell’apartheid non ha portato al disastro che molti temevano. Piuttosto, ha rappresentato una nuova alba per tutte le persone del Paese.

(Traduzione di Carlo M. Miele per Osservatorio Iraq)

L’articolo in lingua originale

* co-fondatore di “Electronic Intifada”, Ali Abunimah è autore di “One Country: A Bold Proposal to End the Israeli-Palestinian Impasse” (Metropolitan Books, 2006)

The Electronic Intifada,