La distruzione invisibile
di Luca Ferrari - 23/01/2006
Fonte: peacereporter.net
Un documentario racconta la distruzione del patrimonio culturale in Kosovo |
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“La responsabilità di tutto questo è di quelli che stanno al potere. Ma non m’interessa la politica. Quello che m’importa è vivere dignitosamente. Cerchiamo di risollevarci con poco, anche guardando le foto di un tempo. È un modo per consolarci. A questa ci tengo molto. Era il mio collega, il mio più intimo amico. C’invitavamo a vicenda nelle nostre case, celebravamo insieme le feste religiose, ortodosse o musulmane che fossero, eravamo davvero inseparabili”.
Questo racconto è di un uomo albanese kosovaro che ricorda così Zoran, un suo vecchio amico serbo. “Era amato da tutti ed era rispettato. Non ha mai parlato male degli albanesi. Durante la guerra nessuno lo ha visto coinvolto in nulla, il problema era che al lavoro c’erano altri serbi e sono convinto siano stati loro a bruciarmi la casa. Avevo chiesto a Zoran d’indagare, mi aveva assicurato che l’avrebbe fatto ma non mi ha mai detto nulla. Ma poteva parlare? Per lui è pericoloso. Sono avvenute cose orribili, impossibili da dimenticare. Zoran non ha fatto niente di male. Però per colpa d’altri si è allontanato dai miei pensieri. La guerra ha distrutto la nostra amicizia”.
Questo è un estratto di uno dei quattro filmati che compongono il documentario La distruzione invisibile, un lavoro del giornalista della Rai Maurizio Crovato. La distruzione del titolo è quella del patrimonio culturale serbo-ortodosso in Kosovo, presentato recentemente presso il Centro Culturale Candiani di Mestre, alla presenza del sindaco di Venezia Massimo Cacciari e del prelato Gennadios Zervòs, Arcivescovo Metropolita Ortodosso d’Italia ed Esarca per l’Europa Meridionale. “Sradicare persone dalla loro terra, dalle loro memorie, dalla loro storia, è come ucciderli”, ha detto il sindaco di Venezia, “non è semplice comporre culture o etnie e questa composizione non avviene mai su una base politica, è una maturazione di coscienza. Il comprendersi fra culture, etnie diverse è un fatto personale, o diventa un fatto di formazione di persona e quindi non è sradicabile. Se invece è un fatto che deriva da leggi, norme, assetti istituzionali, può rompersi in ogni momento, quasi senza che nessuno se ne renda conto ed è difficilissimo capire anche il colpevole, la vittima, le responsabilità. La tragedia dei Balcani insegna questo”. Singoli, famiglie, popolazioni trascinate, loro malgrado, nella follia di predicatore o dittatore di turno, e così s’innesca l’odio e il “gioco tragico” è fatto. Qualcuno parla e gli altri agiscono. Amici che diventano nemici senza saperlo. Onesti lavoratori che hanno visto la propria vita trasformarsi in una gabbia. Qualcuno un giorno deciderà che il Kosovo sarà una nazione. O magari no. Qualcuno un giorno deciderà che albanesi e serbi sono amici. E qualcuno gli crederà. Ma il mondo non può essere una decisione di pochi senza interpellare i primi attori della vita,
Nel 1999 l’ONU ha concesso lo status di regione autonoma per il Kossovo, all’interno della federazione di Serbia e Montenegro. Solo 6 anni fa i serbi rappresentavano il 10 percento della popolazione kosovara, mentre oggi sono solo poche migliaia e per di più chiuse nei conventi o in miseri quartieri protetti dalle forze armate internazionali. Se un serbo va fuori dal seminato, è a rischio. Si nutrono approvigiandosi in negozietti, o producendo per sè. La gente che vive in Kosovo non ha un soldo, come racconta il documentario di Crovato, il quale sottolinea come “memorie antiche, recenti e contrapposte, retoriche etniche che riscrivono la storia incessantemente. Altri eserciti s’insediano su questa terra a garantire una pace precaria, insidiata da odi e rancori difficili da dimenticare una volta risvegliati dal passato remoto. Il ristorante distrutto ricorda che le differenze etniche sono macerie difficili da rimuovere. Peace-keeping è la strana non-guerra che si combatte qui, fatta di controlli, vigilanza, ma soprattutto di mediazioni sul campo, che spesso sfuggono alle diplomazie internazionali, lontane e sparse tra Bruxelles, Washington, e Mosca. Una non-guerra che si combatte con il colpo in canna e gli ambulatori militari pieni di civili locali che hanno bisogno di tutto, dalle diagnosi agli interventi chirurgici, alle medicine”.
Ma se è impossibile trascurare il fattore umano, non va dimenticato il lato culturale. La testimonianza del giornalista italiano racconta di luoghi sacri rasi al suolo, pericoloso campanaello d’allarme d’intolleranza. Basta la vista di un elemento cristiano e scatta qualcosa. “Negli ultimi mesi, 150, tra chiese, conventi ed edifici sacri sono stati distrutti o seriamente compromessi”, spiegava Crovato, “mentre prima del 1999, molte moschee erano state semi-distrutte”. Il Patriarcato di Peć, centro dei patriarchi serbi, è un complesso artistico di grandissimo valore del XIII-XIV secolo, ma contenente anche testimonianze dei secoli successivi. Si tramanda che sia stato fondato da San Sava, primo santo serbo. E si trova nella regione del Kosovo.
Incredibile testimonianza nel reportage, è la cerimonia di una giovane ragazza che prende i voti di monaca di clausura. L’evento, così com’è sottolineato anche dalla voce narrante, ha tutte le caratteristiche di un rito segreto, un cristianesimo dei primi tempi. Qui succede questo. In altri luoghi, l’opposto. Le immagini scorrono, chiese presidiate dai fucili come il Monastero di S. Arcangelo che per due volte, nel 1999 e nel 2003, ha rischiato di essere distrutto. La telecamera gira sulla volta bizantina di S. Apostoli con le storie del Nuovo Testamento e San Sava: affreschi di una tale bellezza da poter “sfidare in emozioni” anche la giottesca Cappella degli Scrovegni di Padova. Il Kosovo, il cui patrimonio artistico “sarebbe” tutelato dall’UNESCO, è un protettorato internazionale delle Nazioni Unite. Ma perché si sa così poco di ciò che succede e di ciò che possiede? Crovato ricorda le parole di un giornalista polacco: “quando si distrugge un albero e ci sono dieci telecamere che lo riprendono, lì è un fatto storico. Quando si taglia un milione di alberi in Amazzonia ma non c’è nessuna telecamera, il fatto storico è come se non ci fosse”.
La vita di esseri umani e della cultura s’intreccia in Kosovo. “La speranza è che qualcosa si muova nella giusta direzione”, commentava l’Arcivescovo Zervòs, “e si possano salvare innanzitutto gli esseri umani ed anche le testimonianze culturali. Ma se nulla dovesse succedere, resterebbe la testimonianza delle barbarie. La speranza è che si possa tornare a vivere con rispetto”.
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