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Mitologia dello sviluppo neoimperialista

di Raffaele Ragni - 23/05/2008

 



Nella seconda metà del XIX secolo, con le teorie evoluzioniste di Charles Darwin ed Herbert Spencer, si diffonde nell’immaginario collettivo la presunzione di superiorità della civiltà occidentale. Sul piano teorico, l’idea che non esistono popoli diversi ma popoli più o meno evoluti, consente di conciliare l’evidente disuguaglianza delle razze con l’asserita unità del genere umano. Sul piano geopolitico questa idea legittima la colonizzazione dei continenti extraeuropei.
Definendosi precursore di una storia comune a tutta l’umanità, l’Occidente può considerare l’oppressione di altri popoli come un’impresa generosa, finalizzata a far progredire sul cammino della civiltà altre società momentaneamente arretrate.
La credenza in uno sviluppo ineluttabile e naturale di tutte le civiltà, impedisce di considerarle in se stesse, con le loro peculiarità, per giudicarle solo in rapporto al modello occidentale. Il rispetto delle identità culturali altrui è soltanto apparente, giacché la diversità è considerata provvisoria. Le società inferiori si trovano private sia della loro storia, che è ridotta all’imitazione dell’epopea occidentale, sia della loro cultura, che viene lasciata sopravvivere allo stato residuale sotto forma di vestigia destinate a scomparire.
Nella seconda metà del XX secolo, terminato l’immane conflitto generato dalle contraddizioni interne al blocco imperialista, per identificare il sistema di dominazione indiretta imposto ai Paesi industrialmente arretrati di nuova indipendenza, entra in uso il termine neoimperialismo. Rispetto all’imperialismo, oltre che una progressione epocale, esiste una differenza di paradigma. Ciò significa, per tutti i popoli oppressi, che lo sfruttamento occidentale continua in forme politicamente nuove e con giustificazioni diverse.
Tra la civiltà portata dalle nazioni imperialiste e lo sviluppo indotto dai Paesi neoimperialisti esiste un’idea cerniera, che ha trovato attuazione tra le due guerre mondiali attraverso il sistema dei mandati istituito dalla Società delle Nazioni, l’antenata dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU). Gli articoli 22 e 23 del Patto della Società delle Nazioni, che precede il Trattato di Versailles (1919), introduce la nozione di grado di sviluppo per classificare i possedimenti da sottrarre agli Stati sconfitti nella prima guerra mondiale e da attribuire alle potenze coloniali. Queste sono tenute a riferire sul loro operato alla Commissione Permanente dei Mandati, organo della Società delle Nazioni. Comincia così a delinearsi il cambio di paradigma rispetto all’imperialismo ottocentesco, destinato ad imporsi nella seconda metà del secolo XX. La colonizzazione cessa di essere un dovere morale che incombe sulle razze superiori, tenute a condividere con le razze inferiori i benefici del progresso scientifico ed economico. Il possesso dei territori d’oltremare non può ridursi ad una questione di prestigio internazionale, soltanto per sedere al tavolo delle grandi potenze. Lo spirito di conquista non deve più servire a rivitalizzare le virtù guerriere della stirpe per combattere la decadenza morale. Fermo restando che la crescita continua della produzione e l’accumulazione di capitale esigono nuovi sbocchi, tanto più necessari quanto più si acuisce il conflitto competitivo, l’espansione coloniale trova una giustificazione nuova: il benessere materiale e morale dei popoli sottomessi diventa una missione sacra, di carattere filantropico ed universale, attuata sotto la sorveglianza di un’organizzazione internazionale.
Fino alla seconda guerra mondiale l’idea di progresso che viene imposta all’umanità è ancora considerata un patrimonio comune degli Stati europei. Nel vecchio continente si continua a chiamarla civiltà, ma ha già i contenuti dello sviluppo. La sua compiuta formulazione, sia teorica che operativa, necessita ancora dell’apporto americano. Spetta al presidente Harry Spencer Truman - lo stesso che decide di sganciare la bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki - il privilegio di introdurre, nel lessico dell’economia e della politica internazionale, la divisione del mondo tra Paesi sviluppati e sottosviluppati. Nel tradizionale discorso sullo stato dell’Unione (1949) egli indica il sistema liberalcapitalista come modello di riferimento per tutti i popoli della terra ed impegna gli Usa ad aiutare la crescita delle regioni economicamente arretrate.
Istituite le prime organizzazioni internazionali, orientate a favorire la crescita economica delle aree depresse del mercato mondiale, serve il contributo di economisti e sociologi per dare alla strategia neoimperialista un fondamento scientifico. L’avvento del migliore dei mondi possibili viene graduato alle condizioni oggettive dei popoli sottosviluppati. Per coerenza all’ordine di Yalta, bisogna integrare, sul piano teorico, utopie progressiste di matrice liberale a scenari ultraimperialisti tipici del marxismo riformista alla Karl Kautsky. Spetta all’americanosfera rivedere il paradigma dominante e produrre teorie funzionali sia alle strategie espansive delle multinazionali che alle iniziative umanitarie dei progressisti occidentali. La più nota è la teoria degli stadi dello sviluppo, elaborata dall’economista Walt Whitman Rostow (1960). Come Marx, anche Rostow colloca il migliore dei mondi possibili alla fine della storia, ma il suo è un paradiso consumista e non comunista. Il punto di partenza, che corrisponde ad uno stato naturale di sottosviluppo, è la società tradizionale. E’ caratterizzata da un basso livello di produttività, perché ignora le moderne tecnologie che consentono di sfruttare razionalmente la natura, e da una lotta incessante contro la scarsità. Si realizzano le condizioni preliminari per il decollo dal momento in cui comincia a diffondersi l’idea che il progresso economico non solo è possibile, mediante l’innovazione dei processi produttivi, ma è la condizione necessaria per qualche altro scopo, in particolare: il profitto privato, il benessere generale, la dignità nazionale, una vita migliore per i figli. Tale trasformazione può dipendere da cause interne, come fu per l’Inghilterra all’inizio del XIX secolo, oppure dall’aiuto allo sviluppo, prospettiva auspicabile per i moderni Paesi meno evoluti. Il decollo avviene quando viene definitivamente superato ogni retaggio della cultura tradizionale e le forze del progresso giungono a dominare l’intera società. Il passaggio alla maturità si verifica quando la diffusione della mentalità imprenditoriale e la presenza di solide infrastrutture consentono di progettare, nonché di attuare, cambiamenti organizzativi che migliorino l’efficienza produttiva. Il punto d’arrivo, per l’umanità intera, è l’era del grande consumo di massa. La Russia sovietica rappresenta, secondo Rostow, una forma di devianza rispetto al corso naturale della modernizzazione, perché investe una quota considerevole del suo Pil nella corsa agli armamenti e nel mantenere un regime poliziesco, costringendo i cittadini all’austerità. Nei suoi confronti l’Occidente deve non soltanto dissuadere, mostrando la potenza dei suoi arsenali, ma soprattutto persuadere, elevando il tenore di vita dei propri abitanti. Ciò affinché la società russa, rinunciando al comunismo, approdi al consumo di massa e si unisca ai Paesi industrializzati nel guidare alla maturità i Paesi ancora sottosviluppati.

Per le sue idee politicamente corrette Rostow diventa consigliere della Casa Bianca dal 1961 al 1968. Sono anni ruggenti per l’imperialismo americano: la crisi di Cuba, le tensioni con la Francia, il crescente impegno militare in Vietnam, il sostegno ad Israele nella guerra dei sei giorni. Seguono i primi sintomi del declino: il primo shock petrolifero e il calo dei profitti, la fine del regime dei cambi fissi e la necessità di collocare un’enorme quantità di moneta fluttuante, la nuova ondata espansiva di multinazionali sempre meno americane e il crescente indebitamento del Terzo Mondo.
La mitologia dello sviluppo fornisce il substrato teorico al nuovo cambio di paradigma imposto dalla crisi del 1971-74. Si comincia a parlare di globalizzazione per indicare la stessa visione dello sviluppo perseguita con una diversa organizzazione dell’economia mondiale. Il migliore dei mondi possibile, nella prassi mondialista, dovrebbe scaturire dai seguenti fattori: la frammentazione del ciclo produttivo e la dislocazione delle sue fasi in varie parti del pianeta, la finanziarizzazione dell’economia, lo sviluppo delle tecnologie informatiche e genetiche, la militarizzazione delle fabbriche nelle zone franche situate nelle Paesi sottosviluppati e la precarizzazione del lavoro dipendente nei Paesi sviluppati.
Qualunque significato o estensione vengano dati al termine globalizzazione, essa sembra trovare un’unica giustificazione: quella di favorire la crescita, riferita al prodotto interno lordo, di ogni area del mercato mondiale. E’ questa l’ultima metamorfosi dello sviluppo neoimperialista, una mitologia sempre più intrisa di istanze umanitarie e fondata dall’illusione che la civiltà nata dalla rivoluzione industriale possa estendersi al mondo intero e durare in eterno, senza condurre alla catastrofe ambientale.