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La filosofia dell'«atto puro» di Gentile come limite nichilistico dell'idealismo

di Francesco Lamendola - 16/05/2008

La «filosofia dell'atto» per eccellenza è, senza dubbio, quella di Friedrich Nietzsche. In quanto filosofia dell'atto, essa è anche un rifiuto del criterio di verità, anzi, dello stesso concetto di Verità; e il suo strumento prediletto è l'aforisma, che non si preoccupa in alcun modo se le cose siano vere oppure no, ma semplicemente di quel che si debba o non si debba fare.

Ha scritto egregiamente lo studioso tedesco Joachim Köhler - riferendosi, in particolar modo, a La Gaia Scienza - nel suo libro Nietzsche. Il segreto di Zarathustra (titolo originale: Zarathustra Geheimnis, Reinbeck bei Hamburg, 1992; traduzione italiana di Paolo Fontana, Milano, Rusconi, 1994, pp. 284-285):

 

L'opera documenta «l'esultanza dell'energia che ritorna, della fede nuovamente ridesta in un domani e nei giorni di poi, in un subitaneo sentire e presentire l'avvenire, con nuove avventure, nuovi aperti mari…».

E questa sarebbe filosofia? Niente tesi, deduzioni, sistematiche piramidi concettuali innalzate sul'inamovibile fondamento della verità, bensì «liberazione», empi regressi e rovesciamenti? Il gesto di questa filosofia non è quello che pone la tesi, ma quello che disvela: la sua essenza non consiste nella "verità", che per Nietzsche non c'è affatto, ma nell'atto. L'atto si chiama aforisma. (…)

L'aforisma strappa la maschera dal volto del mondo, le vesti dal corpo. Ora ci sta dinnanzi qualcosa di nudo, per lo più qualcosa di "umano, troppo umano", ed implora simpatia, perché gli è stata appena tolta la giustificazione della sua esistenza: tutto ciò che l'uomo ricopre di belletto ideologico e fronzoli morali per la sua "volontà di vita", ciò a cui mette maschere, per non doverne svelare il vero volto, gli cade di dosso. L'uomo moderno - un re con nuovi abiti. Spesso l'aforisma non è solo mascheramento, ma compiaciuta violenza: il crudele infilzare con la penna, il frantumarsi di piedi d'argilla, il sezionare con l'affilato scalpello, che fa scorrere sangue e, peggio ancora, porta alla luce verità che non si dovrebbero dire. Ma all'aforisma non  importa della verità. Solo la società ne ha bisogno, edificio di bugie pattuite che assicura la sua conservazione.

 

Ora, se non c'è una verità, non c'è neppure un Essere che le faccia da sostrato, che la giustifichi e la inveri: tutta la filosofia diviene un volontarismo dei valori, perché l'unica cosa che importi è decidere che cosa faccia al caso mio, qui ed ora. Certo, si tratta di un nichilismo, e sia pure di tipo attivo: nel senso che il soggetto può scegliere, nel "vuoto" di verità in cui ogni cosa si muove, come entro una nebbia, in qual senso sia bene, per lui, decidere una data questione. Pertanto possiamo definire, a ragione, tutte le filosofie dell'atto come "ontofobiche" (l'espressione è di Vittorio Possenti), ossia come filosofie che rispondo negativamente all'antichissima domanda sull'Essere, base della speculazione di Aristotele (e, poi, di San Tommaso d'Aquino) e, in genere, del pensiero greco e medioevale.

In tale prospettiva, risulta che filosofie tendenzialmente nichiliste sono tutte le filosofie idealistiche, che riducono l'intera realtà a pensiero del Soggetto; e, più ancora, quella estrema forma dell'idealismo che è l'attualismo gentiliano.

Ad eccezione di Julius Evola, del quale ci siamo altrove occupati (cfr. Francesco Lamendola, Alcuni aspetti del pensiero filosofico di Julius Evola, saggio pubblicato sugli Atti dell'Ateneo di Treviso nel 2008, ma consultabile anche sul sito di Arianna Editrice), quello di Giovanni Gentile risulta essere il più compiuto e coerente approdo nichilistico di tutte le filosofie che traggono origine dalla dialettica hegeliana.

Riassumiamo brevissimamente.

Secondo Gentile, l'errore di Hegel è stato quello di aver delineato una dialettica del pensato, ossia della realtà pensabile, mentre - a suo avviso - non può darsi dialettica se non del soggetto pensante, colto, quest'ultimo, nell'atto medesimo del pensiero. La dialettica, infatti, è sinonimo di sviluppo e divenire, ossia non può riferirsi o applicarsi a un qualche cosa che esista oggettivamente in sé stesso - l'ontofobia di cui dicevamo poc'anzi -, ma solo ad una azione concreta del soggetto, e precisamente l'azione del pensare. E, di conseguenza, la vera realtà, anzi, la sola ed unica realtà, è il pensiero che pensa, il pensiero in atto, ossia il soggetto attuale del pensiero. Questo è il nucleo dell'attualismo gentiliano: l'intera realtà come manifestazione del soggetto pensante.

Più ancora che di nichilismo, si potrebbe dire che si tratta di una forma classica di solipsismo la quale, per certi aspetti, richiama l'esse est percipi di Berkeley (cfr. Francesco Lamendola, Introduzione alla filosofia di George Berkeley; anche questo saggio è consultabile sul sito di Arianna Editrice).

Un altro elemento notevole dell'attualismo è, come accennavamo poc'anzi, la scomparsa dall'orizzonte speculativo di un principio ontologico di verità, l'unica verità possibile essendo quella del soggetto pensante, nell'atto del pensiero.

 

Scrivono Nicola Abbagnano e Giovanni Fornero in Filosofi e filosofie nella storia (Torino, Paravia, 1992, vol. 3, p. 382):

 

(…) È bensì vero che il soggetto, in quanto pensa, pensa necessariamente qualcosa che è per lui un oggetto; ma l'oggetto del pensiero, sia esso la natura o Dio, il proprio io o quello degli altri, non ha realtà fuori dell'atto del pensiero che lo pensa e, pensandolo, lo pone. Quest'atto è, dunque, creatore, e in quanto creatore, infinito, perché non ha nulla fuori di sé che possa limitarlo. Questo principio realizza la rigorosa e totale immanenza di ogni realtà nel soggetto pensante. Né la né Dio e neppure il passato e l'avvenire, il male e il bene, l'errore e la verità sussistono comunque fuori dell'atto del pensiero. Gli sviluppi che Gentile ha dato alla sua dottrina consistono essenzialmente nel mostrare l'immanenza di tutti gli aspetti della realtà nel pensiero che li pensa e nel risolverli in questo.

Il pensiero in atto è il Soggetto trascendentale, l'Io universale o assoluto. Il soggetto empirico, cioè l'uomo singolo, è un oggetto dell'Io trascendentale, un oggetto che esso pone (cioè crea) pensandolo, e di cui, nello stesso tempo che lo pone, , supera l'individualità, universalizzandolo.  Gli altri io sono anch'essi oggetti, in quanto altri, nell'atto di conoscerli l'Io trascendentale li unifica e li identifica con sé. La natura, come una realtà presupposta al pensiero, è una finzione. Essa non sussiste che come particolarità e individualità  dell'oggetto pensato e presuppone quindi l'atto del pensiero che la pensa  appunto come particolare e individuale.

Di fronte allo spirito che è assoluta libertà, perché assoluta creatività, l'oggetto o l'essere è necessità. Dio, la natura, l'idea, il fatto, sono necessari perché sono già posti dal pensiero  e sono quindi diventarti, per il pensiero, entità immobili che non possono essere diverse da quelle che sono. Ma il pensiero che le pone, nell'atto in cui le pone, è libero e incondizionato e non obbedisce che alla propria interna necessità. Per questa libertà appunto esso è creatore. La sua attività non è mai pura teoria (cioè contemplazione) di una realtà già fatta, ma sempre azione, attività creatrice. La legge stessa che lo spirito si pone e a cui si conforma è creazione dello spirito. Lo spirito è auto-creazione, autoctisi.

 

Qui, come si vede, abbiamo un vero e proprio capovolgimento di prospettiva rispetto alla filosofia classica.

Non solo gli altri io sono ridotti al rango di oggetti, oggettivazione che - evidentemente - ce ne preclude l'essenza profonda; non solo essi, nell'atto conoscitivo, perdono ogni consistenza ontologica e si identificano col soggetto che, pensandoli, li pone e li ingloba in sé stesso; ma, addirittura, l'essere (con la "e" minuscola) diviene sinonimo di necessità, mentre solo allo spirito pensante spetta l'attributo della libertà, nella sua forma più alta: la perenne creazione di sé medesimo, l'autoctisi.

Si direbbe che il pensiero, con l'attualismo gentiliano, sia pervenuto ad un vero e proprio delirio di onnipotenza. Eppure si tratta di uno sviluppo coerente, coerentissimo di quella interpretazione kantiana e neokantiana delle Idee platoniche, di cui massimo esponente è stato P. Natorp. Secondo quest'ultimo, infatti, in Platone l'essere delle Idee va inteso come essere del pensiero, con l'inevitabile conseguenza che essere e pensiero coincidono e le Idee altro non sono che le leggi del pensiero oggettivo.

Inoltre, se questo è vero, è altrettanto vero che  le Idee platoniche esprimono l'a priori in senso moderno, per cui anche la celebre teoria dell'anamnesi non è altro che espressione della scoperta dell'autocoscienza e dell'apriorità di essa.

Osserva Giovanni Reale in Platone (            Questioni di storiografia filosofica, Brescia, la Scuola Editrice, 1975, vol. 1, pp. 208-209):

 

L'autocoscienza (e questo il Natorp lo ricava dal Menone) non è più divisa dalla coscienza dell'oggetto: infatti non esiste più alcun oggetto che non venga costituito nel concetto di conoscenza, secondo le leggi che sono proprie del conoscere. La conoscenza, la pura conoscenza è concetto autoproduttore, in cui, soltanto, l'oggetto diventa per noi certo. È la legge propria della coscienza quella che produce l'oggetto, che è, appunto, oggetto di coscienza.

 

Dalla coscienza autoproducentesi di coloro che interpretano il platonismo in senso kantiano, all'autoctisi gentiliana, il passo non è eccessivamente lungo né illogico. Inutile dire che la dottrina della conoscenza come ricordo, presente nel Menone, si può interpretare anche in altra maniere; ce ne siamo già occupati in un precedente saggio (Conoscere è ricordare. Struttura e temi del «Menone» platonico, sempre sul sito di Arianna Editrice). Ma l'idealismo moderno ha imboccato, più o meno decisamente, questa via: e a Gentile va riconosciuto, se non altro, il coraggio intellettuale di spingersi senza esitare fino agli esiti estremi della teoria secondo la quale la legge stessa che lo spirito si pone e a cui si conforma è creazione dello spirito.

D'altra parte, il pensiero di Gentile a proposito della religione attenua di molto questa coerenza intellettuale, per non dire che lo pone apertamente in contraddizione con se stesso. Infatti la religione, per il filosofo siciliano, corrisponde alla negazione del soggetto nell'oggetto, ossia si definisce come atto nel quale il soggetto oblia se medesimo in un oggetto assoluto, Dio, e arriva alla negazione della propria libertà. Allora il soggetto non concepisce più la creazione come autoctisi, ossia come creazione che il soggetto fa di se stesso, ma come eteroctisi, ossia come creazione che del soggetto fa l'Oggetto, vale a dire Dio.

Ne consegue che la conoscenza, posizione dell'oggetto da parte del soggetto, cede il passo alla rivelazione che l'oggetto fa al soggetto di sé stesso, mentre alla volontà di bene del soggetto come creazione del bene stesso, subentra la grazia, che è il bene (Dio) che si dona al soggetto. Eppure rimane oscuro, a nostro parere, il modo in cui emerge l'Oggetto divino, a meno che si tratti puramente e semplicemente di un auto-inganno del soggetto, che crea Dio dimenticando la propria vera natura.

Altrettanto oscuro ci sembra come Gentile, partendo da una tale concezione, abbia potuto dichiararsi convinto cristiano e buon cattolico, eppure è così, e il filosofo lo sostenne ancora nel 1943, in quella conferenza, intitolata La mia religione, che può considerarsi come il suo testamento spirituale.

Scrive a questo proposito Aldo Lo Schiavo nella Introduzione a Gentile (Bari, Laterza, 1974, 2001, pp. 160-161):

 

Né è da pensare che la religione si determini, per il nostro pensatore, come un semplice limite o momento transitorio dell'autocoscienza, superato o destinato ad essere superato in un momento successivo. Al contrario, in questi ultimi scritti in modo più netto che nei precedenti, tale limite si configura esplicitamente quale "limite eterno", esigenza veramente insuperabile, che l'atto dello spirito fronteggia a parte ante come a parte post. Vale a dire: se per un verso essa si presenta nello spirito come momento negativo, in forza del quale l'uomo si umilia e si annulla di fronte a Dio, per altro più sostanziale verso riscopre la sua essenziale funzione, in quanto «l'uomo che ha negato se stesso come opposto a Dio, s'immerge e s'immedesima con lui, si divinizza o santifica, partecipando dell'essere, del pensare, del volere divino. Il misticismo che è questa immedesimazione dell'uomo con Dio […]  può deprimere ma deve pure esaltare la coscienza dell'uomo». In questo farsi dell'uomo tutt'uno con Dio è il costituirsi di una vera società, quella fondamentale società dalla quale tutte le altre particolari dipendono: ed è anche il principio perenne e universale della religione.

 

In effetti - come vedremo più avanti - ciò cui conduce una siffatta impostazione del fatto religioso non può che portare, nel quadro complessivo dell'attualismo gentiliano, a una vera e propria "immanentizzazione di Dio", a una sorta di panteismo che risolve il Soggetto nell'Oggetto e viceversa, Dio nell'uomo e l'uomo in Dio, secondo una linea di pensiero che risale indietro almeno fino a Spinoza, se non pure al naturalismo del Rinascimento italiano (da Telesio a Bruno a Campanella).

Ad ogni modo, ci sembra che sia possibile distinguere una linea di pensiero che corre, coerentemente, da Kant a Hegel e da Nietzsche a Gentile; una linea di pensiero che tende a ridurre la realtà a produzione di pensiero del soggetto pensante e a risolvere le domande della filosofia in atto: l'atto del disvelamento di un soggetto che crea continuamente, da sé stesso, le cose che pensa e, pensandole, le pone, ossia le produce.

Questa contiguità è stata bene messa a fuoco, a nostro avviso, da Vittorio Possenti nel suo bel libro Terza navigazione. Nichilismo e metafisica (Roma, Armando Editore, 1998, pp. 158-159), che abbiamo già citato nel precedente articolo La chiamata dell'Essere agli enti come l'ammiccare infinito di vivide stelle:

 

Sebbene Giovanni Gentile avrebbe rifiutato con orrore che nella sua opera circoli una vague nichilista, a nostro avviso non molto inferiore per potenza a quella più esplicita  di Nietzsche, più o meno intenzionalmente egli ha offerto una determinazione del nichilismo speculativo e della metafisica che per antitesi si collega alla nostra: «La metafisica comincia e finisce nel dommatismo dell'intuito, inteso a cogliere le verità realisticamente intese». (…)

La filosofia gentiliana costituisce una logica linea di sviluppo del kantismo, quella che si ottiene mantenendo l'interdetto sull'intuizione intellettuale e intendendo l'unità sintetica dell'appercezione trascendentale come fare/prassi trascendentale, che produce l'oggetto, mentre la faticosa deduzione kantiana delle categorie viene classificata nel "pensiero pensato". Kant aveva introdotto l'idea dell'attività sintetica dell'Io penso, lasciando però contro ad essa una datità sensibile irriducibile, per cui l'Io produce solo la forma non anche la materia dell'esperienza e del conoscere. Gentile cancellerà con un tratto di penna la seconda e riporterà tutto all'Io, con l'esito che la totalità del reale si identifica col soggetto nell'atto stesso del suo sviluppo e l'intero è unicamente processuale a partire dall'Io.

Effetto logico immediato del prassismo gentiliano e del connesso primato del divenire è lo svuotamento del concetto sesso di essenza, quale permanente nucleo intelligibile dell'ente. Gentile aveva mostrato sicuro fiuto quando iniziò la sua carriera filosofica con un'interpretazione delle marxiane Tesi su Feuerbach, ravvisando la chiave di volta del marxismo nel concetto di prassi. Una volta rigettato il materialismo, filosofia della prassi sarà anche il pensiero di Gentile, per il quale il sapere è produzione e sintesi della mente. Cognizione come prassi, perciò, in cui l'intuito intellettuale è completamente rifiutato sulla base dell'idea che l'essere non è un dato ma un prodotto dell'unica e concreta categoria logica: l'atto del pensiero. In certo modo l'intero attualismo è riassunto  in una sola formula: «Non solo il pensiero è atto, ma l'atto è pensiero», che compie la piena risoluzione dell'esse reale nella logica.

Nello stesso tempo esso si presenta come forma massima della filosofia del divenire, che conduce alla distruzione della veritas incommutabilis: filosofia dello spirito, sì, ma che sfocia in una compiuta immanenza, opposta alla trascendenza come al materialismo volgare. Il rifiuto della metafisica e del platonismo e la piena immanentizazione di Dio (Deus manet in nobis et nos est) rappresentano due assunti centrali dell'attualismo, che esprime poi con l'autoctisi un assoluto primato della prassi: in esso tralucono elementi di volontà di potenza, che suggeriscono una certa vicinanza tra Nietzsche e Gentile.  Essa andrebbe pensata come un evento notevole della modernità europea, anche per l'intenzionalità fondamentalmente rivoluzionaria e riformatrice che anima i due pensatori. Non senza motivi Gentile può essere definito come il filosofo della rivoluzione permanente, in ciò non lontano dal nicciano capovolgimento di tutti i valori. Se questa diagnosi dovesse venir confermata, si dovrebbe concludere che è accaduto un cedimento di Gentile a Nietzsche, con una parziale conferma della diagnosi heideggeriana secondo cui in Nietzsche si conclude la metafisica occidentale.

L'essenza del nichilismo teoretico di Gentile sta nell'abbandono della conoscenza reale delle cose, sostituita da una mera logica in cui il movimento dialettico del pensiero vuole spacciarsi per conoscenza reale. L'attualismo sarà dunque non un'ontologia, ma una logica del pensare, cioè propriamente una gnoseo-logica, in cui l'unica e concreta categoria logica è l'atto del pensiero: la «nuova metafisica, che è logica per sua natura», scriverà. In questa risoluzione radicale, in cui consiste tutta la novità dell'attualismo, la realtà non è altro che lo stesso spirito, che per essere reale deve avere tutto dentro se stesso. Di conseguenza la filosofia è scienza del pensiero, ossia soltanto ed esclusivamente logica, giacché il suo oggetto adeguato è solo il pensiero: non il pensiero come parte della realtà, bensì come tutta la realtà. Trasformata da scienza dell'ente in quanto ente in scienza del pensiero, la filosofia si mostra come attività produttiva così delle cose umane, come di quelle che un tempo si dissero divine.

In tali asserti, qui appena accennati, ma che percorrono da un capo all'altro l'opera gentiliana, il neoidealismo si mostra impari al compito di conoscere la conoscenza.  In luogo di una spregiudicata riflessione sui dati primi del fenomeno conoscitivo, che si proponga di comprenderli in una teoria coerente, l'attualismo muove verso una affrettata identificazione di metafisica e di logica, all'insegna di una compiuta ontologizzazione della sfera logica, in cui regola reggente è l'opposizione invalicabile fra intuizione intellettuale e sintesi a priori. Nell'equivoco in cui l'essere reale è risolto in quello logico e la metafisica nella logica, Gentile è incorso in maniera più radicale di Hegel. Il realismo non deve perciò salvare una presunta verità dell'idealismo, ma spiegarne l'errore, che consiste nella riduzione del soggetto conoscente a conoscenza, per cui il pensiero non è più un attributo di esseri esistenti, ma sostanza pura ed atto primo. L'essere è puro conoscere, il vero essere è pensiero, l'unico universale è l'atto del pensare: espressioni che ricorrono di frequente nella pagina gentiliana.

 

Inoltre, per almeno due aspetti l'attualismo gentiliano è correlato con la filosofia di George Berkeley.

Il primo aspetto riguarda l'intuizione metafisica che, identificando attività e realtà, attribuisce quest'ultima esclusivamente allo Spirito (nel pensatore inglese, a Dio come Spirito infinito e, attraverso di lui, agli spiriti finiti).

Il secondo aspetto riguarda la dottrina dell'essere come esser percepito, esse est percipi: Berkeley sostiene che la realtà dell'oggetto si risolve nella percezione del soggetto; ma, si badi: solo nella sua percezione attuale. Non formula, cioè, una asserzione completa circa l'esistenza dell'oggetto: nulla dice sul prima e sul poi del fatto concreto della percezione di esso da parte del soggetto. Si vede bene come tale posizione sia vicina a quella dell'attualismo gentiliano, secondo il quale tutta la realtà è pensiero in atto, ovvero soggetto attuale del pensiero. Ogni realtà, per Gentile, è immanente al soggetto pensante: ma il soggetto pensante non è altro che pensiero attuale. Fuori dell'atto puro del pensare, niente si può affermare circa la realtà del soggetto medesimo.

 

Ed è inevitabile che sia così, una volta che la metafisica venga ridotta a logica  e l'essere reale si risolva in quello meramente logico. Una volta che il pensiero venga ontologizzato, la realtà non è più la rappresentazione del pensiero di singoli esseri esistenti, ma - come direbbe Aristotele - sostanza pura e atto primo: realtà anteriore ai singoli esseri ed autosussitente. Anzi: l'unica e sola realtà effettiva: Spirito Assoluto di hegeliana memoria; ma - invero curiosamente - Spirito senza Essere; Spirito di pensiero; pensiero, in qualche modo,  sostanzializzato.

Che tutta la realtà sia spirito; che questo spirito sia pensiero puro e non pensiero concreto; che sia pensiero del soggetto pensante, il quale crea da se stesso le cose pensate: mai la filosofia occidentale si era spinta tanto avanti sulla via del nichilismo, inteso come oblio dell'Essere e come distruzione di ogni principio di verità oggettiva.