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La corte dei mantenuti

di Andrea Scaglia - 15/05/2008

Fonte: Libero

 

"Con il termine burocrazia si intende l’organizzazione di persone e risorse destinate alla realizzazione di un fine collettivo secondo criteri di razionalità, imparzialità, impersonalità": così scrive Wikipedia, l’enciclopedia telematica, semplificando all’osso i concetti di Max Weber. Definizione che, a noi italiani, strappa un sorriso amaro. Già sulla "realizzazione del fine collettivo" ci sarebbe da discutere. Se poi ci si sofferma sui "criteri di razionalità, imparzialità, impersonalità", bè, allora certo non si parla del nostro Paese. Molto meglio ripiegare sul significato etimologico, cioè "potere degli uffici": ecco, già siamo più vicini. Perché proprio l’apparato burocratico, in Italia, è cresciuto e si è ingarbugliato fino ad assumere le sembianze di un mostro, un organismo ormai fuori controllo che ai più appare come un ostacolo alla realizzazione dei propri progetti, di lavoro e di vita. Ed è ancora "La deriva", il nuovo libro di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, ad aiutarci a capire quale paradossale dimensione abbia raggiunto il meccanismo. Con conseguenze drammatiche.

 

«Dice uno studio di Confartigianato del gennaio del 2008 - scrivono i due giornalisti del Corriere - che nell’Unione Europea, tra il 1998 e il 2007, l’incidenza sul Pil della spesa per il pubblico impiego è scesa dappertutto. Noi, unici, siamo in controtendenza: più 0,2%. Secondo gli artigiani, "il costo per la burocrazia colpisce tutto il sistema produttivo nazionale, che ogni anno paga 15 miliardi di euro, cioè un punto di Pil, sia in costi interni (impiegati degli uffici preposti alle pratiche) sia esterni, società ad hoc pagate dalle aziende". Un delitto. Un sistema burocratico semplificato, in linea con gli standard europei, consentirebbe alle microimprese con meno di dieci addetti, quasi 1195% delle aziende italiane, di aumentare la produttività di almeno il 6% "recuperando così più della metà del gap che attualmente queste scontano rispetto alla media di Francia, Germania e Spagna”».

 

SOLDI BUTTATI

Capito? Quindici miliardi di euro e -6% di produttività per mantenere un apparato elefantiaco e, diciamo così, non proprio funzionale. Che troppo spesso, per usare una formula cara a chi si occupa di giudiziaria, si trasforma in una sorta di "porto delle nebbie", dove tutto s’incaglia fra montagne di carte bollate. «Spiega lo studio Dome Business 2004 della Banca Mondiale - continuano Stella e Rizzo - che l’apertura di un’attività economica in Italia richiede mediamente 5.012 euro (siamo quarti dopo la Grecia, l’Austria e la Svizzera che però ci stracciano sui tempi e le pratiche), 62 giorni di pastoie burocratiche (secondi dopo la Spagna e il Portogallo, dove però sono molto più bassi i costi) e 16 procedure (siamo primi assoluti). Tanto per dare un’idea: negli Stati Uniti servono 167 euro, quattro giorni, quattro procedure. In Gran Bretagna 381 euro, quattro giorni, cinque procedure».

 

E uno si chiede a che cosa servano gli incentivi per le imprese da rilanciare se, ancora secondo l’ufficio studi di Confartigianato, «per aprire un ristorante bisogna fare 71 pratiche burocratiche, una bottega di generi alimentari 58, un’impresa edile 73, una lavanderia 68, un’officina meccanica 76... Per non dire degli uffici che occorre contattare: 20 per aprire una trattoria, 18 per una gioielleria, 19 per un negozio da estetista, 22 per un laboratorio fotografico... Quanto alle scadenze fiscali e amministrative che tolgono il sonno a chi ha un’attività industriale o commerciale, il Censis le ha contate una a una: in un anno sono 233. Certo, un’azienda media non deve rispettarle tutte. Ma almeno una settantina non gliele toglie nessuno». Un labirinto in cui nemmeno Dedalo sarebbe riuscito a orientarsi. E che provoca conseguenze, com’è comprensibile, anche sul piano degli investimenti internazionali. «C’è poi da stupirsi - si chiedono gli autori de "La deriva" - se gli investitori stranieri preferiscono stare alla larga?».

 

Il risultato è che «nelle classifiche del 2007 sulla competitività per l’International Institute for Management Development siamo al 42° posto e per il World Economic Forum al 46°, dopo Paesi quali il Cile, l’Estonia, la Lettonia, la Tunisia... Appena davanti all’Ungheria, alla Giordania, alla Polonia o alla Turchia. Nella classifica della libertà economica della Heritage Foundation, dove conta la facilità di apertura, chiusura e gestione di un’impresa, scivoliamo ancora più in basso: nel 2000 eravamo al 32° posto e nel 2008 al 64°, dietro perfino l’Armenia, il Belize e la Mongolia. Vale a dire che abbiamo perso 32 posizioni. Risultato: nella hit parade dei Paesi che attirano investimenti dall’estero, elaborata dall’Unctad (United Nations Conference on Trade and Development) e saldamente guidata da Stati Uniti, Singapore e Regno Unito, siamo precipitati dal 18° posto del triennio 1988/1990 al 25° del triennio 1998/2000 fino al 29° del 2005. Il tutto con governi di sinistra e di destra». E poi dicono che c’è la crisi.

 

EMERGENZE PER TUTTI

Ma noi siamo italiani. Siamo fantasiosi, noi. "Fatta la legge, trovato l’inganno" si dice. E così, dopo aver permesso e anzi favorito l’ingigantimento della palude burocratica, la politica stessa si è accorta di esserne intrappolata. E per cercare di liberarsi, ne ha combinate anche di peggio. «In un Paese dove fare ogni cosa, dall’asfaltare una strada a organizzare una gara podistica, è un’impresa - annotano Stella e Rizzo -, la Protezione civile è diventata un grimaldello. Certo, uno Stato serio davanti alla paralisi dovuta al mostruoso traboccare di norme e cavilli, risse ideologiche e veti sindacali, cambierebbe le regole. Da noi no: scorciatoia all’italiana. Lo Stato che fotte le regole dello Stato. Geniale. Così l’istituto nato nel 1982 dopo il terremoto in Irpinia e la tragedia di Vermicino, quando l’Italia scoprì traumatizzata dall’agonia di Alfredino che non esisteva neppure una lista di chi aveva questo o quel mezzo di soccorso per aiutare un bambino caduto in un pozzo, ora è la chiave per fare in fretta e aprire ogni porta».

 

E dunque, la parola magica è "emergenza". In sostanza, si individua il problema da risolvere, si dichiara lo "stato di emergenza" che permette di aggirare una marea di pratiche e trafile, si nomina un "commissario" e il gioco è fatto. «Tolta la salvaguardia dei merletti di Burano, dei torroncini messinesi e della foca monaca di Capo Carbonara - ironizzano Stella e Rizzo -, non c’è problema che non sia stato affrontato negli ultimi anni con la dichiarazione dello stato di emergenza, l’affido formale alla struttura diretta dal 2001 dal padovan-romano Guido Bertolaso e la nomina di un commissario straordinario».

 

E sulla gestione delle emergenze, poi, da dirne ce n’è a frotte. Seguiamo Stella e Rizzo: «Ecco che si ricorre all’ "emergenza" per completare i lavori all’Istituto nazionale per le malattie infettive Lazzaro Spallanzani di Roma e all’ospedale Sacco di Milano. Per "delocalizzare" gli sfasciacarrozze nel territorio capitolino. Per rimuovere il relitto della nave Margaret, affondata nel golfo di La Spezia. Fino all’organizzazione dei Grandi Eventi. Un’idea di Berlusconi. Che appena insediato nel 2001 a Palazzo Chigi, pragmatico com’è, capì al volo le potenzialità del "grimaldello". E dopo il disastroso G8 di Genova, cancellata quella che allora si chiamava Agenzia della Protezione civile, riportò tutte le competenze a un dipartimento di Palazzo Chigi. Per averla sottomano e affidarle appunto tutti i nuovi compiti aggiuntivi, assai distanti da quelli istituzionali di aiutare la popolazione in caso di calamità naturali e rischi di varia natura.

 

La visita del Papa ad Assisi? Emergenza. Il pellegrinaggio di Sua Santità a Loreto costato 3 milioni di euro? Emergenza. Il vertice italo-russo di Bari? Emergenza. E via così. Tutte "emergenze": la presidenza italiana del G8 nel 2009 per la quale la Protezione prevede anche l’assunzione degli interpreti. I Giochi del Mediterraneo. I Mondiali di nuoto. Quelli di ciclismo su strada a Varese. Perfino le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia, di cui si conosce l’arrivo da decenni, sembrano invece affacciarsi del tutto inaspettate come l’apparizione del marito cornuto nella camera della moglie traditrice: "Cielo, l’anniversario!". Emergenze, emergenze, emergenze». 

 

PREMIO Al "TROMBATI"

E soldi, soldi, soldi. Perché gli autori de "La deriva" sottolineano che tutto questo, naturalmente, non è gratis. Un esempio fra i tanti: i Mondiali di nuoto. «Operazione tanto complessa da richiedere, dice l’ordinanza, una specifica "assistenza giuridica al commissario delegato nella materia contrattualistica inerente alla corretta esecuzione dei singoli interventi". Ed ecco l’istituzione "di una Commissione di consulenza composta da un magistrato amministrativo, da un magistrato della Corte dei Conti, da un avvocato dello Stato, da un professore ordinario dell’Università degli studi di Roma Tor Vergata e dal Capo dell’Avvocatura del Comune di Roma». Ai quali spetta naturalmente un compenso, "commisurato al 40% del trattamento economico mensile attualmente in godimento"».

Riassumendo: lo Stato crea un abnorme apparato burocratico, poi per aggirarlo s’inventa questa storia delle "emergenze", che a sua volta si trasforma in un abnorme apparato burocratico. Ma vi sembra intelligente? Perché poi, continuano Stella e Rizzo, «sono stati così tanti, i commissari nominati per questo e quell’obiettivo, che nessuno sa più quanti siano davvero. Anche perché oltre a quelli della Protezione civile, ci sono i commissari straordinari di governo e poi ancora gli Alti Commissari, con le maiuscole. Qualcuno con poteri veri, qualcuno con poteri semi-veri, qualcuno perfino senza poteri. Ma si sa, un commissariato è come l’ultima sigaretta: non si rifiuta a nessuno. Tanto più se serve a sistemare chi è rimasto trombato alle elezioni». E per restare proprio sui commissari straordinari, «c’è il commissario straordinario per i beni sequestrati alla mafia, abolito da Berlusconi e ripristinato da Prodi. Il commissario straordinario per la Tav Torino-Lione. Il commissario straordinario (con tanto di vice) all’emergenza ambientale della laguna di Marano, che stando al sito internet non dovrebbe essere sovraccarico di lavoro se nella primavera del 2008 il link "ultime notizie" risultava aggiornato alla vittoria di Danilo Napolitano nella Coppa Bernocchi di ciclismo del 2005. E poi il commissario straordinario per le persone scomparse, istituito nuovo di zecca dal centrosinistra e ironicamente ribattezzato "commissario chi-l’ha-visto?". E il commissario per il piano pluriennale dello sviluppo del porto di Gioia Tauro, che volendo può giocare a terziglio con altri due colleghi, il commissario all’Autorità portuale Domenico Picone e il commissario per la sicurezza nel porto Mario Mori. Prendi uno, paghi tre».

 

IL CASO CALABRIA

Soprattutto, "paghi". Che poi vuol dire "paghiamo". «Credevano di giocare coi soldi finti del Monopoli, per esempio, al Commissariato per l’emergenza ambientale in Calabria - si racconta ne "La deriva" -. Scrivevano su un foglietto: entrate. Su un altro: uscite. Fine. Senza "un bilancio vero e proprio". Senza una "documentazione giustificativa". Senza un controllo della Ragioneria. Hanno speso così, in meno di un decennio, 864 milioni di euro. Lo dice nel gennaio 2007 la relazione finale, esplosiva, di un commissario che sbatte la porta e se ne va con una chiusa amarissima: "Molto altro ancora potrebbe essere illustrato, se valesse la pena di raccontare, avendo tempo e modo. E soprattutto scopo". [...]

 

Dal 1998 al 2006, denuncia il dossier, il Commissariato figurava aver avuto entrate complessive per 692 milioni e mezzo di euro e uscite per quasi 645 milioni, tanto che al passaggio di consegne era stato detto al nuovo responsabile, con una "certificazione da parte della Tesoreria provinciale dello Stato" (sic), che c’era perfino un saldo di cassa di 45 milioni di euro. Una bufala: neanche il tempo di metter mano ai conti e saltava fuori "una pesante situazione debitoria": oltre 223 milioni di euro. Che non figuravano "né nei vari passaggi di consegne né nelle precedenti rendicontazioni". [...] 

 

E cosa fa il governo di sinistra davanti a un rapporto esplosivo come questo: chiude finalmente quella struttura-fogna? Macché: nomina al posto di Ruggiero un nuovo commissario, Salvatore Montanaro, affiancandogli pure un sub-commissario vicario (Luigi La Sala) e un sub-commissario (Antonio Falvo). Finché finalmente, mentre il governatore Agazio Loiero sorride rassicurante che "si torna alla normalità" e che "la Calabria non farà la fine della Campania", nel dicembre 2007 Roma decide: basta con l’emergenza. Fatta salva, si capisce, una proroga fino a giugno del 2008. Emergenza finita? Per niente, salta su il presidente della Provincia di Cosenza, Mario Oliverio: "La necessità di chiudere l’esperienza del commissariamento non può indurre a considerare chiusa la condizione di emergenza che rimane inalterata ed anzi ancora più grave di prima"». E via così.

 

NAPOLI SPAZZATURA

E concludiamo naturalmente con l’emergenza delle emergenze, la spazzatura di Napoli, «che fa nausea perfino tornarci sopra». Partendo dalla considerazione che una lontana legge regionale fa retrodatare la prima emergenza spazzatura al 1973, vale a dire 35 anni fa, Stella e Rizzo notano come «Da allora, di emergenza in emergenza, si sono succeduti 5 capi dello Stato, 10 legislature e, compreso quello uscito dal voto del 13 apri le 2008, 30 governi. Ricominciando sempre da zero». E bruciando negli ultimi 14 anni, tra call-center fantasma e commissari e vicecommissari e subcommissari e sedi e consulenze e assunzioni inutili, oltre 2 miliardi di euro.

 

«Ma il fetore dei rifiuti campani aggiungono Stella e Rizzo - ha coperto la puzza di altre emergenze analoghe. Accavallando negli anni 5 commissari in Puglia, 9 in Calabria, 3 in Sicilia, 3 nel Lazio. Totale, compresi i 9 campani: 29 commissari. Più un nugolo di vicecommissari e subcommissari e sub-subcommissari. Un esercito. Quasi sempre perdente.

 

Il mondo intero è scandalizzato perché la Campania ha bruciato in tre lustri almeno 350 euro pro capite? Per ogni abitante la Calabria ne ha bruciati, dal 1998 al 2005, poco meno: 290. Come? Risponde la Corte dei Conti all’inizio del 2007. Appalti dati a trattativa privata, "in violazione della normativa comunitaria", commesse milionarie distribuite agli amici, gare vinte con ribassi modestissimi subito compensati da perizie di variante...». Una storia già sentita.