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Il pianeta può sopravvivere solo dandosi dei limiti

di Diego Barsotti - 21/05/2008

Tanto più che noi non “consumiamo” niente: ogni aumento dell’estrazione di materie dalla natura comporta un più che proporzionale aumento della massa delle scorie che intossicano l’ambiente e che finiscono per frenare la stessa crescita fisica
Uno dei quesiti chiave dell’economia mondiale dei prossimi 20 anni è quante riserve minerarie ci restano per soddisfare una domanda di cui non si vede un ragionevole limite che non sia proprio l’esistenza fisica ultima del bene. Soprattutto alla luce dei crescenti consumi mondiali, trainati da Cina e India.
E nonostante questo il dogma della crescita continua ad essere propugnato a tutti i livelli, da destra e da sinistra, in tutti i Paesi del mondo. Ieri il Sole 24 Ore dedicava una pagina ai tempi di esaurimento previsti per i diversi minerali, dai meno abbondanti (argento, zinco e piombo potrebbero finire nel giro di uan ventina d’anni) a quelli invece che agli attuali ritmi di estrazione sembrano poter durare ancora qualche secolo. Tuttavia lo studio di PricewaterCoopers mette bene in evidenza l’incessante trend di crescita dei consumi mondiali e di conseguenza delle estrazioni, che potrebbe accorciare di molti anni la disponibilità di singoli elementi.

Quanto può durare questo sistema? Lo abbiamo chiesto a Giorgio Nebbia, professore emerito, presso la Facoltà di Economia dell´Università di Bari. Si è occupato dei processi di trasformazione delle risorse naturali in merci, del carattere dei sottoprodotti e delle scorie dei processi di produzione e consumo e del loro nuovo destino nei corpi riceventi naturali.

«La vita, il progresso, le società – spiega Nebbia - sono tenuti in moto non dal denaro ma dalle materie prime e dalle merci, dalle “cose” fisiche. Il denaro serve solo a spostare frumento, petrolio, rame, lantanio, soia, eccetera, da un posto all’altro, dai campi o dalle miniere alla tavola o ai computer. Le società umane si sono dovute sempre confrontare con il problema della scarsità fisica di materie. Le società dell’antica Grecia sono declinate quando si sono esaurite le miniere di argento dell’Attica; l’impero romano è stato spazzato via dai “barbari” quando questi hanno visto esaurirsi i loro pascoli asiatici; i Maya sono scomparsi quando, a furia di tagliare la giungla, sono rimasti senza terra fertile; il Cile ha conosciuto la crisi quando si sono esaurite le miniere di salnitro; la Sicilia per l’esaurirsi delle miniere di zolfo; dal 1973 sono cominciate le crisi del petrolio, delle materie prime e dei prodotti agroalimentari: nel 1974 il giornale Economist scrisse “il potere alle materie prime e alle merci” --- “Commodity power” --- ed è vero ancora di più oggi. E le materie prime sono fisicamente finite quando sono estratte dal sottosuolo o dalle miniere, sono finite anche quelle agricole per l’impoverimento della fertilità dei suoli o il mancato reintegro delle foreste. Ogni volta la crisi è stata superata andando a cercare altre materie, più costose, con dolori per chi restava nella miseria e violenza contro chi deteneva altre materie: da una trappola merceologica all’altra.

Una crescita merceologica può durare, per molte materie, ancora; per alcune materie prime anche a lungo, ma con una crescente carica di violenza contro altri popoli e contro la natura. Di materie prime minerarie e agricole c’è crescente bisogno, ma le società umane potranno, a mio modesto parere, sopravvivere soltanto ponendo dei limiti alla massa di materia estratta dalla natura e quindi ai “consumi”. Tanto più che noi non “consumiamo” niente: ogni aumento dell’estrazione di materie dalla natura comporta un più che proporzionale aumento della massa delle scorie che intossicano l’ambiente e che finiscono per frenare la stessa crescita fisica».

L’argomento utilizzato dai sostenitori ad oltranza della crescita economica illimitata, anche di qualità, è che altrimenti non ci sarebbero risorse da ridistribuire e di ciò ne soffrirebbero i più deboli e i meno abbienti.

«Una minoranza, diciamo un terzo, dei terrestri, porta via dalla, e inquina la, natura per oltre la metà della massa dei materiali (vegetali, minerali, pietre, animali, carbone, petrolio, gas naturale, eccetera) in circolazione, dell’ordine di circa 40 miliardi di tonnellate all’anno. Ai due terzi restano i beni fisici commerciali in proporzione minore o molto minore, fino a valori di cibo, energia, acqua, per persona, appena sufficienti per la sopravvivenza.

A mio parere è indispensabile una limitazione di consumi e sprechi dei due terzi “ricchi” per rendere accessibile ai due terzi rimanenti i le materie e i beni fisici che assicurino una vita decente. Se non per motivi di carità o umanitari o di giustizia o solidarietà, almeno per motivi di sopravvivenza; se “i ricchi”, in termini di risorse e di inquinamento, continuano a far crescere la sottrazione delle risorse e l’inquinamento, “i poveri” si vendicheranno e spazzeranno via “i ricchi” o li costringeranno a vivere in uno stato di permanente terrore».


Mentre per l´energia, in rapporto al global warming, si va affermando la necessità di politiche (e pratiche) più sostenibili, sul versante della minimizzazione dei flussi di materia siamo quasi all´anno zero. Cosa ne pensa e cosa si può fare per cominciare a ragionare anche di risparmio di materia?

«A mio parere un’utile cosa sarebbe cercare dei nuovi indicatori del “valore”; un chilo di ferro (indipendentemente dal prezzo in euro) “vale di più” se è ottenuto con meno minerale e carbone (da cui il senso fisico del riciclo delle materie e merci usate); un chilo di tessuto vale di più se è ottenuto da fibre rinnovabili piuttosto che da fibre sintetiche derivate dal petrolio (scarso); nel gran disordine attuale qualche passo viene fatto, inconsciamente, in questa direzione. La case automobilistiche propagandano i loro veicoli promettendo che emetteranno, diciamo, meno di 140 grammi di anidride carbonica per chilometro; sono state costrette, cioè, davanti alla consapevolezza dell’effetto serra, a indicare che il “valore” dei loro veicoli è maggiore se inquinano “di meno”. Ai tempi della contestazione ecologica si usava dire “di meno è meglio”; l’egoismo e l’avidità dei commerci hanno cancellato questa posizione e con l’ideologia del “di più è meglio” --- più crescita, più PIL, più rifiuti, le società opulenti stanno scivolando verso una crisi dopo l’altra; quella dell’energia, quella dell’acqua, quella del cibo, quella del pattume, quella del clima».

In che modo pensa che sia possibile riconvertire l’economia in direzione della sostenibilità? Non ritiene che l’unica possibilità, oltre a governi responsabili localmente, sia una governance mondiale che operi in tal senso?

«Quando la comunità umana uscì dalla seconda guerra mondiale, dolorante e ferita, si rese conto che un governo mondiale avrebbe evitato future catastrofi militari, ma anche problemi di violenza commerciale e economica. Ne sono prove le agenzie delle Nazioni Unite per l’ambiente, le strutture urbane, l’acqua, i commerci e l’economia. Tutte queste sono fallite davanti all’egoismo e alla miopia dei pochi paesi ricchi e imperiali e davanti al dio “libera impresa”.

Eppure le crisi delle materie prime potrebbero proprio essere superate con accordi internazionali, per esempio con la standardizzazione delle merci e dei macchinari su modelli e soluzioni che assicurino minori consumi di materie prime vergini, di energia, di acqua, che producano una minore quantità di scorie.

Quando la comunità internazionale non ha potuto farne a meno, davanti ad uno spavento collettivo, qualche accordo i vari paesi hanno preso: la limitazione dei clorofluorocarburi che distruggono lo strato di ozono, delle missioni di anidride carbonica responsabile dei mutamenti climatici, eccetera, accordi spesso rimasti sulla carta perché le buone decisioni ecologiche dei ricchi sono state interpretate come strumenti di violenza e oppressione dei poveri. I ricchi sarebbero un po’ più credibili nel chiedere una limitazione delle emissioni di gas serra se commercializzassero automobili o centrali meno inquinanti, se diminuissero la produzione e lo spreco di elettricità da combustibili fossili.

Purtroppo è venuta meno la grande carica di contestazione, di speranza, profetica, degli anni sessanta e settanta del Novecento; lo stesso impegno delle chiese --- protestanti e cattoliche (si pensi all’enciclica Populorum progressio del 1967) --- per una revisione del concetto di progresso umano disaccoppiato dalla crescita merceologica. Forse l’attuale crisi energetica e ambientale farà nascere nuovi movimenti, forse nasceranno in Africa o in India o nell’America latina».