Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Kierkegaard, maestro del ritorno in noi stessi, è la guida per uscire dalla palude

Kierkegaard, maestro del ritorno in noi stessi, è la guida per uscire dalla palude

di Francesco Lamendola - 19/05/2008

 

Esiste un Socrate dei nostri giorni, un Maestro che ci sappia richiamare all'esigenza del «conosci te stesso» e, più precisamente, del riconoscimento dell'uomo come singolo e come interiorità? E che sappia ricordarci, al tempo stesso, che l'uomo è perduto se si chiude a riccio nella pretesa della propria autosufficienza, detestando l'altro (l'inferno sono gli altri, diceva Sartre) ed escludendo con rabbia la trascendenza dell'Altro (Dio è morto; e siamo stati noi ad ucciderlo, predicava lo Zarathustra nietzscheano)?

Esiste, insomma, un saggio timoniere che ci possa guidare fuor del pelago alla riva, in queste acque infide della modernità, ove tutte le ideologie, tute le promesse e tutte le speranze sono crollate miseramente, le une sopra le altre, non lasciando altro che un paesaggio di macerie, una allucinante terra desolata, per usare l'espressione poetica di Eliot?

Forse sì; a patto che non ce lo immaginiamo come un Superuomo invincibile e infallibile, come un Supermaestro esente da dubbi e incertezze e più che mai corazzato nelle proprie rocciose sicurezze, bensì come un nostro compagno di viaggio che, più coraggioso e più lungimirante, ha intuito il pericolo prima di noi e si è sforzato di correggere la rotta impazzita, pur conservando in se stesso le fragilità e le contraddizioni, perfino le ambiguità, che sono un tipico portato di questa «cultura del tramonto», della quale noi tutti siamo figli legittimi.

Ebbene, forse un tale timoniere, un tale Maestro esiste, nell'Occidente attanagliato da una crisi spirituale sempre più vertiginosa; e forse non è il caso di andarlo a cercare fra i nostri contemporanei, che troppo tardi si sono accorti della crisi, quando ormai essa era evidente anche agli occhi di un bambino. Forse bisogna cercarlo più indietro, alle origini della fase centrale della modernità, tra la rivoluzione industriale e la rivoluzione della carta stampata - contro la quale ultima, o meglio contro la cui dittatura, combatté una donchisciottesca battaglia, fino allo stremo delle forze e alla morte; ed è quel Sören Kierkegaard che scrisse una quantità prodigiosa di libri, di opuscoli, di articoli, per lo più firmandosi con immaginifici pseudonimi (un po' come avrebbe fatto, più tardi, Fernando Pessoa). Un Maestro solitario e stralunato, visionario e lucidissimo, avventato ed astuto al tempo stesso; non compreso dai suoi contemporanei, anzi perseguitato, esecrato e deriso; una pietra dello scandalo e una pietra d'inciampo, fustigatore di tutte le false certezze, di tutte le finzioni, di tutte le ipocrisie.

Insomma un Maestro talmente scomodo e politicamente scorretto che, se la morte non lo avesse colto per strada, a Copenaghen, mentre tornava dalla banca ove aveva prelevato i suoi ultimi risparmi per alimentare la sua strenua battaglia contro la Chiesa luterana danese, da lui accusata di non essere affatto cristiana, forse sarebbe morto all'ospizio della carità o, magari, messo a tacere con mezzi legali, come era toccato al suo illustre modello dell'antichità, Socrate. Talmente scomodo e incompreso che nemmeno la donna alla quale rimase disperatamente legato per tutta la vita, Regina Olsen - ormai sposa, da anni, di un altro - rifiutò le carte che egli, per testamento, le aveva voluto offrire dopo morto, come ultimo dono e come testimonianza del suo sentimento totale e indefettibile.

Sì, Kierkegaard. Un uomo strano, enigmatico, che sfugge a tutte le catalogazioni e che spesso i curatori dei testi scolastici di filosofia - per non parlare dei professori - relegano con sufficienza tra gli "scrittori edificanti" più che tra i filosofi; e non si accorgono, ciechi e stolti come sono, che si tratta di un pensatore di primissima grandezza, di un gigante della filosofia (come testimoniano, fra l'altro, le Briciole di filosofia e la Postilla non scientifica); e, al tempo stesso, di un osservatore straordinariamente lucido e acuto di quella crisi che, allora, batteva sommessamente alle porte dell'Europa, e che oggi cui sta investendo in pieno.

È certo, certissimo che il filosofo danese avrebbe rifiutato con fermezza - ma anche con quella sua sottile, implacabile ironia - sia il titolo di Maestro, sia l'attributo di timoniere. Ne fanno fede - oltre a tutta la sua vita e all'immensa mole dei suoi scritti, le brevi, semplici parole che volle incise sulla sua lastra tombale: Un singolo. Ma proprio per questa sua ritrosia, per questa sua modestia, per questa sua consapevolezza dei propri limiti, egli ci appare più che mai il campione di un pensiero forte e vivo, e la sua figura come quella di una guida preziosa.

Quanto riserbo, quanto pudore, quanta delicatezza - e anche, ben s'intende, quale sottile gioco degli specchi - dietro quella selva di pseudonimi, così come dietro quella eccelsa capacità di indossare i panni dell'avversario per meglio confutarlo: si pensi solo al Diario del seduttore!  E, per contro - non ce ne vogliano gli ammiratori del filosofo della morte di Dio - ai quali noi pure, con riserva, apparteniamo - si pensi alla megalomania sbracata, al delirio di onnipotenza di testi come Ecce homo, al continuo, esasperante narcisismo col quale Nietzsche suggella e condisce ogni sua opera: e non solo quelle scritte alla vigilia della pazzia.

 

E dunque, come dobbiamo accingerci alla lettura di Kierkegaard, noi uomini del terzo millennio, noi figli disincantati della post-modernità? Il suo spirito sottile, non sarà per noi troppo sottile; le sue caustiche sferzate, le sue ambigue ironie, il suo giocare a nascondino dietro maschere e parabole, non saranno troppo raffinati, per dei palati grossolani come i nostri? E il suo sussurro, o addirittura il suo silenzio, non saranno troppo esigenti per degli uomini che, come noi, hanno ormai i timpani sfondati dalle grancasse della modernità trionfante?

Ebbene, ecco qualche consiglio da parte di un grande critico tedesco.

Scriveva Christoph Schrempf in Soeren Kierkegaard und sein neuester Beurteiler in der Theologischen Litteraturzeitung (Herr Wietzel in Dornreichenbach), Ein Pamphlet, Richter, Leipzig 1887, pp. 30-32 (traduzione di Alessandro Cortese in Questioni di storiografia filosofica, a cura di Vittorio Mathieu, Brescia, la Scuola Editrice, 1974, vol.. 3, pp. 658-659):

 

Chi vuole abbandonarsi alle proprie impressioni nella lettura di Kierkegaard può sperimentare la propria meraviglia.  Perché entro la stessa opera Kierkegaard non esita a istigarvi il lettore attraverso le impressioni più opposte, non ha nessun ritegno d'entusiasmare dal punto di vista etico e di deridere causticamente la religiosità. Così attira e respinge, e in tal modo insegna a pensar da sé. (…) [Del resto] come si può meglio esercitare la prudenza verso le impressioni  immediate che non con l'ingannare intenzionalmente grazie alle impressioni? «Chi è stato ingannato è più saggio di chi non lo è stato», dice il motto della seconda parte degli Stadien [Stadi]; con precisione forse ancora maggiore si può dire che chi non fu mai ingannato non diventerà mai saggio; ma forse, allora, può educar meglio all'autonomia chi sa ingannare nel modo migliore. E Kierkegaard lo sapeva. Ha ingannato persino [i critici] prudenti[…]; anche me, solo in modo un po' diverso.

Credo dunque che Kierkegaard sia in misura eminente uno scrittore presso cui s'impari a leggere e a pensare. Ed era pure sua manifesta intenzione scrivere in modo che si potesse imparare da lui. Non si doveva far un po' più d'onore a una cosa del genere […]? Quali siano le particolari visini della vita di Kierkegaard, quale sia la verità da lui sostenuta e affermata, che valore abbia la sua asserita conoscenza della verità, ho volutamente tralasciato di chiedermi, qui il problema verteva soltanto sugli scritti pseudonimi […]. [del resto] rappresentare la concezione del mondo di Kierkegaard andrebbe oltre le mie forze, perché non ritengo d'averla compresa interamente, e ancor meno ho voglia di valutarla, perché ritengo ridicolo che colui che è più piccolo voglia valutare chi è superiore. Ciò che ho detto precedentemente a gloria di Kierkegaard potrei dirlo in quanto semplice lettore. La lode che gli ho elargito è essenzialmente indipendente dal fatto che questa particolare e supposta conoscenza della verità sia o no corretta; è pure indipendente dal fatto che io l'abbia compresa esattamente, nella sua interezza, o anche solo nell'essenziale. […]

In fondo io non ritengo […] importante arrivare ad accertarmi se Kierkegaard fu moralmente buono o cattivo, se era un angelo o un demonio, se la sua concezione della vita era esatta o falsa. Non ho certo da giudicare Kierkegaard, e il mio atteggiamento nei suoi riguardi è difficile che si faccia influenzare da questioni del genere. In questo mondo d'illusione anche il demonio può trasformarsi in un angelo della luce. Si farà sicuramente bene a rendere indipendente il proprio atteggiamento verso un uomo dal fatto che egli appaia buono o cattivo. Diversamente ci si può trovare ingannati con gran facilità. Si farà anche bene "a" desiderar d'imparare non "dagli" uomini, e naturalmente intendo dai buoni, ma "presso" gli uomini, tanto i cattivi quanto i buoni. Ma io credo che presso Kierkegaard si può imparar molto chiunque egli sia. […] [I critici] mett[ono] in guardia da quest'uomo contaminato d'«ingiustificabile superbia». Pure io lo raccomando, raccomando lui, proprio lui, l'ambiguo Kierkegaard; non tuttavia che s'impari "da" lui, ma che s'impari "presso" di lui. […] Credo di sapere quel che dico.

 

Kierkegaard, dunque,  come maestro d'ironia, ma anche come grande educatore; e tanto più grande, quanto più si sarebbe schermito di fronte a una tale definizione. Eppure, come Socrate, quel che voleva era di tirar fuori dagli uomini la verità che giace in fondo a ciascuno di essi, come un tesoro dimenticato; e, come Socrate, non si stancava di pungolarli, provocarli, stupirli, irritarli, disorientarli, confonderli: ma allo scopo di far sì che trovassero, con le proprie forze, la strada giusta da seguire. Egli, dunque, era l'esatto contrario dell'imbonitore da fiera, che grida ai quattro venti: «Venite, ascoltate e credete a tutto quel che vi dirò; io possiedo la risposta giusta per ogni genere di domanda!».

E quanti imbonitori da fiere, ahimé, affollano la storia della filosofia, specialmente ai nostri giorni! Con quale cipiglio professorale, con quale seriosità compiaciuta sentenziano e bandiscono il loro credo, scomunicando tutti gli altri! Ve n'è uno - ad esempio - che, da anni e decenni, con monotona insistenza, torna sempre a ripetere che tutta la storia del pensiero occidentale è stata uno sbaglio totale, una corsa nichilistica verso il Nulla, un oblio dell'Essere: dal platonismo al cristianesimo, dal marxismo al capitalismo, dalla metafisica alla tecnica. Un'unica idea, ma ripetuta ossessivamente, senza distinguo né sfumature: migliaia di pagine per tornare a dire che tutta la civiltà occidentale ha deragliato dalla retta via - tranne, forse, Parmenide - e che lui solo, il professore senza sorriso, ha visto giusto, ha sempre visto giusto…

Ma Kierkegaard è fatto di un'altra pasta. Sa vedere ogni questione come un poliedro dalle infinite facce, e per ciascuna di esse ha un occhio attento e indagatore. Rifugge dalle semplificazioni, dagli schematismi, dalle visioni manichee: sa che la realtà è complessa e, pur detestando Hegel (ma dopo averlo studiato, compreso e assimilato!), ha un vivo senso della dialettica, per cui rifugge istintivamente dai quadri fissi, dalle messe a fuoco in una sola dimensione. Non bara mai al gioco, ignorando le possibili obiezioni; è il primo a contestare se stesso, a mettersi radicalmente in discussione; e non teme di apparire debole e confutabile.

Ma questa è anche la sua forza. Una forza prodigiosa, inesauribile, che lo risolleva dopo ogni caduta, che gli accresce le energie quanto più le dissipa senza risparmio.

Kierkegaard non ha bisogno di posare a moderno: egli è moderno, perché ha attraversato le contraddizioni della modernità con estrema decisione, inoltrandosi proprio là dove i sentieri apparivano interrotti - per usare un'espressione heideggeriana - e la foresta più che mai intricata e selvaggia e aspra e forte.

 

Scrive Vittorio Possenti nel suo bel libro, da noi già più volte citato, Terza navigazione. Nichilismo e metafisica (Roma, Armando Editore, 1998, pp. 154-155:

 

L'opera di Nietzsche conosce da decenni un favore immenso, e molti pensano che costituisca il punti più alto della tarda modernità. L'anti-Nietzsche sarebbe impossibile? Eppure è già accaduto da tempo, anzi accadde proprio quando Nietzsche muoveva i primi passi sulla strada del pensiero. L'anti-Nietzsche fu un cittadino del re cristianissimo di Danimarca, quel Vigilius Haufniensis, che si dette come compito di esistere come sentinella della modernità. Kierkegaard si misurò con la realtà, perciò la sua opera è feconda. Kierkegaard si tenne vicino all'esistenza, perciò egli è giovane. Non furono i suoi aforismi altrettanto profondi e fulminanti che quelli di Nietzsche? Ma non fu egli più dotato di Nietzsche, così riccamente dotato sul piano dialettico che mentre Nietzsche vede solo pochi lati, egli ne abbraccia molti? (Rivolgersi da una parte soltanto, semplificando, non è forse stare nel nichilismo?). Così dotato che, se avesse avuto notizia dell'altro, l'avrebbe assimilato, digerito, superato? Nel gioco dialettico delle parti e ponendosi varie maschere, Kierkegaard avrebbe anche potuto per un certo tempo indossare quella del nichilista. Il reciproco sarebbe stato possibile a Nietzsche? Ma Kierkegaard era cristiano, e questo basta a spiegare varie cose, compresa la confidenza un po' superficiale con cui molti passano oltre di lui; compresa la classificazione heideggeriana, che lo incasella bellamente solo come scrittore religioso-edificante. Non pochi sembrano aver accettato senza beneficio di inventario il giudizio di Essere e tempo, e sono andati oltre, magari senza riflettere che pagine di tale opera non avrebbero potuto essere scritte senza lo stimolo del Danese.

Il pensiero contemporaneo si è buttato dietro le spalle il "problema Kierkegaard", mentre si ingolfa nel "problema Nietzsche": perciò non è in equilibrio, né può ascondere la sua falsa coscienza, perché considerando solo un lato, gli manca l'intero abbracciamento delle alternative possibili. Col suo carico di misteriosa spina nella carne, Kierkegaard volle esistere dinanzi a Dio, Nietzsche si espresse contro Dio. Il primo misurò la portata dell'ateismo come malattia e mortale e disperazione più di quanto il secondo misurasse la portata del teismo e della fede. Se Kierkegaard volle esistere dinanzi a Dio, di fronte a chi esistette Nietzsche? Se egli intese misurarsi con l'eterno ritorno dell'identico, questo gli impedì forse di raggiungere il fondo di se stesso e la piena verità dell'esistenza nella forma dello spirito.

Tanti elementi lasciano pensare che in Nietzsche si esprima, come atto conclusivo di un processo di declino, un momento di catastrofe della coscienza europea; in Kierkegaard invece la possibilità di una ripresa. Nella sua opera non si incontrano il pieno svolgimento e la condizione solare dell'intelletto speculativo, sebbene vi si trovino la possibilità e la necessità, la coscienza e il suo contrario, l'io, l'eterno, il finito e l'infinito. E vi si incontra chiara coscienza del nuovo ordine introdotto nel  pensiero e nella  storia dal cristianesimo: «Un organo nuovo: la fede; e un nuovo presupposto: la coscienza del peccato; e una nuova decisione: il 'momento'; e un nuovo maestro: Dio nel tempo». E vi risulti onnipresente l'idea che la filosofia è perfettibile, il cristianesimo no. La filosofia infatti è pensiero che vive nel tempo e diviene nello sforzo di cogliere l'essere: il cristianesimo invece è eterno, ed innanzi ad esso si comprende che non tutto si può comprendere.

 

Tre, in particolare, ci sembrano i meriti del pensatore danese nei confronti della nostra crisi attuale e della possibilità di uscirne; possibilità, si badi, null'altro che possibilità, dato che la categoria fondamentale che deciderà la questione è e rimane quella della nostra libertà di scelta.

Il primo merito, è stato quello di ricordare ai suoi contemporanei (e ai posteri) che solo rientrando in se stesso, l'essere umano può ritrovarsi e sperare di salvarsi all'angoscia del nulla.

Il secondo, quello di ricordargli che solo rientrando in se stesso può trovare, al centro della propria interiorità, quel Dio che da sempre gli parla e da sempre gli viene incontro, ma inascoltato.

Il terzo, che non possiamo avere la pretesa di comprendere ogni cosa, di trovare una risposta ad ogni domanda, almeno nella nostra presente condizione; e che dobbiamo, pertanto, avere il coraggio di fare un salto nella fede, spogliandoci della nostra saccente presunzione razionalistica.

Tre perle di saggezza infinita, tre autentici talismani che potrebbero, se bene utilizzati, guidarci fuori della mefitica palude nella quale stiamo sprofondando vieppiù, ogni giorno che passa; e vi stiamo sprofondando come ciechi o ubriachi, estasiati dal suono accattivante di dottrine malefiche e di sofismi vani e distruttivi.

Ma a che servono i talismani, se non vi è qualcuno capace di distinguerli dai comuni ciottoli di fiume?

 

E lui, Sören Kierkegaard, che cosa ne pensava di tutto ciò?

Possiamo farcene un'idea dalla Prefazione delle Briciole di filosofia, ovvero una filosofia in briciole  di Johannes Climacus, che qui riportiamo nella traduzione di Cornelio Fabro (da S.Kierkegaard, Opere, Firenze, Sansoni, 1993, pp. 202-203):

 

Qual è, allora, la mia opinione?… Nessuno, per favore, me lo domandi; perché, dopo la questione se io abbia un'opinione, niente può essere più indifferente di sapere qual è la mia. Avere un'opinione è per me qualcosa di troppo e di troppo poco, presuppone una sicurezza e un benessere di esistenza, come nella vita terrestre l'aver moglie e bambini, ciò che non è concesso a chi deve arrabattarsi giorno e notte senza potersi ancora assicurare il necessario alla vita. Nel mondo dello spirito è proprio questo il caso mio: perché io ho formato e formo me stesso solo per danzare agilmente  a servizio del pensiero, all'onore possibilmente di Dio e per mia propria soddisfazione, rinunciando alla felicità familiare e alla pubblica considerazione, alla communio bonorum, alla comunanza delle gioie che c'è nell'avere una opinione. E anche se ne avessi qualche ricompensa, anche se, come colui che serve all'altare, anch'io mangio di ciò che viene offerto sull'altare? (I Cor., 9, 13)… Questo riguarda me soltanto. Colui, cui io servo, è - per dirla col gergo degli uomini di finanza - di una consistenza garantita, ma si tratta di ben altra consistenza di quella che intendono i finanzieri. Se invece qualcuno fosse tanto cortese dal concedermi che anch'io abbia un'opinione, se costui spingesse la sua galanteria al punto da accettare per suo conto  quest'opinione per il fatto ch'essa era mia; mi dispiacerebbe e per la sua cortesia di essermi rivolto a un oggetto così indegno, e per la sua opinione se egli non avesse altra opinione che la mia. Io posso rischiare la vita, posso scherzare con tutta serietà con la mia vita - non con quella di un altro. È questa l'unica cosa ch'io posso fare per il pensiero, io che non ho un corso accademico da offrirgli, «appena il piccolo corso di lezioni a una dracma, per non dire di un corso grande a cinquanta dracme» (Cratilo). Non ho che la mia vita che io subito metto allo sbaraglio,  appena si profila una qualche difficoltà. La danza allora è facile; perché il pensiero della morte è un'abile ballerina, è questo la mia compagna di ballo, ogni altro uomo è per me troppo pesante; e perciò io prego, per deos obsecro: nessuno si rivolga a me, io non ballo.

 

A quanti desiderino approfondire questo argomento, ricordiamo il nostro precedente saggio: Il paradosso della fede: «Timore e tremore» di Kierkegaard, consultabile sempre sul sito di Arianna Editrice.