Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Libano: trincea per una nuova guerra fredda

Libano: trincea per una nuova guerra fredda

di Eugenio Roscini Vitali - 21/05/2008

L’esplosione di violenza che per cinque giorni ha travolto il Libano è solo un’altro capitolo della storia mediorientale, della civiltà post coloniale e del mondo arabo contemporaneo. Il bilancio degli scontri parla di 62 morti e più di 200 feriti, di un Libano profondamente diviso e della disarmante impotenza della comunità internazionale. Per oltre due anni i leader libanesi hanno palesemente trascurato i bisogni di una popolazione spaventata, afflitta e ferita; si sono ignorati ed insultati; si sono accusati vicendevolmente di essere agenti dell’una o dell’altra parte, uomini al servizio dell’Iran o di Israele; hanno fatto di tutto perché il Paese ristagnasse in una permanente condizione di crisi. Quello che ne è uscito fuori è un Libano ingovernabile, schiacciato dagli interessi stranieri, dalla pressione dei media e dall’ingerenza di soggetti pronti a trasformarlo in un vero e proprio terreno di scontro ideologico; come preannuncia il giornalista libanese Omar Hossino, il teatro di una nuova guerra fredda.

Nel 2001 Henry Kissinger descriveva il Medio Oriente come un mondo basato su conflitti etnico religiosi, un sistema politico che contrastava con il moderno concetto di stato e che in qualche modo preoccupava l’occidente. Questa tesi verranno avvalorate dalle drammatiche conseguenze dell’invasione americana in Iraq, un conflitto che ha frammentato e cambiato radicalmente gli equilibri dell’intera regione. L’azione militare non è stata infatti accompagnata da un’operazione politica altrettanto efficace e i vuoti lasciati dal crollo del regime iracheno sono stati immediatamente occupati da una miriade di gruppi estremisti che hanno diviso e lacerato definitivamente il Paese. E’ stata proprio l’assenza di un modello politico-istituzionale a creare le condizioni ideali affinché l’Iran riacquistate la sua influenza sulle fazioni sciite: l’Esercito del Mahdi, la milizia clerico-radicale fondata nel giugno 2003 da Muqtada al-Sadr per combattere le forze di occupazione in Iraq, e la milizia Badr, braccio armato del Consiglio Supremo per la Rivoluzione Islamica in Iraq, il partito sciita capeggiato da Abdul Aziz al-Hakim.

Grazie al peso strategico acquisito in questi anni,Teheran è riuscito ad allargare la sua sfera di influenza in Medio Oriente, riacquistando quel ruolo di primo piano che la Guerra Imposta, combattuta dal settembre 1980 all'agosto 1988 contro il regime di Saddam Hussein, sembrava aver compromesso. L’Iran è diventato determinante per le sorti del Libano e della Striscia di Gaza, ha rafforzato la sua alleanza con la Siria, ha aperto un intenso scambio commerciale con Russia e Cina, ha lanciato il progetto nucleare. Si è assistito alla nascita della “mezzaluna sciita”, l’arco che passando da Baghdad unisce Damasco a Teheran, l’asse strategico di cui parlava con preoccupazione il re di Giordania nel dicembre del 2004 e che Arabia Saudita e Kuwait vedono oggi come fonte di pericolo e instabilità per tutti i Paesi del Golfo Persico.

Nel mondo Arabo l’influenza iraniana, e con esse quella sciita, è sicuramente cresciuta dopo il 2006. La vittoria ottenuta da Hezbollah nella guerra contro Israele ha senato un punto di svolta fondamentale nei rapporti tra le due principali confessioni religiose musulmane. Il risentimento sunnita ha portato il Mufti saudita Hamid Ali al-Jabreen a lanciare una fatwa con ha quale veniva vietato di pregare Islamicamente per la vittoria sciita; sul piano politico la Casa Bianca ha invece sfruttato questo malessere per stringere, in cambio di sicurezza, un’alleanza militare con l’Arabia Saudita. Quest’anno Hezbollah ha consegnato nelle mani di Teheran un’altra vittoria, quella ottenuta nei giorni scorsi a Beirut, Tripoli, sui monti del Chouf e nella valle della Bekaa. Il ritiro delle milizie dalla zona occidentale della capitale e la riapertura dell’aeroporto internazionale e del porto sono infatti concessioni fatte in cambio della rinuncia del governo Seniora a contrastare le azioni politiche Hezbollah.

La stampa americana oggi parla di mappa mediorientale ridisegnata dalle vicende libanesi. Beirut diventa terreno di scontro politico ed ideologico dove si affrontano due diversi blocchi: da una parte Seniora e i filo occidentali sostenuti da Arabia Saudita ed Egitto, che a loro volta godono dell’appoggio di Usa, Francia e Israele; dall’altra Hezbollah, Iran e Siria che sfruttano i rapporti d’affari con Russia e Cina e godono della solidarietà dei Paesi filo venezelani. Vero è che la lotta interna al mondo arabo è iniziata da tempo: basti ricordare le 11 guardie rivoluzionarie uccise lo scorso anno dai ribelli del gruppo sunnita Jundallah nell’attentato di Zahedan; ai Pasdaran rapiti e alle molteplici azioni sferrate contro gli uomini dell’esercito iraniano che secondo Teheran ricondurrebbero alla pista pakistana e ai servizi segreti americani; alle attività sovversive perpetrate nelle province del Khuzestan, del Kurdistan e dell’Azerbaijan e nelle regioni di confine con l’Afghanistan, patria della minoranza sunnita iraniana.

Più che parlare di crisi libanese è opportuno quindi parlare di crisi mediorientale; una crisi dovuta principalmente alla politica estera americana che ha invaso l’Iraq e l’Afghanistan senza portare avanti una valida e costruttiva alternativa politica; ha provocato insicurezza e paura mettendo a repentaglio la vita dei civili sempre più soli alla mercé del terrorismo; ha sostenuto i governi israeliani di destra e ha condiviso i bombardamenti sul Libano ordinati da Ehud Olmert nel 2006 senza pensare alle conseguenze che avrebbe causato una guerra; ha attaccato gli ayatollah iraniani senza tenere in considerazione che questo avrebbe prodotto l’ascesa al potere di un ultraconservatore come Ahmadinejad.

Tornando all’ultima crisi libanese, i negoziati di pace che si stanno svolgendo in Qatar dovrebbero porre definitivamente fine al braccio di ferro che dura ormai da 18 mesi e che paralizza la vita istituzionale del Paese. Il piano di pace, patrocinato dalla Lega Araba, si basa su sei punti e prevede: l’impegno a non usare più le armi come strumento per ottenere risultati politici; l’avvio di trattative per concordare la formazione di un governo di unità nazionale; una nuova legge elettorale e la nomina del Presidente della repubblica, carica rimasta vacante dal novembre scorso nonostante 19 votazioni. La crisi è comunque lungi dall’essere risolta perché nonostante le dichiarazioni di Hezbollah, che vorrebbe chiudere la questione senza né vinti né vincitori, su chi ha perso il confronto non ci sono dubbio: Fuad Siniora e il blocco filo occidentale.

Sarà probabilmente Siniora il primo ad essere sacrificato come è ormai quasi certo che il nuovo capo dello stato sarà il generale Michel Suleiman. In molti riconoscono infatti che Suleiman ha saputo ancora una volta tenere l’esercito in una posizione di estrema neutralità, temporeggiato nei momenti di maggiore tensione per poi arrivare ad imporre la pace con la minacciare dell'uso delle armi. Per la sua nomina si dovrà però aspettare un accordo globale. Intanto, il leader di Hezbollah, Sayyed Hassan Nasrallah, alleato del cristiano maronita Michael Aoun, ex comandante dell’esercito e compagno d’armi di Suleiman, nonché primo ministro dal 1988 al 1990 di uno dei due governi che per due anni si sono spartiti il Libano, potrà sedersi al tavolo delle trattative da vincitore, o quasi.