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Il fallimento della strategia di Bush in Medio Oriente

di M. K. Bhadrakumar - 22/05/2008

Fonte: mirumir

 

 


"[I leader arabi] hanno smesso di prendere istruzioni dall'Islam e hanno deciso che la loro opzione strategica è la pace con Israele, dunque sia dannata la loro decisione" - Osama bin Laden, messaggio audio, 18 maggio.

Lo scorso martedì, mentre il presidente degli Stati Uniti George W. Bush partiva da Washington per un viaggio di cinque giorni in Medio Oriente, l'agenzia d'informazione semi-ufficiale iraniana Fars riferiva che il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad aveva alluso al fatto che Teheran potrebbe prendere in considerazione un taglio delle esportazioni petrolifere. Naturalmente il ministro del petrolio Gholamhossein Nozari ha chiarito subito che Teheran stava solo valutando le proprie esportazioni, e che anche in questo settore bisognava prendere delle decisioni in merito a un aumento o a una diminuzione.

Né Ahmadinejad né Nozari hanno detto che l'Iran stava rivedendo le esportazioni di petrolio in sé (che superano i 4,2 milioni di barili al giorno, il livello più alto dalla rivoluzione islamica del 1979). Ma i prezzi petroliferi statunitensi sono impazziti comunque, e mentre Bush atterrava nella regione del Golfo Persico hanno registrato il prezzo-record di 126 dollari al barile.

Ci si aspettava che Bush facesse pressione sull'OPEC perché organizzasse presto un incontro per concordare un aumento della produzione petrolifera (la prossima riunione dell'OPEC si terrà in settembre per decidere in merito alla questione). Stephen Hadley, il consigliere per la sicurezza nazionale, aveva dichiarato che Bush avrebbe detto al re saudita Abdullah che è nell'interesse dei paesi esportatori di petrolio “tener conto della salute economica dei clienti che pagano questi prezzi”. Quando si sono incontrati, venerdì, Bush ha scoperto che non c'era modo di persuadere il re saudita.

Nel frattempo Nozari era nuovamente sotto i riflettori. Ha dichiarato all'agenzia Fars: “Credo che non ci sia bisogno di una riunione [di emergenza] dell'OPEC. Perché dovrebbe esserci questa riunione quando i prezzi del petrolio salgono? I membri dell'OPEC stanno attualmente utilizzando tutta la loro capacità e stanno rifornendo il mercato... Con il petrolio a 126 dollari al barile non è saggio che coloro che hanno il petrolio non lo forniscano”. Nozari ha poi aggiunto di ritenere che “non è il petrolio che costa di più, è il dollaro che sta diventando meno caro”.

Cinque o sei anni fa sarebbe stato impensabile che un presidente statunitense in visita ricevesse un rifiuto così netto ed esplicito in Medio Oriente. I contatti della scorsa settimana hanno rivelato fino a che punto è giunto il declino del dominio statunitense in Medio Oriente durante l'attuale amministrazione Bush. Non c'è dubbio che il petrolio si trovi proprio al centro di questo declino. L'aumento vertiginoso del prezzo del petrolio ha portato a un enorme trasferimento di risorse ai paesi esportatori di petrolio. L'Iran ne è tra i principali beneficiari.

Il grande accumulo di ricchezza permette all'Iran di esercitare la propria influenza sulla regione e di far sì che gli Stati Uniti non possano fare praticamente niente per contrastarne l'ascesa. In un rapporto diffuso venerdì Goldman Sachs prevedeva che il prezzo del petrolio balzerà a 140 dollari al barile entro luglio. "La previsione a breve termine per i prezzi del petrolio continua a essere all'insegna del rialzo", ha detto Goldman. Gli investitori si stanno precipitando sul mercato petrolifero come riparo dalla caduta del dollaro. Il Wall Street Journal ha riferito che al momento gli iraniani possiedono circa 25 milioni di barili – circa il doppio delle importazioni giornaliere degli Stati Uniti – di greggio pesante in petroliere al largo del Golfo Persico.

Il ministro degli esteri russo Sergej Lavrov ha sottolineato le realtà del nuovo ordine regionale quando ha recentemente invitato le grandi potenze ad “avanzare proposte concrete che garantiscano la sicurezza dell'Iran e assicurino all'Iran un posto equo e onorevole in un dialogo teso a risolvere tutti i problemi del Vicino e Medio Oriente”.

Lavrov non è il solo a essere previdente. Anche gli esperti statunitensi si rendono conto della necessità di un nuovo atteggiamento verso il nucleare iraniano. Tutto questo, essenzialmente, riflette i limiti della potenza americana. Un importante esperto statunitense di questioni iraniane, Ray Takeyh, senior fellow all'influente Council on Foreign Relations, ha preso il toro per le corna quando ha recentemente suggerito che era ora che gli Stati Uniti “consentissero all'Iran di sviluppare una capacità di arricchimento di dimensioni considerevoli”, concentrandosi invece sui modi e i mezzi per far sì che entro i perimetri delle sue infrastrutture nucleari non si svolgessero “attività infauste”.

Come ha scritto Takeyh la scorsa settimana, proprio mentre Bush si trovava dalle parti dell'Iran, “L'Iran ha un apparato nucleare complesso e sta arricchendo uranio. Impossibile riportare indietro le lancette dell'orologio. Invece di resuscitare un pacchetto di incentivi respinto molto tempo fa dall'Iran o invocare punizioni militari che non preoccupano nessuno nella gerarchia del paese, gli Stati Uniti e i loro alleati europei farebbero meglio a negoziare un accordo che esaudisse almeno alcune delle loro richieste”.

È vero: la proliferazione nucleare e il petrolio sono una pericolosa accoppiata. Ma non sono che una faccia del fallimento della strategia dell'amministrazione Bush riguardo all'Iran. Il crollo è assoluto. Durante il suo viaggio, Bush ha cercato continuamente consensi per la sua strategia di contenimento nei confronti dell'Iran. I vicini arabi dell'Iraq si rifiutano di farsi coinvolgere nel caos di quel paese nonostante si lamentino che l'influenza iraniana in Iraq ha raggiunto un livello intollerabile. Non permetteranno che l'amministrazione Bush li recluti in vista di uno scontro con l'Iran. Mentre criticano in privato l'Iran con i loro interlocutori americani e sollecitano contromisure statunitensi, stanno in realtà valutando pro e contro, mettendo in conto il fatto che il prossimo presidente degli Stati Uniti potrebbe anche impegnarsi in un dialogo incondizionato con l'Iran.

I fatti del Libano hanno ulteriormente messo in luce il fatto che l'amministrazione Bush non ha un piano. Se si deve credere alla newsletter di Washington Counterpunch, un intervento israeliano già programmato (con il consenso degli Stati Uniti) in Libano durante i recenti scontri è stato rinviato all'ultimo minuto perché secondo informazioni di intelligence la rappresaglia di Hezbollah sarebbe stata molto pesante. Secondo i servizi statunitensi, Tel Aviv sarebbe stata bersagliata da “circa 600 razzi di Hezbollah nelle prime 24 ore della rappresaglia”.

Secondo Counterpunch l'amministrazione Bush si sarebbe tirata indietro dopo aver dato “inizialmente il via libera” ai piani d'attacco militare di Israele al fianco delle milizie appoggiate dagli Stati Uniti. “La sconfitta delle milizie da parte di Hezbollah a Beirut Ovest e il timore di rappresaglie contro Tel Aviv hanno costretto a cancellare l'attacco israeliano”.

Non sorprende che tra i signori della guerra libanesi ci siano molta rabbia e amarezza per essere stati abbandonati dall'amministrazione Bush. Il primo ministro Fuad al-Siniora voleva dimettersi e i sauditi hanno dovuto convincerlo a non farlo. Il risultato è evidente a tutti. L'equilibrio politico si è spostato a favore di Hezbollah e le milizie filo-occidentali sono state umiliate. Ma soprattutto si è formata un'improbabile alleanza tra Hezbollah e l'esercito libanese (che l'amministrazione Bush ha finanziato con ben 400 milioni di dollari negli ultimi due anni).

Le conseguenze nella regione sono altrettanto importanti. L'Arabia Saudita e l'Egitto sostengono gli sforzi di mediazione della Lega Araba, prendendo le distanze dalla denuncia statunitense di Iran e Siria. I due pesi massimi arabi sarebbero a disagio per la lunga ombra dell'influenza iraniana sul Libano, ma sanno anche che l'Iran è una potenza regionale con cui venire a patti.

Per citare il noto autore britannico ed esperto di Medio Oriente Patrick Seale, “Gli stati arabi del Golfo hanno vivaci scambi commerciali con l'Iran e accolgono una vasta popolazione iraniana. Non vogliono isolare l'Iran o minare la sua economia come sarebbe nei desideri di Israele e Stati Uniti. Appare chiaro che una maggiore comprensione e fiducia tra Arabia Saudita ed Egitto da una parte e Iran e Siria dall'altra – senza il peso delle interferenze di Stati Uniti e Israele – farebbero molto per facilitare il percorso del Libano verso la pace e la sicurezza”.

Riassumendo, l'amministrazione Bush non ha un Piano B neanche per il Libano. La mediazione della Lega Araba ha ignorato freddamente il desiderio di Washington di portare la questione del Libano al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e di mettere alla gogna la Siria e l'Iran. Alle autorità statunitensi non è restato che continuare a manifestare scetticismo sulla prospettiva dei colloqui intralibanesi che si terranno a Doha sotto gli auspici della Lega Araba.

Comunque il fallimento degli Stati Uniti nel contrastare l'influenza siriana e iraniana in Libano impallidisce se confrontato con quello del “processo di pace” arabo-israeliano. Quest'ultimo incombeva come un uccello del malaugurio sul tour in Medio Oriente di Bush. La credibilità del presidente palestinese Mahmoud Abbas ha sofferto gravi colpi; Fatah è stata eliminata da Gaza; Hamas sta guadagnando terreno in Cisgiordania dopo il consolidamento a Gaza. E così nessuno ha raccolto le parole di Bush quando venerdì ha detto davanti a un uditorio arabo a Sharm el-Sheikh, in Egitto: “Tutte le nazioni della regione devono unirsi compatte nell'affrontare Hamas, che tenta di minare gli sforzi per la pace con continui atti di terrorismo e di violenza”.

Gli arabi sapevano che comunque la retorica anti-Hamas di Bush ha qualcosa di falso. Solo due giorni prima Hamas aveva annunciato che lunedì avrebbe mandato in Egitto una delegazione per una nuova serie di colloqui con i mediatori. Domenica il quotidiano israeliano Ha'aretz ha riferito che vari ex ufficiali della sicurezza e dell'esercito israeliani – compreso l'ex-capo del Mossad Ephraim Halevi, l'ex-capo dell'esercito Amnon Lipkin-Shahak e l'ex-comandante delle truppe israeliane a Gaza, Shmuel Zakai – un mese fa hanno scritto il governo per sollecitare colloqui indiretti con Hamas e per esprimere opposizione a un attacco militare su vasta scala contro Gaza.

Hanno scritto: “Riconoscendo che la fine del regime di Hamas a Gaza non è un obiettivo realistico e che la restaurazione di Fatah nella Striscia di Gaza per mezzo delle baionette israeliane non è auspicabile... dovrebbero svolgersi negoziati non pubblici con Hamas attraverso l'Egitto o un altro mediatore accettabile per entrambe le parti”.

Durante il viaggio in Medio Oriente di Bush ciò che a tratti emerge è questo senso tangibile che gli Stati Uniti siano stati completamente emarginati dal nuovo Medio Oriente che sta prendendo forma. La retorica di Bush non è riuscita a nascondere il fatto che neanche aggiungendo 300 milioni di americani a 7 milioni di israeliani è riuscito a confutare l'erosione della supremazia di Israele nella regione.

In un recente brillante articolo, l'ex ministro degli esteri tedesco Joschka Fischer ha sottolineato che il centro di gravità del potere e della politica regionale in seguito alla guerra in Iraq si è spostato verso il Golfo Persico. Per citare Fischer, “Ora è davvero praticamente impossibile mettere in pratica una qualsiasi soluzione al conflitto tra Israele e Palestina senza l'Iran e i suoi alleati locali, Hezbollah nel Libano e Hamas in Palestina”.

Il fatto è che il fallimento storico della guerra in Iraq dev'essere ancora compreso appieno. Su un piano regionale, mentre la guerra in Iraq si trascina interminabile, la situazione è gravida delle immense conseguenze dello stravolgimento dell'intero sistema di stati creato dopo la caduta dell'Impero Ottomano nel 1918. La guerra in Iraq ha innescato il potenziamento degli sciiti e ha liberato forze storiche che erano incatenate da secoli. Il suo significato geopolitico va ancora assimilato, mentre tutta la regione è spazzata dai venti del cambiamento.

Fischer ha sottolineato che la guerra in Iraq ha messo fine per sempre al nazionalismo secolare arabo, che era – storicamente parlando – di ispirazione europea. Al suo posto è comparso l'Islam politico, che coltiva il nazionalismo “anti-occidentale” e fa leva su problemi sociali, economici e culturali per affrontare con impeto rivoluzionario regimi autoritari, corrotti, ingiusti e privi di legittimità popolare. Gli islamici stanno pilotando questa tendenza alla “modernizzazione”, mentre il futuro dell'Islam politico è lungi dall'essere chiaro.

Anche la Cina ha fatto la sua comparsa sullo scacchiere mediorientale, e questo renderà il declino del dominio statunitense nella regione sempre difficilmente arrestabile. Curiosamente, alla vigilia dell'arrivo di Bush in Medio Oriente, un importante studioso cinese, Weiming Zhao, professore all'Istituto di studi sul Medio Oriente dell'Università internazionale di Shanghai scriveva: “La Cina ha un significativo interesse per il Medio Oriente, e qualsiasi cambiamento della situazione in quella regione influirà sulla sicurezza energetica della Cina... Per molto tempo dunque l'atteggiamento fondamentale della diplomazia cinese sarà caratterizzato da una maggiore attenzione per lo sviluppo della situazione in Medio Oriente, da una maggiore preoccupazione per gli affari mediorientali e dalla volontà di instaurare relazioni più strette con i paesi mediorientali”.

Il viaggio di Bush ha rivelato che gli Stati Uniti non hanno una strategia per il Medio Oriente con la quale affrontare queste molteplici forze. Sembra che l'amministrazione Bush si limitasse a fingere di averne una. Una sfida formidabile attende il prossimo presidente degli Stati Uniti.

M. K. Bhadrakumar è stato diplomatico di carriera nell'Indian Foreign Service per più di 29 anni. Tra i suoi incarichi, quello di ambasciatore in Uzbekistan (1996-98) e in Turchia (1998-2001).

Originale: http://www.atimes.com/atimes/Middle_East/JE21Ak02.html