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L'impero dei bananeros

di Raffaele Ragni - 23/05/2008

 

Lotta sindacale: l'impero dei bananeros


Un altro delitto, nel mondo dei bananeros, sembra destinato a restare impunito. Agli inizi di marzo, in Guatemala, è stato ucciso Miguel Ángel Ramírez, fondatore del sindacato Sitrabansur, che riunisce i lavoratori della Frutera Internacional Sociedad Anónima, una delle tante aziende che producono banane per Chiquita Brands International. Nei mesi precedenti, altri membri dello stesso sindacato erano stati minacciati, aggrediti, licenziati, mentre la figlia del segretario generale veniva addirittura violentata da un gruppo di uomini armati. Ucciso anche il leader del Sitrabi, un altro sindacato che difende i diritti dei lavoratori delle piantagioni, malgrado il presidente guatemalteco Álvaro Colóm avesse garantito un maggiore impegno delle autorità a punire i responsabili e i mandanti delle continue intimidazioni ai danni dalla forza lavoro del settore bananiero.
La banana è la quarta coltura alimentare del pianeta, per ordine d’importanza, dopo riso, grano e mais. La produzione mondiale, concentrata nelle aree equatoriali, ammonta a circa 70 milioni di tonnellate annue, in buona parte consumate a livello locale e solo per un 20% immesse sul mercato globale. I principali Paesi produttori sono l’India e il Brasile, che insieme detengono oltre un terzo della produzione complessiva. L’Uganda è l’unico Paese che coltiva banane destinate solo al mercato interno. L’Ecuador è il principale Paese esportatore, con una quota del 30% del mercato internazionale. Procedendo per aree continentali, l’America Latina rappresenta l’80% dell’offerta totale di banane, mentre la maggior parte della domanda proviene dai Paesi della Triade (USA, Europa, Giappone), che assorbono quasi il 60% delle importazioni mondiali.
È un settore a struttura oligopolistica. Dominano 5 multinazionali, con le seguenti quote di mercato: Dole Food (25%), Chiquita Brands Internationals (25%), Fresh Del Monte Produce (15%), Exportadora Bananera Noboa (9%), Fyffes (6%). L’incidenza delle multinazionali varia notevolmente da Paese a Paese. In generale hanno un controllo diretto delle coltivazioni in America Latina. In Africa ed Asia l’intervento è indiretto, e avviene prevalentemente tramite joint ventures. Producono e commercializzano vari tipi di frutta, fresca e secca, oltre che ortaggi e derivati, tipo succhi, gelati ed ingredienti vari per alimenti. Chiquita ha la maggiore percentuale di fatturato imputabile alle banane (43% nel 2007). Dole diversifica in fiori, in gran parte coltivati in Colombia e venduti negli USA.
Ogni multinazionale è titolare di numerosi marchi e controlla altre aziende agroalimentari. Tre di esse hanno sede legale negli USA. Dole è interamente controllata dal magnate cosmopolita David H.Murdock, il cui patrimonio è stimato da Forbes magazine a 4,7 miliardi di dollari. Le altre due - Chiquita e Del Monte - sebbene siano concorrenti, rivelano significativi intrecci di interessi. Tra i primi 15 investitori istituzionali di ciascuna, figurano 3 società - riconducibili a grandi holding del settore bancario - che sono azioniste di entrambe: Barclays Global Investors, Goldman Sachs Asset Management, Deutsche Asset Management Americas. Infine, nel ruolo d’inseguitori, troviamo l’ecuadoregna Noboa, che fa parte di un gruppo di ben 110 imprese di proprietà dell’omonima famiglia, e l’irlandese Fyffes, controllata dalla famiglia McCann.
La produzione bananiera è caratterizzata da una spiccata dualità. Sul continente sudamericano prevalgono le grandi piantagioni che, grazie alle economie di scala, raggiungono alti livelli di produttività (40-60 tonnellate per ettaro). Nelle aree caraibiche, dove non esistono terreni particolarmente estesi, è maggiore la presenza di piccole coltivazioni meno produttive (25 tonnellate per ettaro). L’estensione delle terre coltivate, più che gli aumenti di produttività, hanno determinato un aumento dei volumi di produzione, dai 30 milioni di tonnellate annue degli anni sessanta, ai 70 attuali. Nello stesso periodo, il prezzo è diminuito ad una media dello 0,25% annuo, rispetto al calo del 1,3% registrato dall’indice delle commodities costruito dal Fondo Monetario Internazionale (FMI). Il problema non è tanto la diminuzione tendenziale, quanto l’estrema volatilità del prezzo. Generalmente stabile fino ai primi anni novanta, quando il picco ha addirittura superato i valori del 1970, è crollato del decennio successivo, con una breve ripresa agli inizi del secolo, per poi calare di nuovo e tornare recentemente a salire.
Esiste una volatilità del prezzo strutturale, dovuta alle condizioni climatiche, ed una volatilità imputabile alla speculazione sul mercato a termine. Il crollo dei prezzi negli anni novanta è dovuto ad un eccesso di offerta, dal momento che i coltivatori, prevedendo una crescente liberalizzazione del mercato europeo e l’apertura dei Paesi a precedente regime comunista, avevano aumentato la produzione senza realizzare l’atteso incremento delle vendite. Altri effetti distorsivi sono derivati dai processi di concentrazione in atto nella distribuzione, all’ingrosso e al dettaglio, sui mercati di destinazione. Si consideri che la quota di mercato dei primi 5 distributori nei Paesi europei è passata dal 13% del 1990 al 26% del 2000, mentre la quota dei primi 4 distributori negli USA è passata dal 17% nel 1987 al 27% nel 2000. Come generalmente accade, quando calano le vendite ed aumentano i costi di distribuzione, le multinazionali cercano di recuperare margini di profitto riducendo i costi di produzione, in particolare i salari dei lavoratori e le spese imposte dalle leggi a difesa dell’ambiente.
Il business delle banane riassume i mali dello sfruttamento globale: è un oligopolio, opprime i lavoratori, produce danni rilevanti all’ambiente. Il frutto è molto vulnerabile ed è esposto ad ogni genere di malattie. Non appena il casco di banane accenna a svilupparsi sulla pianta, viene racchiuso in un sacco di plastica, generalmente impregnato di sostanze chimiche: pesticidi, funghicidi, fertilizzanti. È lì dentro che cresce il frutto. I sacchi utilizzati vengono lasciati a terra, oppure ammucchiati e dispersi nell’ambiente. I residui dei veleni penetrano nel terreno, ad una media di 30 kg annui di sostanze nocive disperse per ogni ettaro, ed inquinano le falde acquifere. Talvolta i sacchi, che sono fatti di materiali non facilmente decomponibili, vengono gettati in mare, dove assumono le sembianze di grandi alghe. In Costa Rica hanno fatto strage di testuggini marine, e distrutto circa il 90% della barriera corallina.
Le piantagioni vengono regolarmente irrorate da piccoli aeroplani, che talvolta spargono i disinfestanti mentre gli operai sono impegnati nei campi. Tra i lavoratori sono frequenti malattie tumorali, mentre l’utilizzo del micidiale pesticida Dbcp determina problemi di sterilità in coloro che ne vengono a contatto. Malgrado gli accordi internazionali, e le norme vigenti nei Paesi importatori, vietino insetticidi e pesticidi particolarmente dannosi, le multinazionali incorrono in frequenti violazioni. In un solo anno, in Nicaragua sono stati censiti 4.200 braccianti colpiti dagli effetti devastanti del prodotto antiparassitario Nemagon, mentre in Costa Rica ci sono state otto nuove denunce. Per esempio, Dole è stata accusata di utilizzare sostanze chimiche dannose attraverso fumigazione aerea con 54-56 cicli mensili.
Nella maggioranza dei casi i lavoratori non conoscono i rischi che corrono, oppure tacciono per non perdere il loro precario impiego. Nelle piantagioni di banane si lavora a giornata, senza contratto, senza assicurazioni di infortuni e malattie, senza ferie o diritti pensionistici. I livelli salariali minimi, previsti dalla leggi in vigore, non vengono quasi mai rispettati. Le donne, a parità di orario, ricevono un salario più basso perché le mansioni loro attribuite sono considerate meno faticose di quelle svolte dagli uomini. Impegnate, per almeno 10 ore al giorno, con il lavaggio, la cernita, l’applicazione di adesivi e il confezionamento delle banane, soffrono di riniti, oftalmie, dermatosi, che degenerano spesso in tumori della pelle. Per combattere i tentativi da parte della forza lavoro di organizzarsi in sindacati, il capitale ricorre, sempre più spesso, alla più temuta delle rappresaglie, l’abbandono della piantagione, condannando alla fame centinaia di persone da un giorno all’altro.
L’esigenza di contenere i costi di produzione, spinge le grandi multinazionali - come avviene in altri settori globalizzati, ad esempio nel tessile - a dare in outsoucing la coltivazione di banane, scaricando così sui produttori locali sia il rischio sempre più frequente di cattivi raccolti derivanti dai cambiamenti climatici indotti dal riscaldamento globale del pianeta, sia le accuse rivolte da sindacati ed organizzazioni internazionali circa il mancato rispetto degli standard lavorativi e dei diritti umani all’interno delle piantagioni. Attualmente le multinazionali più coinvolte nella produzione sono Dole e Del Monte, con oltre la metà delle banane esportate derivanti da piantagioni proprie. La tendenza è di concentrarsi su attività a maggiore valore aggiunto, cioè l’esportazione e la distribuzione. Ad esempio, in Costa Rica le multinazionali coltivano direttamente meno della metà della produzione bananiera totale, ma controllano l’84% delle esportazioni. In Nicaragua, pur non possedendo direttamente piantagioni, Chiquita gestisce quasi per intero le esportazioni di banane del Paese. Nonostante l’aumento dei costi di spedizione - dovuti soprattutto al balzo subito nel 2007 dall’IFO380, il principale carburante usato nei trasporti via mare - gli affari vanno bene, quasi per tutti i bananeros. Nel primo quadrimestre del 2008, il margine di profitto netto è cresciuto del 2,49% per Chiquita e del 7,11% per Del Monte. Nel 2007 hanno fatturato rispettivamente 4.663 e 3.365 milioni di dollari, con un incremento di valore delle azioni del 51% per Chiquita e del 79% per Del Monte. Più critica, e meno trasparente, appare la situazione di Dole. Nel 2003 David H.Murdock rilevò le azioni di altri investitori emettendo obbligazioni per un valore complessivo di 1,6 miliardi di dollari. Lo scorso febbraio, per pagare i debiti - in particolare 350 milioni di dollari in scadenza nel 2009 - ha iniziato a raccogliere liquidità vendendo a Chiquita 2.000 acri di terreno alle Hawaii, per un valore di 39 milioni di dollari, e si appresta ora a vendere altri terreni in California, per un valore complessivo di 76 milioni di dollari. Purtroppo per il povero Murdock, ad aprile, nelle Filippine, i guerriglieri nazionalcomunisti hanno attaccato e distrutto 27.500 acri di piantagioni di banane.
Accusate di violare sistematicamente le norme sancite dall’International Labour Organization (ILO) - l’agenzia specializzata dell’ONU che si occupa di promuovere la giustizia sociale e i diritti umani, con particolare riferimento a quelli riguardanti il lavoro - le grandi multinazionali del settore bananiero hanno reagito cominciando a collezionare certificazioni di qualità e attestati di eticità rilasciati da organismi privati, apparentemente indipendenti ma in realtà ad esse collegati. Valga un solo esempio. Nel 2004 il settimanale Gdoweek, rivolto agli operatori della grande distribuzione italiana, ha assegnato a Chiquita l’Ethic Award della categoria Personale e processi interni, per l’impegno rivolto a superare le criticità del passato attraverso diversi interventi strutturali, con particolare riferimento alla certificazione SA8000 - sigla che significa Social Accountability - ricevuta da alcune sue piantagioni in Costa Rica, Colombia e Panama. Il premio è stato organizzato in collaborazione con Kpmg Consulting Business Advisory Services, nota azienda di consulenza e revisione contabile. Due società azioniste di Kpmg Consulting - Fidelity Management & Research e Putnam Investment Management - sono tra le principali azioniste anche di Chiquita.