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Ti ho vista, quasi brutta, nella nebbia di una sera d'inverno

di Francesco Lamendola - 19/05/2008

Quando si è inchiodati a letto per delle settimane, tormentati da dolori fortissimi e con la sola vista  dello spicchio di cielo che entra dalla finestra, ce n'è di tempo per riflettere. Verrebbe da dire: anche più del necessario. Ma, naturalmente, il tempo per riflettere non è mai troppo; e tanto meno quando si nutre un interesse filosofico per la natura della vita umana.

E così, almeno nelle pause di quiete assicurate da massicce dosi di analgesici, quel rettangolo di cielo, con le foglie dei platani che stormiscono al vento di un maggio corrucciato e piovoso come fosse novembre, diviene una sorta giardino Zen per la meditazione personale, per il colloquio appassionato dell'anima con se stessa.

Accade anche, ogni tanto, che i pensieri prendano una piega imprevista e che se ne vadano a spasso per conto loro, proprio come vediamo nei sogni. Allora ci si trova proiettati nel bel mezzo di un paesaggio imprevisto e vien fatto di domandarsi come sia accaduto di arrivarci. Ci si chiede quale corso tortuoso di pensieri ci abbia sospinti a quella riva, come un fiume lento e pigro che s'avvicina alla foce senza fretta, indugiando in cento meandri ove si specchiano, lentamente ondeggiando, le canne palustri.

Quanto a me, tra quei pensieri vaganti in libertà, è tornata sovente la tua immagine, così come mi era apparsa in una sera, umida e fredda, dello scorso inverno.

 

Era ormai quasi l'imbrunire: quell'ora incerta in cui l'ultimo chiarore trascolora e si spegne, inghiottito dal graduale infittirsi delle tenebre; un triste tramonto cittadino, fra alti palazzi indifferenti, privo anche del magro conforto di qualche albero spoglio. E tu venivi avanti lungo il marciapiedi, chiusa nel giaccone bianco, con la testa avvolta nel cappuccio foderato di pelo che ti dava un'aria un po' eschimese, ma un po' anche di penitente del Purgatorio dantesco o, quanto meno, di qualche solitario convento medievale.

Ti vidi attraverso il parabrezza dell'automobile, mentre svoltavo in una via laterale e tu eri giunta quasi all'altezza dell'incrocio: figura alta e magra che procedevi solitaria sullo sfondo delle vetrine e delle auto dai fari già accesi. E non ho mai saputo, o capito, se mi avevi visto anche tu, quando fummo a non più di qualche metro di distanza. Del resto, è stata questione di un attimo, non più di due o tre secondi.

Rimasi colpito dall'espressione del tuo viso.

Forse era solo a causa del freddo, forse della stanchezza - stavi tornando dal lavoro, dopo una giornata faticosa; fatto sta che il tuo volto era quasi una maschera di sofferenza. Eri brutta, i muscoli contratti; e, quel che più mi fece impressione, avevi un'aria malamente trasognata, assente e dolorosa al tempo stesso. Pareva che una interna pena ti stesse scavando e tormentando; che un'angoscia indescrivibile si fosse posata sui tuoi pensieri, con le sue nere ali di pipistrello. E il tuo sguardo, solitamente così fresco e vivace, era peggio che spento: era appannato, velato, come trascinato da un fascino invincibile e sinistro verso il fondo a un pozzo oscuro.

Forse, ripeto, non era così; forse erano solo il freddo e la stanchezza; forse, addirittura, solo un gioco di luci, un effetto delle ombre della sera incipiente, che mi trassero in inganno. Eppure quel tuo viso mi colpì: così diverso da quello che ricordavo, da quello che ti è proprio. Un viso imbruttito, sofferente e quasi stravolto.

Mi è tornato più volte alla memoria, da quel giorno; ed è tornato a visitarmi anche ora, mentre spicca nella stanza il rettangolo grigio del cielo rigato dalla pioggia e, con esso, le grandi foglie dei platani che si agitano e si scuotono al vento, come anime senza pace.

 

Emanuel Lévinass sosteneva che la rivelazione più importante che la vita ci offre è, senza alcun dubbio, il volto dell'altro, mediante il quale l'io esce dalla sua illusoria autosufficienza e si apre alla dialettica col tu, alla capacità di formulare domande. Ogni volto è una domanda che ci interroga: e non lo fa con gli strumenti della ragione calcolante, ma con lo slancio del cuore e facendo appello alla nostra capacità di apertura, di dono e di amore.

Ora, se ogni volto è una domanda, qual era la domanda formulata da quel tuo volto imbacuccato nel pesante cappuccio di pelo, mentre a lunghi passi te ne tornai verso casa, in quella triste e vuota sera d'inverno, con la nebbiolina di febbraio che si condensava in una pioggerella fina e ghiacciata? A lungo me lo sono chiesto e, come vedi, me lo sto chiedendo ancora adesso, dopo che i mesi sono trascorsi e tante cose sono accadute - o non sono accadute.

Già: le cose non accadute. Avrebbe detto Kierkegaard che esse sono come pensieri che feriscono alle spalle: simili a un nemico insidioso, dal quale non si sa mai come poter difendersi.

Non saprei dire perché, ma se quel tuo volto corrucciato e teso era una domanda - e certamente lo era -, una indefinibile ma netta sensazione mi fa venire alla mente le cose che non accadono, le ore vuote della vita, e i giorni e gli anni; le delusioni, le attese, le amarezze, la solitudine.

Mi torna alla mente anche una bella e triste canzone di Luigi Tenco, Fra tanta gente (in realtà, composta da Salce e Morricone):

 

Io ti rivedo sempre

fra tanta gente

che ti sfiora, che ha voglia di te…

Tu non volevi, tu

cercavi qualcosa

che non hai, che nessuno ti dà.

Ora cammini sola

fra tanta gente

e non sai che io soffro per te.

 

Quel tuo volto scavato, impietrito nella squallida sera d'inverno, fra le case e le automobili che correvano veloci, continua ad interrogarmi senza perdere d'intensità.

Quanto diverso dal volto sereno col quale mi mostravi i tuoi libri, sullo scaffale della tua camera, solo qualche mese prima; o col quale mi sommergevi di complimenti, in mezzo ai tuoi colleghi, mettendomi decisamente in imbarazzo.

Se ogni volto è una rivelazione dell'altro, una domanda e un banco di prova della nostra capacità di apertura sul mondo, allora quel tuo volto imbruttito e infagottato non poteva non interrogarmi e non sollecitarmi a trovare una risposta entro me stesso. Forse ne portavo una responsabilità, e sia pure indiretta e involontaria; o forse no. Ma non è vero che il volto dell'altro, nel momento in cui ci si rivela - e mai si rivela più sinceramente che nella sofferenza - già solo per il fatto di interrogarci, presuppone una nostra responsabilità, o almeno un nostro coinvolgimento, nella domanda che pone e che cela un enigma abissale?

Guardare il volto dell'altro è come affacciarsi sull'orlo di un pozzo profondissimo, di cui non si può mai scorgere il fondo; è come udire un'eco che mai si spegne; è come accostare la mano a un gatto scontroso, che mai si lascia toccare, nemmeno per ricevere una carezza. E questo è vero al di là del fatto che, nella società odierna, quanto più il singolo individuo tende a scomparire nella massa anonima e quanto più l'anima tende a rattrappirsi sotto le raffiche gelate dell'esteriorità, i volti autentici divengono sempre più rari.

Il volto è la rivelazione della persona; laddove non c'è persona, non c'è neppure volto. Una pietra, un albero, la maggior parte degli animali non hanno volto; e anche gli animali che ce l'hanno, lo hanno in relazione all'uomo, come un cane o un cavallo affezionati al loro padrone. Ma il volto in senso stretto, è caratteristico della sola persona

Ai nostri giorni, tuttavia, in un mondo ove le persone stanno via via scomparendo, sostituite da manichini di uomini e donne che hanno solo l'apparenza di persone, anche i volti stanno cominciando a farsi sempre più rari, a scomparire. Al loro posto, si diffondono le maschere: maschere di ogni genere, di ogni forma e sfumatura: maschere create dalla tecnica - dalla cosmesi alla chirurgia, dall'abbronzatura artificiale alla tintura dei capelli - e perciò artefatte, lisce e senza età. Come distinguere, ormai, il volto delle diverse generazioni, delle diverse classi, delle diverse etnie? Come distinguere il volto della figlia da quello della madre; il volto del proletario da quello del ricco borghese; e perfino - vedi il caso di Michael Jackson - il volto del nero da quello del bianco?

Del resto, le rughe o il colore della pelle non sono altro che dettagli. Ciò che conta, nel volto, è lo sguardo: lì risiede - o meno - la consapevolezza della propria interiorità e della propria individualità. Perciò un volto sussiste, laddove brilla uno sguardo; ma dove non c'è sguardo, non c'è nemmeno volto, perché non c'è persona. E lo sguardo è altra cosa dal possesso di un paio d'occhi - magari con le iridi finte, per esibire un bel colore verde o azzurro, stile Hollywood. Lo sguardo è la profondità dell'anima che traluce dall'occhio - e non tutti ce l'hanno.

 

Forse per questo, o anche per questo, quel tuo volto angosciato e dilaniato mi aveva tanto colpito, quella sera.

Perché il tuo volto, di solito illuminato da uno sguardo intenso, allora mi apparve opaco e spento, come se la luce dello sguardo fosse tramontata nel precoce crepuscolo invernale. Non che lo sguardo se ne fosse andato: c'era ancora; ma appariva congelato e irriconoscibile, come se una catastrofe l'avesse inopinatamente sommerso.

Ecco, sì: pareva che il tuo sguardo fosse stato  travolto e sommerso da una forza rabbiosa, da una raffica di tempesta maligna. In altri termini, era un volto che chiamava e che gridava, disperatamente: che gridava aiuto, ma in perfetto silenzio.

Quel contrasto tra l'anima ferita e silenziosa, ed il terribile, assordante grido dello sguardo mi pareva racchiudere l'intera essenza della infelicità femminile: infelicità introversa, assai più di quella del maschio; e infelicità, sovente, stranamente inconsapevole. Mai nessuno è più infelice di colui che non sa di esserlo, o che non crede di esserlo fino al grado estremo: e l'infelicità della donna, non di rado, è di questa particolare specie. Non si sfoga, non erompe e non piagnucola; si congela e si pietrifica, come la sventurata Niobe che ha visto cader trafitti ai suoi piedi, uno dopo l'altro, tutti i suoi figli dalle saette spietate di  Apollo ed Artemide.

E tu, quella sera - il tuo volto, il tuo sguardo - tu parevi così: pietrificata da una infelicità senza nome, da un grido senza voce, da un pianto senza lacrime.

 

È strano, portarsi dentro il volto dell'altro significa vivere in compagnia di qualcuno che, forse, non c'è più; come portare un ritratto nel portafoglio, mentre la persona raffigurata è completamente cambiata o, addirittura, ha lasciato questo mondo.

Così, ci si può portare dietro l'immagine di un volto sofferente; ma che rapporto esiste, oggi, fra quel volto e la persona che lasciato di sé quella immagine?

Rivedo il tuo volto sprofondato nell'alto cappuccio da eschimese o da monaco penitente, un volto  livido nella sera nebbiosa: ma è poi quello il tuo volto, adesso, o è profondamente mutato, distendendosi nel rasserenamento e nella pace? Come la luce di una lontana stella che giunge a noi da infinite distanze di tempo, mentre forse quella stella ha cessato di esistere; così mi accompagna il ricordo di un volto la cui pena e tristezza appartengono forse al passato, come se ormai fossero di un'altra persona.

Tutto quello che so è che quel volto mi ha turbato, perché vi ho scorto, o quanto meno ho creduto di scorgervi, una cupa disperazione.

L'anima è disperata quando non si aspetta più nulla; la persona è disperata quando ha smesso di attendere di poter dare o ricevere amore.

Lo dice molto bene Gabriel Marcel (Etre et Avoir, Parigi, 1935, p. 117):

 

L'anima non esiste che per la speranza; la speranza è forse la stoffa stessa di cui è fattala nostra anima… Disperare di un essere, non è forse negarlo in quanto anima? Disperare di sé non è forse un suicidio in anticipo?

 

E ancora (in Homo viator, Aubier, Parigi, 1944, pp. 66-67):

 

Amare una creatura significa attendere da lei qualcosa d indefinibile, d'imprevedibile; ma nello stesso tempo significa darle in qualche modo il mezzo di rispondere a questa attesa. Sì, per quanto possa apparire paradossale, attendere è in qualche modo donare; ma l'inverso non è meno vero:  non attendere più significa contribuire a render sterile la creatura da cui non si attende più nulla, significa dunque privarla in certo modo, sottrarle in precedenza che altro esattamente, se non una possibilità di inventare o di creare? Tutto lascia credere che si può parlare di speranza soltanto laddove esiste questa mutua azione fra colui che dona e colui che riceve, questo scambio che è la caratteristica di ogni vita spirituale.

 

Perciò, cara amica, spero che la pianta della speranza sia sempre viva nella tua anima, così come l'apertura verso la vita, nel senso più ampio dell'espressione.

Non idealizzare troppo le persone (quella tua fissazione di chiamarmi Maestro!), e conserva sempre alta la stima e la fiducia in te stessa. Abbiamo tutti bisogno di perdonare e di essere perdonati; ma dobbiamo anche cercare di perdonare noi stessi.

Sbaglierò, ma quel tuo volto sofferente mi suggeriva l'idea che ti tormentassi per un senso di colpa o, forse, per un senso di vergogna. Se così fosse, ricorda che un'anima capace di provare vergogna è un'anima bella e pulita, niente affatto degna di disprezzo.

Noi tutti dovremmo bandire dal nostro animo la paura e lo scoraggiamento, che ci rendono cattivi giudici di noi stessi e del prossimo. Paura e scoraggiamento ci impediscono di valutare cose e persone per ciò che sono realmente: col pericolo di sopravvalutare ciò che non lo merita e di non prestare sufficiente attenzione a ciò che, invece, ne meriterebbe.

E poi, avanti.

Lasciamo che i nostri volti esprimano e rivelino il segreto della nostra anima. Solo così può crearsi un vero dialogo fra soggetti, ossia fra persone. Diversamente, non rimarrebbe altro che una terra desolata, popolata di individui avidi e frettolosi, che dissimulano i loro veri scopi e non vedono nell'altro un soggetto di pari dignità, ma una cosa da usare senza alcun riguardo.

 

E stai serena, cara amica.

Come diceva Thoreau: ce n'è, di giorno, che deve ancora sorgere!

La luce torna sempre a rinascere dal seno della notte, e sparge sul mondo l'infinita melodia del mondo.

Come le note sublimi di una musica di Bach; come l'ala leggera di una vela che prende il largo,  sospinta da venti amichevoli, in una cornice grandiosa di nuvole  bianche.