Il dualismo fra il secco e l’umido in Jonathan Littell
di Stenio Solinas - 16/05/2008
L
e sec et l’humide (Gallimard,140 pagine,
15,50 euro) è il saggio
che Jonathan Littell,
l’autore di
Lebenevole
, romanzoscandaloe romanzorivelazione
di un paio di anni fa, ha scritto su
Léon Degrelle, fondatore del Rexismo,
movimento fascista belga fra le due guerre, e
grande combattente nel secondo conflitto
mondiale. Non è un saggio storico, e neppure
un saggio ideologico, ma ha come strumenti
di studio e di analisi la psicanalisi, con
tutti i pregi e i difetti che questa comporta.
Littell si muove infatti sulle orme del lavoro
compiuto negli anni Settanta dal tedesco
Klaus Theweleit e culminato nel volume
Männerphantasien, uscito in Italia vent’anni
dopo, per il Saggiatore, con il titolo Fantasie
virili. In esso, analizzando la produzione
pubblicistica, romanzi, memorie, articoli, dei
veterani dei Corpi franchi fra il 1918 e il
1923, Theweleit si proponeva di analizzare
la struttura mentale della personalità fascista,
partendo dal presupposto che “il fascismo è
un modo di produzione della realtà, non un
problema di forma di governo, o di organizzazione
economica o di qualsiasi altro sistema”.
All’interno della psicanalisi Theweleit
scartava la dottrina freudiana, l’Io, il SuperIo,
l’Edipo, sulla base che il soggetto studiato,
il fascista, appunto, sarebbe “il non
ancora completamente nato”, per il quale,
dunque, non essendo mai avvenuta la separazione
con l’elemento materno, non si può
parlare di un Io freudiano nel senso compiuto
del termine. Appoggiandosi invece sulla
psicanalisi dell’infanzia, sulla psicosi e
sulle elaborazioni post-freudiane
di Deleuze e Guattari l’autore
elaborava il ritratto di una sorta
di Io esteriorizzato, ovvero di un
guscio-armatura esterno all’interno
del quale rimanevano sotto
controllo pulsioni e funzioni
informi in quanto impossibilitate a
oggettivarsi. La costruzione di
questa corazza “muscolare” era
frutto da un lato di una disciplina,
fisica e mentale, dall’altro di organismi
atti a favorirla e/o normalizzarla,
la scuola, l’esercito, per certi
versi la prigione. Questo equilibrio
fra dentro e fuori, entrava in crisi nei
momenti di forte pressione, durante i
quali la “dissoluzione dei limiti personali”,
ovvero l’incontrollabilità dei
propri desideri, minacciava di sommergere
dall’interno l’armatura che
impediva la sua fuoriuscita sull’esterno,
ovvero sulla vita. Per impedire tutto
ciò, e quindi per sopravvivere alla
propria dissoluzione, la via d’uscita,
sempre secondo Theweleit, consisteva
nell’esteriorizzare le minacce interne e ciò
avveniva codificando i pericoli sotto due forme,
fra loro strettamente legate, quella del
liquido, ovvero di tutto ciò che cola, si spande,
e quella dell’elemento femminile. Quest’ultimo
veniva diviso in due figure, l’Infermiera
bianca, verginale, soccorritrice, procreatrice,
materna, e l’Infermiera rossa, prostituta,
promiscua, traditrice. Più la seconda
veniva schiacciata e/o frequentata, punita e
sporcata, più la prima veniva preservata...
Quanto alla minaccia “liquida”, la sua proiezione
politica, ovvero il Bolscevismo sotto
forma di indistinta “marea rossa”, permetteva
l’erigersi di un corpo diritto, secco, un’armatura
rigida (da qui il titolo del libro di Littell)
in grado di bloccarlo.
Per quanto ripercorsa
sommariamente, ci sembra di aver dato
all’analisi di Theweleit la sua giusta comprensione.
Va aggiunto che in Fantasie virili,
il termine “maschio-soldato” e il termine
“fascista” sono interscambiabili, il che aiuta
a spiegare perché, quando uscì, gli storici
accolsero il libro con fastidio. Non solo e
non tanto, come è incline a spiegare lo stesso
autore, per questioni corporative, per ignoranza
della psicanalisi in quanto tale, per
pregiudizio contro tutto ciò che ha a che fare
con il campo dei sentimenti e delle passioni,
ma perché l’equazione maschio=violenza,
violenza=fascismo, ovvero ordine=repressione,
governo=punizione, crea più confusione
che comprensione e finisce per rendere
indistinta ogni peculiarità.
Di tutto ciò Littell è consapevole, visto che
al termine del suo studio comparato fra la
tesi di Theweleit e l’autobiografico
La campagnadi Russia
di Degrelle trova spazio perun post-scriptum in cui, sotto le foto compiaciute
del comandante ceceno Basseev
durante un’incursione nel Daghestan, e del
caporale americano Graner nel carcere di
Abu Grhaib, nota:
“Il sorriso allegro delmaschio-soldato, la sua esultanza davanti
alla morte che egli amministra, non è, come
qui si vede, una particolarità del ‘fascista’ o
del nazista. Questa constatazione solleva
alcune domande, a cominciare da quelle dei
limiti del campo di applicazione delle teorie
di Theweleit: che possano più facilmente
essere estese all’insieme del mondo occidentale,
per esempio, lo credo, e il mio studio lo
dimostra”
. Ma il punto, francamente, non èquesto: data per certa, storicamente parlando,
un’internazionale fascista, non è affatto
sorprendente che ci siano elementi comuni,
pur nelle diversità nazionali, fra chi ne fece
parte. Il punto è se gli elementi comuni e in
quanto tali pregnanti, siano quelli che Litttell
elenca: il dualismo fra il secco e l’umido,
il duro e il molle, il puro e l’impuro, il
sano e il vizioso, una sessualità repressa... È
però lo stesso Littell a convenire che uno
studio come quello da cui lui ha preso le
mosse, “andrebbe innanzitutto fatto sulla
produzione orale e scritta dei carnefici o
semplicemente dei militanti stalinisti e vedere
se si può estrarre da questa produzione -
dove i clichè ideologici della ‘marea rossa’ o
della ‘puttana bolscevica’ non hanno naturalmente
corso, ma sono rimpiazzati da
altre, forse egualmente analizzabili, corrispondenze
rigorose (anche se rovesciate), o
al contrario da divergenze forti con la figura
del ‘maschio-soldato-non ancora-completamente-
nato’ individuata da Klaus Theweleit.
Ora, a un esame appena superficiale, si vede
che la “marea bolscevica temuta dai fascisti,
non è altro che “i musi gialli” odiati dagli
americani, “la peste nera” dei russi e così
via. Il titolo di un celebre, per quanto brutto,
romanzo di Elio Vittorini, è
Uomini e no,dove gli esseri umani sono gli antifascisti e i
non uomini sono i fascisti, e non per nulla
Cane nero si chiama il capo di quest’ultimi...
I concetti di peste, epidemia, eccetera,
sono altrettanto vischiosi di quelli di marea,
la descrizione dei viet-cong durante la guerra
del Vietnam non ha nulla da invidiare a
quella delle “orde slave” fatta da Degrelle
nel suo La campagna di Russia, l’invito allo
sterminio del nemico fatto da Elya Ehremburg
quando i russi entrano in Germania,
riecheggia la gioia feroce dei tedeschi allorché
penetrano in Russia, eccetera...
E, naturalmente, anche i resistenti, democratici
e comunisti che siano, si alzano in piedi e
stanno eretti a difesa della loro identità contro
il nemico fascista che vuole sommergerli...
Se, insomma, l’immaginario e l’armamentario
psicologico del “maschio-soldato”
è lo stesso, che egli militi nelle Waffenn SS,
nell’Armata rossa, o nell’ Esercito degli Stati
Uniti, che senso ha definirlo fascista? E se il
generale Patton e il colonnello Degrelle si
inebriano allo stesso modo del sangue e dello
scontro e allo stesso modo vogliono fare con
il loro carri armati marmellata degli avversari,
dove sta la loro peculiarità e la loro differenza?
Anche nei confronti dell’elemento femminile
il discorso è più complesso di quello che Littell,
riprendendo Theweleit, è portato a fare.
L’Infermiera virginale e l’Infermiera prostituta
sono un classico maschile dell’epoca,
dove i bordelli hanno una funzione sociale, il
matrimonio assicura la continuità della specie,
la rispettabilità borghese è una forma
istituzionale... Il puritanesimo legato a quella
contrapposizione è trasversale rispetto alle
ideologie e alla loro realizzazione politica.
Fascisti, comunisti e democratici vanno tutti
a puttane per gli stessi motivi e con le stesse
motivazioni, hanno, in linea di massima le
stesse fantasie e turbe sessuali, possono essere
sadici, masochisti, attivi e passivi indipendentemente
dal oro credo ideologico... Anche
qui, l’usare un termine politologico dandogli
un valore psicanalitico confonde più che
chiarire il problema.
Nel saggio su Degrelle, Littell fa un’operazione
opposta a quella che, come romanziere,
aveva fatto nelle
Benevole. Lì aveva cercatodi dare corpo a un’idea e a un modo
d’essere, non per giustificarli, ma per narrarli
nella loro interezza. Qui, l’antipatia lo trasforma
fin dall’inizio in giudice: di Degrelle
non gli piace nulla, di Degrelle trova tutto
falso e artificioso. Politicamente è un pasticcione,
militarmente un gigione, psicologicamente
quello che fin qui abbiamo raccontato.
Così, intuizioni e considerazioni anche interessanti,
si perdono, sommerse da un risentimento
che alla fine azzera e livella. Peccato.
come saggista gli manca la profondità e l’umiltà
del romanziere...