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La libertà «esagerata» di Pancho Villa

di Giulio Giorello - 17/05/2008

Pancho Villa, insieme ad Emiliano Zapata, fu uno dei grandi animatori della rivoluzione messicana che tra il 1910 e il 1917 spinse i contadini a lottare per una più equa distribuzione delle terre.
Il libro di Paco Taibo
Un rivoluzionario chiamato Pancho analizza la biografia di Villa, mettendone alla luce le sostanziali differenze con il mito costruito da una certa storiografia nonché dalla cinematografia hollywoodiana. Alle sue capacità militari e alla sensibilità verso le esigenze della popolazione messicana, si affiancano anche lo scetticismo verso modelli precostituiti come l’anticlericalismo e il socialismo.
L’eredità più grande lasciataci da Villa sta nella lotta per i diritti degli uomini al di là della loro appartenenza etnica o nazionale.


Il 5 giugno 1878 «si scatenò una tempesta e tra i lampi venne notata una variazione nelle dimensioni, nel colore e nel corso di Venere». Vedeva la luce Doroteo Arango, che sarebbe diventato noto come Francisco Villa e ancor più celebre come <«Pancho». Gli astrologi probabilmente hanno alluso alla sua complessa vita sentimentale. E ci hanno preso: più di una pagina della «biografia narrativa» che gli ha dedicato Paco Ignacio Taibo II è occupata dall’elenco («alquanto incompleto e impreciso») delle mogli e delle compagne di quel «facinoroso» che doveva finire crivellato di pallottole il 20 luglio 1923 — quando ormai la Rivoluzione messicana aveva conosciuto il suo Termidoro. Aveva davvero fatto tremare il Messico, mandando in frantumi il vecchio ordine e combattendo persino i suoi stessi colleghi «generali» che volevano chiudere troppo frettolosamente la partita. Non aveva esitato a dichiarare: «Il nostro popolo non ha mai avuto né giustizia né libertà. Tutti i terreni migliori li possiedono i ricchi. E i poveri, con pochi stracci addosso, lavorano dall’alba al tramonto. Io dico che la prossima tappa sarà offrire loro un’altra vita, altrimenti non molleremo i Mauser che abbiamo».
Le ottocento e passa pagine che Paco Taibo consacra a Un rivoluzionario chiamato Pancho (Tropea, traduzione italiana di Pino Cacucci, pp. 858, € 22,90) delineano l’affresco non solo di un personaggio che è ancor oggi un mito in tutto il Centroamerica [...], ma anche delle epiche vicende di una rivoluzione del Novecento (scoppiata ancor prima di quelle di Irlanda, 1916, e di Russia, 1917). Il Messico è stato insieme un grande laboratorio politico e lo scenario della crisi dei vari paradigmi di legalità, statali e federali. «Coraggio fino alla temerarietà, distacco dalle cose terrene fino allo spreco, odio fino ad accecarsene... tutto questo è Villa in un giorno, in una certa ora, in un attimo, in tutti i momenti della vita», come dice uno dei tanti ritratti di coloro che erano colpiti soprattutto dal suo sguardo che sembrava «scavare nell’anima». Non mancavano la genialità militare e la profonda capacità di comprensione delle esigenze della sua gente. Insensibile a riforme centralistiche e dirigistiche, ostile a ogni forma di fanatismo (compreso quello che doveva scaturire dal rozzo anticlericalismo di non pochi rivali politici), privo di qualsiasi pregiudizio razziale, diffidente di ogni ricetta importata — fosse anche quella del socialismo —, Villa non è inquadrabile nelle tante categorie del cosiddetto «secolo breve». Non basta dire che seppe dare voce (e armi) ai «dannati della Terra», né tantomeno appiccicargli l’etichetta di «bandito sociale» cara allo storico marxista Eric Hobsbawn. Il cinema — soprattutto quello di Hollywood, ma non solo — ne ha fatto il prototipo del ribelle passionale ed esagerato. Ma «esagerata» era soprattutto la sua idea di libertà — e quale idea di libertà non è in un senso o nell’altro esagerata? Né il suo appello ai Mauser era solo sinonimo di insurrezione sociale, perché quella di Villa è stata sempre e coerentemente una lotta per i diritti, più forte là dove maggiormente erano calpestati.