Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / La vita «mancata» come problema filosofico

La vita «mancata» come problema filosofico

di Francesco Lamendola - 17/05/2008

Vita inautentica; vita mancata; vita fallita: sono espressioni che ci capita di udire abbastanza spesso, da diverse parti e in differenti circostanze, fatte ormai proprie dal linguaggio comune. D'istinto, afferriamo ciò che vogliono dire, anche se non sempre è facile spiegarlo in maniera precisa e razionale.

Ma che cosa vuol dire, esattamente, che una vita è «mancata»? mancata, rispetto a che cosa? E a giudizio di chi? E fino a che punto?

Il verbo «mancare» fa pensare, oltre naturalmente all'essere privo di qualche cosa, a un bersaglio che non viene colpito, a un affare che non giunge a buon fine o  ad un appuntamento che "salta" per qualche ragione imprevista. Ma si può anche «mancare», ossia venir meno, a un impegno preso o alla parola data; e si può «mancare» in senso assoluto, cioè comportarsi in modo totalmente inadeguato rispetto a una determinata circostanza.

Ma quando si parla di una intera vita mancata, non è più questione di singole scelte dell'io, non è più questione di circostanze e situazioni: lo spettro che incombe è quello di un fallimento totale, irrimediabile, senza appello.

Scrive Vittorio Possenti in Terza navigazione. Nichilismo e metafisica, Roma, Armando Editore, 1988, pp. 350-351):

 

Che dire poi delle vite fallite? Degli io sciupati per sempre? Ah! Nell'esistenza quotidiana quanto frequentemente si conversa di vite fallite, un punto in cui si concentra la tristezza di non poter più cambiare il ilo conduttore di un'esistenza largamente trascorsa, e la nostalgia per qualcosa di diverso. Se la conversazione modana parla con abbondanza delle molteplici forme di vita sciupata, conosce a sufficienza ciò di cui si occupa? Non potrebbe essere vita sciupata quella dell'uomo che non diventò consapevole di sé stesso come interiorità? «Sciupata è soltanto la vita di quell'uomo che la lasciava passare, ingannato dalle gioie o dalle preoccupazioni della vita, in modo che non diventò mai , in una decisione eterna, consapevole di se stesso come spirito, come io» (S. Kierkegaard, La malattia mortale, p. 29). Forse l'eternità è offerta alla persona umana, perché possa, in vario modo e secondo diversi cammini, divenire pienamente cosciente di essere un io e un'interiorità.

L'uomo è colpito nel centro dell'anima se, entro un'intuizione anche fuggitiva, comprende di non aver vissuto nella coscienza di essere un io. Ciò resta comunque una possibilità nel tempo dell'esistenza mondana, quand'egli, preferendo la distrazione, può rifiutare la propria interiorità. Non può però distruggerla, perché è l'interiorità di un io eterno, e perciò in-ammissibile, non-toglibile. Essere inchiodati al proprio io eterno, questo è lo scandalo che la filosofia fatica a comprendere, questa è la croce contro cui si spuntano i facili pensieri della fenomenicità dell'io.

Mai completamente sottoposta alla presa della filosofia, l'interiorità deve rimanerne al centro come uno stimolo e un segno di contraddizione…

 

Per comprendere a pieno il significato dell'espressione «vita mancata», bisogna - ovviamente - definire quale sia lo scopo della vita umana. Riferita all'animale o alla pianta, una simile espressione non avrebbe senso, e non perché essi non abbiano uno scopo, ma perché non ci si aspetta che a  realizzarlo debba concorrere la volontà cosciente degli individui. Quindi, se una vita umana risulta «mancata», ciò può avere il significato di una doppia beffa e di un doppio fallimento: perché non attesta, di per sé, l'assenza di uno scopo nella vita umana in generale, bensì l'assoluta insufficienza di quella determinata vita umana a trovarlo, perseguirlo e realizzarlo.

Il lettore che ci abbia già seguito in alcune precedenti riflessioni, specialmente Che cosa hai fatto nella vita che ti sembri sufficiente?; La persona è un mistero perché la sua essenza è essere; e La persona si realizza se riconosce e segue la propria vocazione (tutti consultabili sul sito di Arianna Editrice), potrà meglio comprendere da quali basi di carattere generale prende le mosse la nostra linea di ragionamento. Pertanto rimandiamo a quei lavori chi desideri capire bene il quadro di riferimento della presente riflessione; e ad essi aggiungiamo anche Per essere persone e non pecore nel gregge è necessaria una visione unificatrice della vita.

Ora, senza ripetere dettagliatamente cose già trattate a suo tempo, ci limiteremo a ricordare che l'essere umano, secondo noi - così come ogni altro essere - non è frutto del caso, ma il risultato di una chiamata all'esistenza da parte dell'Essere; che la sua vita è preziosa perché gli viene data allo scopo di decidere liberamente se rispondere, oppure no, a una vocazione ben precisa; e che, per poter rispondere alla vocazione, sono necessari due elementi: la forza soprannaturale, che i cristiani chiamano Grazia; e la disponibilità a corrisponderla, da parte della persona, che scaturisce non solo da una generica "buona volontà", ma anche dalla capacità di elaborare una propria visione unificatrice della vita, dei suoi scopi e del suo termine ultimo.

Il primo elemento, la Grazia, non dipende da noi; semmai dipende da noi il fatto di non voltargli le spalle, rifiutandolo deliberatamente; ciò che può benissimo accadere e che corrisponde, propriamente, alla categoria del demoniaco (cfr. specialmente i nostri scritti Voltar le spalle alla grazia: il peccato d'origine della modernità e La fuga di Giona, parabola dell'uomo contemporaneo).

Il secondo elemento, ossia la nostra capacità di elaborare una sorta di mappa spirituale che ci consenta di affrontare con saldo cuore e limpida visione la navigatio della vita terrena, come il marinaio che affronti le grandi onde del mare aperto  - e, talvolta, con l'insidia della nebbia e degli scogli a fior d'acqua -, è interamente affidato alla nostra iniziativa.

Ci sia consentito riprendere alcuni brevi concetti del precedente lavoro Per essere persone e non pecore nel gregge è necessaria una visione unificatrice della vita.

Una volta che la visione unitaria della vita, coi suoi scopi e il suo senso di responsabilità, sia  germogliata nell'animo, nella fase iniziale della sua crescita essa è esattamente nelle condizioni di una tenera piantina che deve irrobustirsi attraverso le dure prove delle piogge eccessive o della prolungata siccità. In altre parole, allorché il bambino e, poi, l'adolescente, siano riusciti a forgiarsi quello formidabile strumento di orientamento nella vita, che è la visione unitaria di essa, devono affrontare e superare la prova dello scontro dei propri ideali con la realtà concreta. Uno scontro dal quale non tutti escono vittoriosi e dal quale tutti, comunque, riportano cicatrici più o meno dolorose, più o meno permanenti.

Si badi che la posta in gioco, allorché l'adolescente e il giovane devono mettere alla prova il proprio  scopo di vita ed i propri ideali, non è il fatto di riuscire ad affermare integralmente questi ultimi, cosa del resto impossibile a causa della loro inevitabile indeterminatezza. Se tale fosse la posta in gioco, potremmo anzi dire che nessuno, ma proprio nessuno, riesce a superare la prova. Quando mai la vita ha fatto degli sconti a qualcuno in misura tale, da consentirgli di realizzare integralmente i propri ideali e le proprie ambizioni?

No: la posta in gioco non è l'affermazione vittoriosa e integrale degli ideali e delle aspirazioni individuali; ma il fatto di mettere alla prova le proprie capacità, il proprio coraggio, la propria perseveranza, al fine di trasformare le aspirazioni e gli ideali dell'adolescenza, più o meno vaghi e velleitari, in un abito permanente, in una struttura di carattere, in un esercizio della volontà e, al tempo stesso, in una matura e realistica capacità di valutare il rapporto tra mezzi e fini, tra le proprie possibilità e capacità e gli obiettivi di massima che ci si è dati. La posta in gioco, in una parola, non è qualche cosa di esterno all'individuo, ma qualche cosa che fa parte della sua realtà più intima e fondamentale: la coscienza di sé e l'autostima.

 

Ora, è chiaro che per quelle filosofie le quali considerano l'uomo come fine a sé stesso e che vedono nell'esistenza di un Essere auto-sussistente una minaccia alla sua libertà e alla sua sovranità, la vita umana in se stessa non può che apparire qualche cosa di «mancato»: mancato, perché gli impedisce di dispiegare la sua volontà esclusiva e immanente. Per tali filosofie - l'esistenzialismo di Sartre, ad esempio - non occorre che un Essere che sia causa sui esista effettivamente; è sufficiente che l'uomo vi creda, perché ciò renda inautentica e fallita la sua propria esistenza, alienandola verso un fine trascendente che è irraggiungibile.

Come osserva giustamente Giuseppe Semerari in Scienza nuova e ragione (Milano, Silva Editore, 1966, pp.  76-77):

 

La contraddizione della ontologia esistenziale di Sartre è che essa assume a suo orizzonte, in linea di fatto, l'Ens causa sui che le religioni chiamano Dio, com'è detto ne L'Essere e il nulla, e, in linea di diritto, la esistenza umana. Il conflitto è, allora, la impossibilità che l'uomo realizzi l'essere assunto come orizzonte della sua esistenza. Per questo, l'uomo si perde in quanto uomo perché Dio nasca e, nella constatazione del fatto che Dio non nasce, nonostante l'autoannullamento dell'uomo come uomo, si rivelano fatalmente la inutilità assoluta dell'appassionarsi dell'uomo ai suoi progetti e, quindi, la equivalenza delle scelte, quali che siano. Il criterio dell'Ens causa sui, che non può comunicare con alcuno, perché è silenzio, assenza e solitudine, è la distruzione delle possibilità di valore delle scelte, perché è la inibizione assoluta di qualsivoglia relazione. La esistenza di Sartre si perde, perché si carica di una libertà di tipo assoluto, che non le può competere se essa si tiene al suo significato proprio. Le alternative puramente negative del fare il male assoluto o dell'essere il nulla di una illusione ottica sono le sole a dischiudersi alla esistenza umana, dal momento che il suo criterio di valore viene ricercato e posto non in essa stessa, nella sua struttura, bensì nell'assoluto Ens causa sui al cui confronto la esistenza non può che restare paralizzata e ridotta a pura negazione. Tale negatività è, da un lato, il disconoscimento della natura finita della esistenza, e, dall'altro, la impossibilità di un criterio di valore o norma tale da difenderla dalla indifferenza delle scelte. La malafede nasce dall'aver compreso esistenzialmente la esistenza nell'orizzonte non esistenziale dell'Ens causa sui.

 

Secondo le filosofie nichiliste, dunque, l'uomo si trova come preso in trappola in questo assurdo dilemma: tutto quel che può fare è andare a sbattere, monotonamente, contro le sbarre della natura finita dell'esistenza, cosa che non riesce ad accettare (come in Leopardi); oppure compiere delle scelte esistenziali che egli sa essere tutte vane, perché tutte prive di un criterio di verità che le renda significative le une rispetto alle altre.

Per uscire da un simile punto morto, all'essere umano è necessario ricordarsi di essere non un semplice aggregato casuale di atomi, ma persona, ossia apertura, possibilità, perfettibilità, vocazione e capacità dialogante, con sé e con l'Altro.

Più che dare una definizione "scolastica" del concetto di persona, ci piace evidenziarne la valenza di autonomia, dignità e libertà, così come è stato fatto da Emanuel Mounier e dal nostro Luigi Stefanini (cfr. Francesco Lamendola, L'arte come "parola assoluta" della persona finita nel pensiero di Luigi Stefanini, pubblicato negli Atti del Convegno su L. Stefanini a Treviso del 2006, e consultabile anche sul sito di Arianna Editrice). E lo faremo prendendo a prestito le parole di Giuseppe Faggin in Dizionario di filosofia a cura di Andrea Biraghi, Milano, Edizioni di Comunità, 1957, p. 285, alla voce Personalismo):

 

(…) la persona non solo non si definisce mediante l'incomunicabilità e il ripiegamento, ma di tutte le realtà dell'universo è la sola che sia propriamente comunicabile, che sia verso altri e anche in altri, verso il mondo e nel mondo, prima di essere in sé. L'uomo personale non è un uomo desolato, ma un uomo attorniato, assistito, chiamato.

 

Appunto: chiamato. Anzi, doppiamente chiamato: chiamato all'esistenza (come tutti gli altri enti) e chiamato al senso da dare alla propria esistenza (a differenza di tutti gli altri enti, o almeno di quelli esperibili mediante i sensi).

A questo punto, risulterà chiaro che cosa si debba intendere, secondo noi, quando si adopera l'espressione «una vita mancata». Una vita mancata (o fallita, o inautentica) è una vita che non ha saputo rispondere alla chiamata. E se poi qualcuno pensasse di poter liquidare la domanda sul perché di una tale mancata risposta, adducendo il richiamo smodato per il potere, il possesso, il piacere e simili, noi replicheremmo che ciò non fa altro che spostare i termini della domanda, che diventerebbe: per qualche ragione l'attrazione smodata verso il potere, il possesso, ecc. può impedire ad un essere umano di udire la chiamata e di rispondervi positivamente?

Per noi, non vi sono dubbi circa il fatto che, al di là dei modi in cui una vita può fallire, la causa ultima è, sostanzialmente, sempre una ed una sola: l'incapacità, da parte dell'essere umano, di ri-conoscersi come persona, ossia - direbbe il buon vecchio Kierkegaard - come singolo e come interiorità.

È quando l'essere umano si scorda, o non si accorge, di essere molto di più che un aggregato di molecole e un prodotto di cause naturali, che si vengono a configurare le condizioni per il fatale ottenebramento della coscienza, che lo porterà a divenire sordo e cieco alla voce della chiamata e a rinchiudersi in un orizzonte esistenziale sempre più circoscritto ed asfittico, sempre più penosamente insufficiente; fino a morire - letteralmente - per mancanza di ossigeno.

 

Un ulteriore elemento di tristezza - una tristezza nella tristezza - è che l'essere umano, quando si rinchiude in un orizzonte disperatamente immanentistico, che non lo appaga e che lo induce a rivolgere contro se stesso quelle energie spirituali che gli sono state date per realizzarsi e per trascendersi - giacché l'uomo, paradossalmente, si realizza solo andando oltre se stesso - non di rado tenta di comprimere la ferita che incessantemente lo fa sanguinare, reagendo con un accresciuto e mal diretto desiderio di potenza, grazie al quale sentirsi grande ed eroico.

La volontà di potenza di Nietzsche è un tipico esempio di questo tipo di reazione patologica e distruttiva: come se un essere, che non ha saputo riconoscersi e realizzarsi, potesse acquietare la propria disperazione, proiettandola in una qualche forma di dominio sulla realtà esterna. E, in generale, ben sappiamo quali danni e disastri abbia operato, ed operi, nella storia umana - e non solo nella grande storia, ma anche nella piccola storia di tante esistenze "ordinarie" - l'esercizio dissennato di una cieca volontà di potenza.

 

Osserva ancora, a tale proposito, Vittorio Possenti (Op. cit., p. 288):

 

È domanda degna della più accurata attenzione se l'uomo voglia un di più di potenza, o invece una più alta attuazione dell'esistere. Sarebbe una catastrofe confondere i due aspetti, perché nella volontà di essere in modo più pieno non si cerca un incremento di potenza, quanto l'attuazione del desiderio di esistere secondo un più perfetto compimento della propria essenza. «Essere atto di tutto l'esistere consentito dalla propria essenza», ha scritto F. Balbo, con piena misura, e non c'è nulla da aggiungere.

 

Siamo giunti, così, a formulare una risposta - provvisoria e niente affatto compiaciuta di sé - alla domanda che ci eravamo posti, sul significato delle vite «mancate».

Di nuovo, qualcuno potrebbe obiettare che una vita mancata non è necessariamente una vita disperata, a condizione che essa sia - e rimanga - inconsapevole del proprio fallimento, ad es. ignorando la dimensione della propria interiorità e della propria singolarità. A tale obiezione rispondiamo che ignorare la vera natura del proprio essere è possibile - forse -, ma solo a livello cosciente; mentre nelle zone più profonde dello spirito, il malessere e la disperazione si agitano e ribollono tanto più freneticamente, quanto più intuiscono che la coscienza si rifiuta di guardare in faccia la realtà e di aprire, con ciò, un orizzonte di speranza.

Non invidiamo, del resto, la situazione di colui che voglia reprimere il grido che sale dalle profondità della propria anima, allorché questa si sente tradita nel riconoscimento della sua natura e dello scopo della vita umana.

Perché quel grido liberatorio potrebbe riuscire a farsi strada e ad emergere, nella piena luce della consapevolezza, allorché - forse - è diventato troppo tardi per fare qualcosa, per recuperare il tempo perso e le occasioni sistematicamente ignorate e «mancate».

Gran brutto momento, quello.

Perché è vero che la persona, riconoscendosi, può realizzare il suo fine trascendente anche nell'ultimo istante della propria vita terrena. Ma è altrettanto certo che, a quel punto, dovrà fare i conti con il peso di un dovere sistematicamente eluso, di un impegno sistematicamente disatteso e  con la mole penosa del male, o del non bene, fatto a sé stessa e agli altri.

Fare il male, o non fare il bene che sarebbe possibile, per sé e per gli altri, significa non rendere giustizia al mondo. Significa, anche, disprezzare l'amore di quell'Altro che si suole scrivere con la lettera maiuscola, perché è l'unico Essere che ha l'essere nella propria natura, e non lo riceve da alcuno.