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Gaza: chi è Davide e chi è Golia?

di Roberto Zavaglia - 16/05/2008

Èlecito boicottare una manifestazione

culturale, se si ritiene

che rappresenti la legittimazione

per la sanguinosa repressione

attuata da uno Stato, oppure gli

scrittori e i loro libri vanno sempre

omaggiati perché solo con la libera

circolazione delle idee si può porre

riparo alle ingiustizie in questo mondo?

Apparentemente, è questo il

nodo delle polemiche sulla Fiera del

Libro. Che non sia esattamente così

lo dimostrano, però, le parole pronunciate

dall’ambasciatore di Israele,

Gideon Meir, in occasione dell’inaugurazione

della rassegna torinese:

«Un ringraziamento speciale di vero

cuore per il Presidente Napolitano,

per la sua forte presa di posizione

quando nei mesi passati ci sono stati

tentativi e appelli a boicottare la Fiera

del Libro per la presenza di Israele

». Il nostro Capo di Stato, che qualche

tempo fa aveva scomunicato

l’antisionismo equiparandolo all’antisemitismo,

si è limitato a qualche

frase di circostanza sulla cultura

come ponte fra i popoli e, dopo avere

firmato una bandiera israeliana, manco

fosse un calciatore alle prese con

un tifoso, se n’è ritornato a Roma.

Si è trattato, dunque, di un breve

incontro diplomatico tra due Stati

attraverso i loro massimi rappresentanti

- Presidente e ambasciatore del

Paese straniero - per suggellare un

avvenimento politico. Al di là dei

contenuti della Fiera, il suo significato

principale resta la celebrazione dei

60 anni dello Stato di Israele, come è

testimoniato dal ringraziamento dell’ambasciatore.

Il rituale non è mai

semplice forma, ma è concepito per

trasmettere un messaggio. In questo

caso, si tratta del plauso dello Stato

italiano ad Israele che, espresso in

una data particolarmente simbolica,

rafforza l’impressione di un avallo a

sei decenni di storia. Che l’occasione

sia una fiera letteraria o, per dire, un

convegno sull’industria meccanica

israeliana, cambia ben poco.

In fin dei conti, basterebbe un po’

meno di ipocrisia: se si ritiene lo Stato

di Israele meritevole di essere

festeggiato, e si sceglie di mettere in

vetrina la sua produzione culturale,

lo si può fare benissimo senza infingimenti

e, soprattutto,

senza lanciare verso chi

non è d’accordo la trita accusa

di preparare «nuovi roghi di

libri». Si dice, da parte degli

organizzatori, che la rassegna

non è “di parte” perché sono

stati invitati tutti gli scrittori

israeliani, compresi i più critici

verso il proprio Governo, e tutti

hanno accettato di intervenire.

Si cita la partecipazione dei

tre tenori della letteratura israeliana

- i soliti Amos Oz, David

Grossman e Abraham Yehoshua

-, i quali, però, contestano

solo alcune delle politiche

repressive nei confronti dei

palestinesi, ma hanno

condiviso, almeno

inizialmente, la scelta

di attaccare il Libano.

Altri scrittori si sono

invece rifiutati di presenziare,

come

Benny Ziffer, responsabile

del supplemento

culturale del quotidiano

Haaretz, che

ha invitato a boicottare

la manifestazione.

Il momento scelto

dagli organizzatori

della Fiera di Torino

è particolarmente

drammatico. L’embargo

della Striscia di

Gaza rende ogni

giorno più intollerabili

le condizioni di vita della

popolazione. In particolare, la

mancanza di energia pone a

repentaglio il funzionamento

degli ospedali e la distribuzione

dell’acqua potabile

che viene ormai drasticamente

razionata come avviene anche

per la luce elettrica. Il numero

dei malati deceduti per mancanza

di medicine è arrivato a

146, mentre una serie di organizzazioni

indipendenti, tra cui

Amnesty International, ha

denunciato che l’80% delle

famiglie di Gaza deve ricorrere

agli aiuti internazionali per

avere di che nutrirsi.

Di fronte a tali crimini umanitari,

i sostenitori di Israele ripetono

che, senza il lancio dei

razzi Qassam, non ci sarebbe

l’embargo. Anche a voler credere

a questa tesi, e non a quella

più realistica di un blocco

attuato per fiaccare la popolazione

dopo la vittoria elettorale

di Hamas, un’occhiata alle

cifre rende conto della terribile

sproporzione. Da un sito filoisraeliano,

apparentemente

bene informato, abbiamo

appreso che gli israeliani uccisi

dai Qassam, in sette anni, sono

stati tredici. Tra i giorni 24 e

29 dello scorso aprile, in un

periodo “normale”, le

forze israeliane hanno

ammazzato a Gaza 9

palestinesi, tra cui

quattro fratellini e la

loro madre colpiti da

una cannonata mentre

stavano facendo colazione.

C’è qualche

amico di Israele che

vuole provare a fare

la proiezione di 6

giorni su sette anni?

O c’è qualcuno fra i

giornalisti tanto

preoccupati del

“risorgere dell’antisemitismo”

che si è

dato un poco di pena

anche per i 53 bambini

e adolescenti uccisi,

nella sola Gaza, dall’inizio

dell’anno?

L’aspetto grottesco della polemica

è rappresentato dal perdurante

lamento di tutti i principali

giornali e televisioni sulla

forza che il “pregiudizio

antisionista” possiederebbe nel

sistema mediatico italiano. In

realtà, non esiste un organo di

informazione a larga diffusione

che condanni in modo netto

Israele per le continue violazioni

del diritto internazionale.

Il rogo di un paio di bandiere

con la Stella di Davide, invece,

è stato trasformato in un crimine

efferato, quasi il preludio di

una nuova stagione terroristica,

e questo non nella pacifica

Svizzera, ma in un Paese dove

la memoria degli Anni di

Piombo dovrebbe insegnare il

senso delle proporzioni. Il politico

che, di recente, è asceso

alla terza carica dello Stato si è

addirittura spinto a dire che

quell’episodio è più grave del

brutale omicidio di un giovane,

avvenuto a Verona. Se il buon

giorno si vede dal mattino,

chissà quante altre lezioni di

civismo potrà impartire agli

italiani Gianfranco Fini, dall’alto

scranno su cui ora siede.

Anche lo sconfitto Veltroni,

pur con toni meno sguaiati, ha

voluto condannare quanti ritengono

che lo Stato ebraico si

macchi quotidianamente di

gravi crimini, scrivendo sul

Corriere della Sera che nel suo

partito non c’è spazio «per

alcuna forma di ostilità e di

pregiudizio verso Israele, verso

un Paese democratico, civile,

ricco di cultura, con una società

aperta, plurale e dinamica».

Il Vicedirettore dello stesso

quotidiano, in un preoccupato

editoriale, si è chiesto il perché

del «trattamento speciale»

riservato ad Israele che viene

criticato in quanto Stato e non

per gli eventuali errori dei suoi

Governi. Se si sforzasse un

poco, Pierluigi Battista comprenderebbe

che uno Stato

coloniale che rifiuta di restituire

i territori illegalmente occupati

va condannato non in

merito ai singoli Governi, ma

per la sua azione complessiva.

Il sionismo è sbagliato perché,

come scrive lo storico israeliano

Ilan Pappe, è un’ideologia

etnocentrica, per mantenere

una larga maggioranza ebraica

in un territorio precedentemente

abitato da altri, anche a

costo di praticare la pulizia

etnica. Realisticamente, il male

minore oggi ci appare la divisione

della Palestina sui confini

precedenti la guerra del

1967, ma ciò non significa

dimenticare i termini storici

della questione.