La sinistra al cabaret dell’opposizione
di Stenio Solinas - 22/05/2008
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L’opposizione in Italia non la fa più nessuno, è bene che rimanga almeno la satira» ha dichiarato l’altro giorno a La Repubblica Antonio Cornacchione, uno che di professione non fa il politologo, ma il comico. La decadenza della sinistra in fondo nasce da qui, da quando ha cominciato a farsi dettare la linea da quelli del varietà e ha accettato l’idea che fa politica solo chi vince e a chi perde non resta altro che riderci sopra (o piangersi addosso, a seconda degli stati d’animo). È un atteggiamento curioso, legato però a un vizio congenito, quello che siccome governare può essere impopolare, perché implica delle decisioni e delle scelte, è preferibile farlo lottando comunque contro e scaricandosi di ogni responsabilità. Alla fine gli italiani hanno pensato che tanto valesse farne a meno. Sempre su Repubblica, e stando all’intellettuale francese Marc Lazar, la base sociologica della sinistra d’oggi in Italia «è ridotta a individui sulla cinquantina, che vivono nelle grandi città, hanno un alto livello di istruzione e lavorano nei settori pubblici». Fa un certo effetto pensare che quella che era una volta la forza popolare per eccellenza, la classe operaia e le masse, i lavoratori e la povera gente, adesso sia fatta di grand commis, dirigenti e dipendenti statali, professori universitari, quadri intermedi. Hanno perso per strada la gente, ma continuano a parlare e a comportarsi come se la rappresentassero. Forse dovrebbero cominciare a chiedersi quanto quella gente intanto sia cambiata, incalzata da nuove priorità, preoccupazioni, interessi, paure, cambiamento di status. Cornacchione è un bravo comico, Lazard uno stimato sociologo della politica. L’impasse della sinistra è tutto qui, aver smesso di interrogarsi su se stessa, di capire che cosa sia diventata, il continuare a credere che la salvezza stia nei guitti, detto nel senso alto del termine, e nei giullari. Per chi vuole guidare un cabaret può anche essere vero, ma per governare una nazione è un po’ poco. |