Full Global Jacket
di Roberto Zavaglia - 19/05/2008
G
lobalizzazione è una parolacon cui, da un decennio circa,
si tende a spiegare un
po’ tutto: dall’immigrazione alla fine
delle ideologie, passando per le crisi
finanziarie e le nuove forme di
devianza giovanile. Insomma, un termine
passe-partout per darsi una
ragione dei grandi cambiamenti del
panorama sociale senza almanaccare
più del necessario.
Se dal linguaggio comune passiamo
a quello degli specialisti, scopriamo
come ci siano differenti modi di
intendere la globalizzazione e che
vari studiosi di scienze sociali mettono
addirittura in dubbio la reale esistenza
di tale fenomeno.
In sintesi, la globalizzazione viene da
alcuni concepita come la condizione
in cui gli atti di soggetti sociali in
ambito locale producono conseguenze
significative in soggetti lontani;
altri mettono l’accento sulla compressione
spazio-temporale creata
dalla comunicazione elettronica che
diminuisce drasticamente distanze e
tempi.
C’è chi indica come elemento decisivo
la crescita dell’interdipendenza,
soprattutto di carattere economico,
ma anche politico, mentre altri ancora
sottolineano l’erosione dei confini
e delle frontiere geografiche.
Gli “scettici”, invece, credono che
quella in atto è solo una tendenza e
non di carattere irreversibile.
La globalizzazione avrebbe già conosciuto,
tra il 1890 e il 1914, una sua
“belle époque”, cui la Prima Guerra
Mondiale pose termine, spingendo il
sistema planetario verso nuove forme
di autarchia. Particolarmente significativa,
a nostro giudizio, è l’opinione
di quanti sostengono che l’aumento
dei fenomeni di interdipendenza può
durare fino a quando esiste una
potenza egemone che, in qualche
misura, tiene a bada gli interessi conflittuali
di tutti gli altri contendenti.
Attualmente, sono gli Stati Uniti a
esercitare questo ruolo che, però,
incomincia ad essere messo in discussione
dalle potenze emergenti.
Se l’egemonia politica, militare ed
economica di Washington dovesse,
un giorno, misurarsi con dei competitori
di pari dimensioni, le attuali
tendenze socio-economiche
potrebbero arrestarsi o
quantomeno rallentare.
Pur assumendo il concetto con
qualche precauzione, di globalizzazione
si può comunque
parlare soprattutto in campo
economico, se si pensa - ed è
solo uno dei dati significativi -
che le aziende multinazionali
controllano più del 20% della
produzione e oltre il 70% del
commercio mondiali.
Va però aggiunto che tale
situazione non è priva di una
sua peculiare connotazione
geografica, poiché le più
importanti multinazionali
sfruttano i vantaggi competitivi
dei propri sistemi nazionali per
conquistare i mercati stranieri.
È quindi da Occidente, soprattutto
dagli USA, che il sistema
economico viene indirizzato e
gestito.
Inoltre, gli Stati conservano
ancora un’autorità significativa
nel coordinare il Governo dell’economia
mondiale, per cui il
concetto di globalizzazione
può coesistere con quello di un
imperialismo dalla fisionomia
mutata rispetto alla sua declinazione
classica.
Oggi si addebita, non a torto,
alla globalizzazione il grave
problema dell’aumento dei
prezzi dei prodotti alimentari,
in particolare dei cereali. Il
costo del grano è raddoppiato
negli ultimi due anni e quello
del riso è cresciuto di tre quarti
rispetto all’anno passato. Sull’aumento
del prezzo del mais
pesa, in particolare, il suo progressivo
uso per la produzione
di biocarburanti. Oltre che per
ragioni economiche, tale utilizzo
viene giustificato anche in
termini ecologici, ma
pare ormai assodato
come la diminuzione
dei gas serra sia limitata
e, sotto questo aspetto,
la situazione peggiorerebbe
drasticamente
se, per sostituire
il petrolio, aumentasse
la quantità di terreni
coltivati rispetto a praterie
e foreste. Non
sarebbe un grande guadagno
per il pianeta,
poiché per riempire il
serbatoio di un Suv
occorre una quantità di
cereali sufficiente a
nutrire un uomo per un
anno intero.
Più in generale, sull’aumento
dei prezzi
dei cereali hanno pesato
i fattori climatici in Australia,
in Europa e in Argentina.
Decisivo è anche il cambiamento
della dieta di base nei
Paesi emergenti, con un maggiore
consumo di carne, grazie
all’aumentato potere di acquisto
di una parte della popolazione.
I cinesi, per esempio,
hanno consumato, nel 2005,
cinque volte più carne rispetto
al 1980. Se pensiamo che per
ottenere un chilo di carne bovina
servono oltre sei chili di
cereali, il doppio che per la
stessa quantità di pollame,
comprendiamo come la globalizzazione
del gusto abbia inciso
sull’aumento dei prezzi.
La crisi dei cereali colpisce,
ovviamente, i Paesi più
poveri, quelli in cui la
spesa alimentare è prevalente
su tutte le altre,
che hanno abbandonato
le agricolture tradizionali
per orientarsi alla
produzione diretta
all’esportazione. La
globalizzazione non è
arrivata agli stomaci,
dal momento che pure
la fascia più disagiata
delle famiglie statunitensi
spende per il cibo
il 16% del proprio budget,
mentre i vietnamiti
sono al 65% e i nigeriani
addirittura al
73%.
La situazione è drammatica
e potrebbe ulteriormente
peggiorare,
come ha riconosciuto il Presidente
della Banca Mondiale,
Robert Zoellick, il quale ha
dichiarato che ci sono 33
nazioni a rischio di conflitto
sociale e che nei Paesi in cui
l’alimentazione incide per oltre
il 50% della spesa la sopravvivenza
della popolazione è a
forte rischio.
Le carestie sono sempre esistite
e, in alcune zone del mondo,
si ripresentano ciclicamente,
ma le agricolture di sussistenza
dei Paesi più poveri erano in
grado di attutirne in parte gli
effetti e di provvedere al necessario
nei periodi di normalità.
Oggi, gli stessi Paesi si trovano
senza difese di fronte ai rialzi
dei mercati internazionali perché
non sono più in grado di
sfamarsi da soli.
A questa situazione, però, non
si è arrivati per una sorta di
automatismo economico mondiale,
come le interpretazioni
più ingenue, e autoconsolatorie,
della globalizzazione tendono
a indicare. Da tre decenni,
la Banca Mondiale, il FMI
e il WTO premono affinché i
Paesi del Terzo Mondo abbandonino
l’agricoltura tradizionale
per passare a colture intensive
di uno o pochi prodotti, il
cui ricavato è spesso gestito
dalle grandi corporation agroalimentari.
A un’infinità di sistemi
agricoli regionali si è così
venuto a sostituire un unico
sistema globale in cui ci sono
vincitori, le multinazionali del
settore con utili in ascesa, e
sconfitti, i morti per fame.
La gobalizzazione è solo in
parte un fenomeno “spontaneo”,
provocato dall’innovazione
tecnologica delle comunicazioni.
A guidarla vi sono
potenti centrali “ideologiche”
costituite dalle istituzioni economiche
internazionali, i cui
prestiti sono accompagnati da
diktat finalizzati a sovvertire i
sistemi sociali ed economici
dei Paesi verso i quali sono
diretti.
Sulla crisi dei cereali, poi, non
poteva mancare l’intervento
della finanza, con i fondi specializzati
che speculano al rialzo
attraverso i titoli derivati.
Sulla fame altrui, oggi più di
prima, è possibile costruire
delle fortune.