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Paradisi e inferni: lo gnosticismo chimico

di Walter Catalano - 24/05/2008

Fonte: storiadellereligioni

 



“L’oppio è la religione dei popoli”: invertendo l’ordine dei fattori nella celeberrima asserzione attribuita a Karl Marx (e che in realtà egli mai enunciò, almeno in questa forma), il prodotto non cambia. L’uso di sostanze psicoattive per estendere e approfondire la comprensione e la conoscenza della realtà o per favorire la percezione e l’enunciazione di ciò che è ipotizzabile intravedere al di là di essa, diventa un culto, una non-religione della modernità, praticata - in una dimensione ormai irreversibilmente secolarizzata - non più dagli sciamani, dai rishi, dai veggenti e dagli iniziati come nel mondo antico, ma soprattutto da rappresentanti del “popolo” assai particolari: gli scrittori, i poeti e gli artisti, depositari – secondo le coordinate forniteci da Max Weber – del beruf - che è vocazione e contemporaneamente professione - della creazione, del genio e della visione e, in nome di questi doni carismatici, di tutta l’autorità che la società borghese conferisce loro.

Limitando quindi il nostro breve percorso al mondo moderno e all’ambito europeo e occidentale, possiamo dire che le relazioni tra mistica, arte e droga, cominciano alla fine del XVIII secolo, e precisamente dopo l’impresa napoleonica in Egitto.

I Francesi non riportano dalla sanguinosa escursione turistica solo stele, mummie e sarcofagi saccheggiati nella Valle dei Re o tappeti e scimitarre strappati agli sconfitti Mamelucchi, ma anche il gusto per l’hashisc e per l’oppio, prodotti consumati da secoli in quella zona. Con il fascino dell’Oriente, di cui il territorio per poco tempo conquistato è solo la porta, si diffondono in Europa tutte le lusinghe di quei paesi esotici: le spezie e le droghe in ogni senso e possibilità.

Francia e Inghilterra sono da principio le nazioni più ricettive e pronte ad accogliere il seducente invito di quelle sostanze venute da lontano e capaci di condurre chi voglia affidarvisi infinitamente più lontano.

Uno dei primi sperimentatori appartiene al gruppo dei poeti metafisici inglesi: si tratta di Samuel Taylor Coleridge (1772/1834). Pare che fino dal 1792 facesse uso regolare di laudano (oppio disciolto in alcool) e che l’intossicazione gli favorisse la comprensione della filosofia idealistica tedesca e la creazione di ardite metafore poetiche. Dopo qualche tempo il medico già gli somministrava venticinque gocce di laudano ogni quattro ore. Poi le gocce salirono a sessanta. Fra i primi occidentali ad interessarsi del pensiero indù e del Vedanta, l’orientalismo e l’oppio gli ispirarono la sua poesia più evocativa: Kubla Khan. Così ci narra Elémire Zolla: “Stava scorrendo in Purchas la descrizione d’un palazzo eretto da Kubla Khan a Xanadu, poi si assopì, per risvegliarsi semicosciente e buttarsi a comporre un duecento o trecento versi senza nessuna fatica… L’estasi inconscia ma attiva fu all’improvviso stroncata, qualcuno suonò alla porta e per un’ora gli parlò d’affari. Quando tornò al manoscritto scoprì che la vena era inaridita”. L’aneddoto è celebre e viene spesso citato a proposito degli apporti forniti alla creazione letteraria dall’esperienza onirica: sul tipo di sonno del tutto particolare del poeta si preferisce spesso tacere.

Se la grandezza poetica di Coleridge non fu certo il prodotto della droga, lo fu invece l’instabilità della sua salute fisica e psichica. Così prosegue Zolla: “Il laudano non gli bastava più, il sonno era diventato molto raro, gli incubi incombevano senza tregua, passò al ‘goccio nero’ di oppio, tanto più intenso del laudano, aggiunse hashisc, bhang e giusquiamo. Il risultato? …Angoscia senza fitte, vacua, tenebrosa e tetra, soffocante, indolente, inerte angoscia”.

Un altro inglese Thomas De Quincey (1785/1859) rese famosa la tossicomania nel suo classico Confessioni di un mangiatore d’oppio, uscito nel 1821. Orfano, viene educato in un esclusivo collegio dove apprende alla perfezione greco e latino. Soffocato dall’eccessiva disciplina e dalla monotonia della vita nell’istituto, decide di fuggire a diciassette anni e si dà alla vita randagia per le campagne e poi nelle vie di Londra. Là conosce Ann, una giovanetta di sedici anni che l’indigenza costringe a vivere di prostituzione. Quando un giorno il futuro scrittore crolla svenuto per la fame sul marciapiede, la ragazza lo rianima con un bicchiere di porto comprato in un pub coi suoi ultimi spiccioli. L’idillio fra i due è però di breve durata: De Quincey viene rintracciato dai suoi tutori e, rimesso a nuovo, si iscrive ad Oxford. Aveva promesso ad Ann di tornare da lei dandole un appuntamento ad un cantone a loro familiare, ma – si giustifica – non la trovò più; c’è da credere che non si sia dato troppo da fare per riuscirci.

Un dolore reumatico lo induce a provare l’oppio come rimedio. Nasce un amore assai più costante e intenso di quello vissuto per la piccola Ann. Per otto anni De Quincey vive in paradiso: riesce a moderare il bisogno della sostanza e a contenere le dosi. Il tossico aggiunge solo leggerezza e profondità alla sua vita, ora assai comoda, senza compromettere alcuna facoltà. Ma ecco che un improvviso e persistente dolore allo stomaco lo induce a spezzare il fragile equilibrio dei dosaggi.

Un misterioso Malese, losco e inturbantato, si presenta alla porta del suo cottage di campagna e viene lasciato dormire sul pavimento per una notte. Al mattino, senza una parola, il Malese se ne va lasciando dell’oppio. De Quincey non resiste e sprofonda negli abusi. Le allucinazioni si susseguono, il confine fra sogno e realtà diviene quanto mai sfumato. Per anni lo scrittore indulge nei suoi piaceri proibiti e si abbandona al flusso inarrestabile delle fantasie.

Il Malese ricompare periodicamente, forse fosco fantasma, forse figura reale, come un incubo ricorrente ed ossessivo. Con lui l’Oriente, affascinante e minaccioso, l’India, la Cina, l’Egitto, ricorrono morbosi nei sogni e nelle visioni del geniale drogato. Talvolta la moglie o i figlioletti lo scuotono dalle sue fantasticherie ed egli li abbraccia piangendo. Una più vivida allucinazione lo conduce presso una tomba sconosciuta: seduta presso la lapide riconosce la giovane Ann che non risponde al suo saluto ma lo fissa in silenzio.

De Quincey riuscì in seguito a ridurre le dosi, ma la sua salute restò per sempre irrimediabilmente compromessa. Morì comunque in età più che matura: settantacinque anni.

Non ci dilungheremo eccessivamente sulla figura di Edgar Allan Poe (1809/1849), troppo nota per aver bisogno di qualsiasi presentazione. Oltre agli abusi alcoolici, il grande genio statunitense, fece ricorso all’oppio fino dagli anni dell’Università: in alcuni fra i suoi racconti più riusciti - come Ligeia, La caduta della casa degli Usher, Berenice, William Wilson – sono evidenti gli effetti delle tipiche allucinazioni da oppiacei, l’acuirsi spasmodico delle capacità percettive sensoriali, il potenziamento delle facoltà analitiche e razionali, la sinestesia (cioè la confusione fra percezioni derivate da sensi diversi: il vedere suoni, l’ascoltare odori, ecc.), l’ossessione del doppio o quella claustrofobica della sepoltura in vita, ecc.

Nel 1848, in un clima che vede l’avvento della metapsichica e dello spiritismo e la diaspora mondiale dei medium americani – le sorelle Fox, Daniel Home, i fratelli Davemport – Poe, troppo razionalista per prendere sul serio spiriti e “rivelazioni magnetiche”, scrive Eureka, il suo poema cosmogonico e metafisico in prosa. L’Universo non è che un vortice succhiante – incubo ricorrente poesco – in cui il Creato riconverge vertiginosamente verso l’Unità in Dio. Lo scrittore è allo stremo, la morte della moglie-bambina, l’amatissima Virginia nel 1847, lo ha gettato nella prostrazione: si crede perseguitato; si traveste e cerca di alterare i suoi connotati per non farsi riconoscere; ricerca freneticamente amicizie femminili ed a tutte propone il matrimonio; infine tenta di togliersi la vita ingerendo un’intera bottiglia di laudano. Sopravvive per poco tempo: la sua ultima immagine, il famoso dagherrotipo che lo mostra pallido e scarmigliato, le occhiaie livide, la cravatta storta e male annodata sul collo, fu scattato il giorno dopo il tentato suicidio. Oltre alle alterazioni psichiche l’abuso di tossici gli provoca disturbi al cuore ed un attacco di paralisi facciale.

Nel 1849 improvvisamente, Edgar fa perdere le sue tracce mentre viaggia alla volta di New York. Viene ritrovato morente a Baltimora: durante le elezioni al Congresso ed alla Camera dello Stato, è caduto preda di una banda di mascalzoni in cerca di voti. Allora non esistevano schede elettorali, bastava prestare giuramento, e si facevano spesso ubriacare dei poveri diavoli per portarli a votare successivamente in tutti i seggi della città. Il poeta è una vittima sacrificale di quella democrazia che, da raffinato aristocrate sudista, ha sempre disprezzato.

Conoscenti lo recuperano e lo conducono all’ospedale in condizioni pietose: “chiacchierava e chiacchierava rivolgendosi a persone fantastiche e immaginarie, guardando i muri… Incominciò a chiamare un certo Reynolds, lo chiamò tutta la notte, fino alle tre del mattino di domenica quando spirò”. Reynolds era un esploratore polare ed un propugnatore della teoria della terra cava: a lui Poe si era ispirato per il suo Gordon Pym. In punto di morte lo sfortunato scrittore ritornava ai paesaggi polari, al suo maestro ideale - esploratore e metafisico - alla candida figura liminare, arcangelo e guardiano della soglia, che chiude il suo unico ed enigmatico romanzo.

Fra gli artisti anglofoni, oltre a quelli già citati, provarono l’oppio quasi tutti i romantici: Byron, Shelley, Keats, Dante Gabriel Rossetti, Dickens, Wilkie Collins.
La cocaina provocò invece la dissociazione che avrebbe ispirato il caso Jekyll/Hyde a Robert Louis Stevenson ed il delirio raziocinante di Sherlock Holmes al medico, scrittore e spiritista Arthur Conan Doyle.

In Francia nel frattempo Theophile Gautier (1811/1872) provò l’ebbrezza dell’hashisc presso un medico islamizzato e descrisse gli effetti della droga in alcuni articoli. Di lì a poco si formò a Parigi un vero e proprio “club dei mangiatori di hashisc”: i maggiori romantici francesi, oltre a Gautier, da Charles Baudelaire a Victor Hugo, da Alfred de Musset a Honoré de Balzac, da Gerard de Nerval a Honorè Daumier, si dettero convegno in un albergo abbandonato, l’Hotel Pimodan sull’Ile Saint-Louis, per sperimentare il famigerato kief del Vecchio della Montagna.
Anche di Baudelaire (1821/1867) non c’è bisogno di parlare troppo: ammiratore di Poe, suo traduttore in francese ed artefice della fortuna in Europa dello scrittore americano, è anche l’autore di uno dei più grandi classici sulla droga, I paradisi artificiali, saggio in cui vengono scandagliati gli insondabili abissi spalancati dall’uso dell’alcool, dell’hashisc e dell’oppio. L’intenzione dell’opera vorrebbe essere quella di condannare l’uso della droga, ma in realtà la posizione baudelairiana è ambigua: il cantore dei fiori del male è un inguaribile dionisiaco ed un propagandista dell’ebbrezza. Già nei poemi in prosa de Lo spleen di Parigi aveva sostenuto: “Bisogna essere sempre ubriachi. E’ tutto qui; questo è il solo problema. Per non sentire l’orribile fardello del tempo che vi rompe le spalle e vi piega verso terra, bisogna che vi ubriachiate senza tregua. Ma di che ? Di vino, di poesia, di virtù, a piacer vostro. Ma ubriacatevi”.

Non stupisce che Cesare Lombroso abbia coniato per catalogare le complesse personalità di Poe e di Baudelaire, una contraddittoria definizione psichiatrica: “degenerati superiori”.

Meno scapigliato di Baudelaire ma ugualmente attratto dall’altrove assoluto offerto dall’esperienza psichedelica fu Gerard de Nerval (1808/1855), scrittore in cui sogno e realtà, estasi e ossessione si confondono. Racconti come Le figlie del fuoco, La mano stregata, Aurelia e poesie come Le chimere raggiungono gli estremi della fantasmagoria romantica. Lettore di Swedemborg e della filosofia idealistica tedesca, traduttore del Faust di Goethe, sostenitore della metempsicosi e adoratore della Divinità Femminile in tutte le sue forme (da qui l’identificazione fra sé stesso e Apuleio, il grande scrittore latino iniziato ai misteri di Iside), Nerval si interessa di alchimia ed esoterismo, professa dottrine pitagoriche, segue le tracce di Cagliostro, Mesmer, Saint-Germain e degli Illuminati, crede negli Elhoim - i Figli del Fuoco, maledetti e ridotti a vivere in un regno sotterraneo - e viaggia a lungo in Oriente.

Va e viene dalle cliniche psichiatriche sempre in bilico tra follia e lucidità. Nei giorni che precedettero la sua morte fu visto aggirarsi per Parigi, con diciotto gradi sotto zero, senza cappotto. Mangiava nelle bettole prossime ai mercati e dormiva negli alberghi popolari che accoglievano vagabondi e prostitute. La mattina del 26 gennaio 1855 fu trovato impiccato ad un’inferriata in una via sinistra, Rue de la Vielle Lanterne, che in altri tempi si era chiamata Rue de la Tuerie (cioè via del macello o del massacro). Gerard era appeso all’inferriata in modo che i piedi toccassero quasi il suolo – lo si sarebbe detto semplicemente appoggiato al muro – e con un cappello a cilindro in testa. Un corvo ammaestrato svolazzava nei paraggi ripetendo le uniche parole che sapeva: “Ho sete”. Il caso fu archiviato come suicidio, ma non è chiaro come il disgraziato avrebbe potuto impiccarsi serbando il cappello in testa. Oltre al corvo c’era solo una vecchia accanto al cadavere, che naturalmente non aveva visto nulla e che forse gli stava ripulendo le tasche. In una di quelle tasche, spiegazzata e piena di cancellature, si trovò l’ultima pagina del manoscritto della sua ultima opera, l’allucinato racconto Aurelia. L’ultimo appunto lasciato la sera precedente, prima di uscire per la sua ultima passeggiata, ad una parente che lo ospitava diceva: “Non aspettatemi, la notte sarà nera e bianca”.

Un altro scrittore francese dedito alle droghe fu Guy de Maupassant (1850/1893) che scrisse un memorabile saggio sull’etere e che, partito come rigoroso realista legato al Naturalismo francese, finì, poco prima di impazzire, raccontando de L’Horlà, una terrorizzante creatura invisibile che ossessiona il narratore.

Tra i Simbolisti e i Decadenti l’uso di sostanze psicoattive diventa un obbligo e una moda: tutti i maggiori artisti seguono il precetto di Arthur Rimbaud (1854/1891) che aveva teorizzato nella sua Lettera del Veggenteil Poeta si fa veggente mediante un lungo, immenso e ragionato disordine di tutti i sensi”, e tutti vogliono attenersi al modello esistenziale e artistico che Paul Verlaine (1844/1896) ha delineato parlando del poeta maledetto.

Nel Novecento l’esplorazione dei territori psichici dischiusi dagli stupefacenti si diffonde soprattutto nel corso della Prima Guerra Mondiale e del primo dopoguerra. Saranno soprattutto i movimenti artistici d’avanguardia - Futurismo, Espressionismo, Dadaismo, Surrealismo, ecc. - i maggiori sostenitori dell’esperienza psichedelica. Le pionieristiche attività psiconautiche di queste élite intellettuali verranno replicate in seguito, con impeto massiccio e disordinato, dai beat e dagli hippies negli anni sessanta e settanta.

Il lavacro delle acque corrosive è determinante comunque anche per intellettuali legati ad altri ambiti culturali come ad esempio lo scrittore tedesco Ernst Jünger (1895/1998), uno dei maggiori esponenti della cosiddetta Rivoluzione Conservatrice. Egli, nel suo romanzo Heliopolis, inventerà un personaggio abbastanza caratteristico, Antonio Peri: “uomo totalmente sedentario... che esplora gli arcipelaghi oltre gli oceani navigabili, servendosi di droghe come veicolo”. Anche a Jünger come al suo personaggio “le droghe... servivano come chiavi per entrare dentro le cavità e le grotte di questo mondo”.

L’avvicinamento è il tema più ricorrente in Jünger, avvicinamento al muro del tempo, a quella linea che va scavalcata ed oltre la quale “il niente si ritirerà in se stesso, abbandonando sulla riva i tesori che le sue onde avevano sommerso”. L’esternazione più sistematica di questa tensione è contenuta in un libro del 1970: Avvicinamenti. Droghe ed ebbrezza. “Shakespeare parla una volta, nel Sogno di una notte di mezza estate, del sonno ‘comune’ che egli distingue da uno stato di più intensa fascinazione, uno stato magico. L’uno porta i sogni, l’altro le visioni e le profezie. Similmente, anche l’ebbrezza provocata dalla droga produce effetti particolari, difficili da definire. Chi ricerca quell’ebbrezza è animato da intenzioni particolari. E chi usa la parola droga in questo senso presuppone un’intesa con l’ascoltatore o con il lettore, intesa che non consente una definizione more geometrico. Egli penetra con loro in una zona di confine”.

In una lettera ad Albert Hofmann, il chimico svizzero che sintetizzò la dietilamide dell’acido lisergico, il potente ed arcinoto LSD, Jünger precisa: “Le incrinature non sono solamente punti di esplorazione, ma anche di distruzione. Paragonati agli effetti delle radiazioni, quelli delle sostanze magiche sono più genuini e molto meno violenti. Ci conducono in maniera esemplare oltre l’uomo. In un certo senso Gurdjieff lo ha già intuito. Il vino ha già cambiato molto, ha portato con sé nuove divinità e una nuova umanità. Ma rispetto alle nuove sostanze è come la fisica classica rispetto alla fisica moderna. Queste cose dovrebbero essere sperimentate solo in ambienti circoscritti. Non sono d’accordo con le idee di Huxley, secondo cui le masse dovrebbero avere l’opportunità di conoscere la dimensione trascendentale”.

Aldous Huxley (1894/1963) aveva teorizzato la crescita spirituale dell’umanità per mezzo degli allucinogeni - l’ineffabile “medicina moksha”, fondamento del suo classico saggio sull’argomento Le porte della percezione, del seguito Paradiso e Inferno o del suo ultimo romanzo L’Isola – ma si sarebbe decisamente ricreduto se avesse potuto constatare gli effetti della diffusione massificata degli psichedelici nella seconda metà degli anni sessanta. Dopo la cosiddetta “summer of love” del 1967, dopo l’ingresso trionfale degli stati alterati di coscienza nell’immaginario giovanile e nel pubblico mercato, dopo le speculazioni astutamente orchestrate da personaggi fortemente ambigui e ciarlataneschi come Timothy Leary e gran parte degli esponenti della Beat Generation, dopo la rapida combustione di quell’effimero carnevale, le “brecce nel muro” care ad Huxley sono diventate solo un prolungamento del muro stesso. Il mondo della tecnica e del consumo è incapace di trascendere un uso impropriamente ludico e ‘pirotecnico’ di sostanze selezionate in funzione di un’altra sfera: un mondo che ha ucciso il rito e l’otium resta facile preda del tossico.

Sempre più emblematica per antitesi è ancora la figura jungeriana di Antonio Peri che “non viaggiava per evadere nell’ignoto, ma come un geografo” e che, una volta mortalmente ustionato, “tra le sofferenze rifiuta la morfina. Ciò che lo aveva spinto a muoversi non era il piacere e neanche l’avventura. La curiosità certamente, ma una curiosità che era andata sublimandosi, finché egli non giunse davanti alla porta giusta. Di fronte ad essa non c’è bisogno di chiavi; si apre da sola”. Huxley, dal canto suo, preferì un’altra soluzione; in punto di morte richiese un’ultima iniezione alla moglie: “LSD - provalo intramuscolare - 100 mmg”.

La relazione sacrale, magica fra il qui e ora e l’altrove, fra l’attuale e - termine così caro a Jünger - das Eintretende, “ciò che sopraggiunge”, che l’ebbrezza induce in gradi diversi a seconda della sostanza e della dose ma inequivocabilmente, è colta con precisione dall’autore, in grande sintonia rispetto ad altri psiconauti del Novecento che sembrano tutti perfettamente concordi su questo punto. “L’evocazione era compresa nel medioevo nel numero dei crimini capitali. Le apparizioni erano più degne di fede di quanto non lo siano oggi. Per Faust... la preoccupazione è solo che l’evocazione riesca. Scrupoli religiosi o morali non lo tormentano più. In modo del tutto analogo, nel nostro tempo l’uomo spirituale e amico delle muse si chiede che cosa possa offrire la droga. In fondo, per lui non può trattarsi dell’incremento motorio delle sue forze, né della felicità o dell’assenza di dolore. Non si tratta nemmeno di un modo per acuire ed affinare le capacità percettive, quanto piuttosto, come nel gabinetto di Faust, di ‘qualcosa che sopraggiunge’.... Un tempo non si avevano dubbi sul fatto che nell’evocazione, ottenuta grazie all’ascesi o grazie ad altri mezzi, sopraggiungesse qualcosa di estraneo... Decidere se ciò che sopraggiunge venga dall’esterno o dall’interno, se abbia quindi origine nell’universo o nel profondo di se stessi, è però una questione soltanto formale”.

Si confronti il passo con il seguente di Henri Michaux (1899/1984) - scrittore legato all’ambiente dei Surrealisti e grande sperimentatore di allucinogeni - : “All’indiano bastava pronunciare il nome del dio che adorava, perchè, comandato dalla parola, questi gli apparisse. Quello che si impara dalla demonologia sembra ormai rendersi chiaro, e cioè che il nome è tutto. Verificato qui. Il demonio, una volta chiamato, apparirà, anche se non esiste, a chi ha commesso l’imprudenza o l’audacia di pronunciare il nome suo, trovandosi in stato secondo (sia che la trance venga dall’esaltazione per via di fede, o attraverso la danza, e che, più semplicemente, come accadeva nel mondo intero e secondo il rituale, si sia prima masticato qualche foglia di datura o le estremità fiorite della canapa indiana). Quanto all’occidentale del giorno d’oggi, che da tanto tempo non crede negli dei, e che sarebbe incapace d’immaginare una forma in cui essi potessero apparirgli, ciò che la mente coglie, il solo dio che ancora percepisca e che sarebbe vano adorare, è l’infinita relatività... In mancanza di dei: Pullulazione e Tempo”.

Ma lo stesso Michaux, in un’esperienza successiva, testimonia: “HO VISTO LE MIGLIAIA DI DEI. Ho ricevuto il dono stupefacente. A me senza fede (senza sapere la fede che potevo forse avere), essi sono apparsi. Erano lì, presenti, più presenti di qualsiasi cosa od essere abbia io mai guardato. Era impossibile, lo sapevo bene, eppure. Eppure essi erano lì, schierati a centinaia, gli uni appresso agli altri (ma migliaia d’altri appena percettibili seguivano, ben più che migliaia, un’infinità). Erano lì. quelle persone calme, nobili, tenute sospese nell’aria da una levitazione che pareva naturale, leggerissimamente mobili o piuttosto animati, ma sul posto. Loro, le persone divine, e io, soli, al cospetto. Immerso in una specie di riconoscenza, appartenevo loro. Ma insomma, qualcuno potrà dirmi, che credevo? Rispondo: Che bisogno avevo di credere, VISTO CHE ERANO LI’?”.

Anche lo spirito dionisiaco e sregolato di Antonin Artaud (1896/1948) - altro scrittore, regista e attore surrealista - sembra confermare un’impostazione analoga. Artaud lascia improvvisamente Parigi per i deserti del Messico settentrionale, visita gli indiani Tarahumara dove sperimenta il peyote, un cactus che contiene la psilocibina, un potente alcaloide. Al ritorno dall’esperienza Artaud, già appassionato cultore di tarocchi, di magia e di esoterismo, ha una crisi mistica e dopo un misterioso viaggio in Irlanda impazzisce; verrà rinchiuso per quasi dieci anni in manicomio. Anch’egli scrive: “Col Peyote succede come con tutto ciò che è umano. E’ un principio magnetico e alchemico meraviglioso a patto di saperlo prendere, cioè nelle dosi volute e secondo la gradazione voluta. E soprattutto di non prenderne a contrattempo e a sproposito. Se, dopo aver preso il Peyotl, gli Indi diventano come pazzi, vuol dire che ne abusano fino a raggiungere quel punto d’ebbrezza disordinata in cui l’anima non è più sottomessa a niente...Superare il necessario è SACCHEGGIARE l’azione. Dio, dicono le tradizioni sacerdotali tarahumara, scompare immediatamente quando se ne abusa e in sua vece viene lo Spirito Maligno”.

A questi stessi percorsi potremmo ricondurre anche gli esperimenti di René Daumal, seguace di Gurdjieff ed autore di due grandi romanzi iniziatici: La gran bevuta e Il Monte Analogo. Fondatore del gruppo esoterico e letterario del Grand Jeu, che proclamava una rivoluzione/iniziazione, farà numerose esperienze con gli stati di “mort-dans-la-vie” sotto l’influenza del tetracloruro di carbonio descritti in L’Asphixie ou l’expérience de l’absurde e in Une expérience fondamentale; inoltre abuserà di alcool e di oppiacei finché l’influsso della scuola di Gurdjieff non lo ricondurrà ad un uso più continente delle proprie energie.

La tossicomania si rivela fra gli intellettuali del Novecento, sintomo di un disagio, proditoria riappropriazione di un orizzonte negato, tentativo di cura di una malattia più grave: come scrisse Jean Cocteau (1889/1963) nel minuzioso diario della sua faticosa disintossicazione, Oppio, “Non sono un disintossicato fiero del suo sforzo. Ho vergogna di essere escluso da quel mondo in cui la salute rassomiglia all’ignobile film del ministro che inaugura la statua”.

Se il poeta espressionista tedesco Gottfried Benn (1888/1956) in Provozierties Leben giungeva ad esclamare: “Dio è una sostanza, una droga!”, il filosofo Walter Benjamin (1892/1940), nei suoi appunti raccolti e pubblicati dopo la morte sotto il titolo di Sull’hascish, accennava, meno iperbolicamente, ad un “ambiguo ammiccare del nirvana” ed alla convinzione di venire accolto “nella comunità degli iniziati, le cui testimonianze, dai Paradisi artificiali di Baudelaire fino al Lupo della steppa di Hesse, mi erano tutte note... Ho la sensazione di capire molto meglio Poe... Meno uomo, più Daimon e Pathos in questa ebbrezza…”. Il senso di tali destini e la direzione dell’avvicinamento si mostrano, tra ombre e luci, nell’identica ricerca di un’apertura, di una breccia.

Come scrisse Julius Evola – altro personaggio che con tutte le sue ambiguità e sgradevolezze ha teorizzato e praticato l’uso delle acque corrosive - in un suo saggio per il magico “Gruppo di Ur”: “Il veleno, il tossico… fulmina, uccide, senza ritmo: con atto diretto. Stacca. Taglia. E’ il morso della vipera”.

Ancora Jünger ci racconta un viaggio psichico che sconfina nel paranormale. Sono in tre, lo scrittore, un orientalista ed il chimico Albert Hofmann, usano funghi magici contenenti mescalina: “Agli altri non era andata meglio. ‘Che bello essere di nuovo tra uomini’. Così Albert Hofmann, che aveva attraversato infinite città dell’antico Messico… alla ricerca labirintica dell’uomo attraverso un mondo di geometrica bellezza… L’orientalista invece era stato a Samarcanda… Lì era rimasto a lungo davanti a una delle piramidi di teschi costruite per lo spavento dei popoli, e aveva trovato nella massa di teste mozzate anche la propria. Era incrostata di pietre preziose. Il farmacologo rimase come fulminato, quando l’udì: ‘Adesso so perché stavate seduto senza testa in poltrona – mi ero meravigliato; non posso essermi sbagliato’. Mi domando se non dovrei evitare di parlare di questo dettaglio, dato che sfiora i requisiti delle storie di fantasmi”.

Altri resoconti di esperienze psichedeliche novecentesche infine furono quello di Piotr Demianovic Ouspensky, il maggiore discepolo di Gurdjieff, in un capitolo, intitolato significativamente Metafisica sperimentale, del suo libro Un nuovo modello dell’universo; il racconto Morfina di Bulgakov; il Romanzo con cocaina di Ageev (forse pseudonimo sotto il quale si nascondeva Vladimir Nabokov, l’autore di Lolita); il classico della beat generation Il pasto nudo di William Burroughs (romanzo da cui David Cronemberg ha tratto l’omonimo film) e la corrispondenza di Burroughs con il poeta beat Allen Ginsberg sullo yage, allucinogeno contenuto in una liana amazzonica capace di produrre fenomeni telepatici; gli scritti fin troppo noti di Timothy Leary o di Terence Mckenna; il discutibile saggio di Gordon Wasson sull’identità fra Amanita muscaria e soma vedico e quello ugualmente discutibile di Albert Hofmann sul kykeon, la misteriosa bevanda dei Misteri Eleusini; i libri di Carlos Castaneda e di Michael Harner, il cui percorso parallelo dall’antropologia seria al ridicolo ma remunerativo new age è assai emblematico.
Questo tortuoso e necessariamente affrettato percorso attraverso la cultura della droga ci riporta alle nostre premesse: alla non-religione più praticata nella modernità, al culto e ai riti che inducono l’esperienza mistica spontanea – selvaggia, come la definisce Michel Hulin nel suo studio fondamentale Misticismo selvaggio: l’esperienza spontanea dell’estasi. Mistica selvaggia, cioè anarchica, non legata a pratiche devozionali secondo una qualche confessione, ma ottenuta per via soprattutto anche se non esclusivamente chimica. La mistica selvaggia si identifica con il sentimento oceanico, come lo chiamava Romanin Rolland, e con l’esperienza estatica psichedelica ed i disordini psichici connessi come li hanno descritti e analizzati William James o Georges Bataille e condivisi tutti gli autori che abbiamo ricordato: l’estasi mistica e la psicopatologia hanno notevoli punti di contatto ma è l’essenza della beatitudine, della gioia che le separa nettamente. La gioia dell’esperienza estatica consiste nella deposizione di un fardello: quello della dualità, della discriminazione fra “buono e cattivo per me”. In Oriente come in Occidente si parla a questo proposito di Pace, di Liberazione dalla schiavitù dell’incarnazione.

All’identica frattura della dicotomia fra piacevole e spiacevole vertono anche le pratiche di austerità e di ascesi presenti in tutte le tradizioni religiose: lo smascheramento del carattere reattivo del dolore e del disgusto. Un’unica vertigine scuote Santa Teresa di Lisieux ed Aleister Crowley.
Per concludere non ci resta che citare ancora il chimico che ha sintetizzato l’LSD, Albert Hofmann, la sua opinione in merito ci pare significativa: “L’universo è infinito, ma è l’uomo con il suo sguardo che lo restringe o lo allarga. La differenza tra gli uomini è qui: ci sono approcci - idee, comportamenti - che restringono il campo visuale, altri che lo allargano”.