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Prima che sia troppo tardi

di Marino Badiale, Massimo Bontempelli - 26/05/2008

 

1. I conti tornano.

Le elezioni politiche dell’aprile 2008 segnano un momento importante nella

storia del nostro paese. Si tratta della fine della sinistra in Italia. Nel

Parlamento italiano uscito da quelle elezioni non è presente nessun partito

che si definisca, o possa essere definito, come “sinistra”. Non si tratta di un

fatto congiunturale. Naturalmente continueranno ad esistere realtà politiche,

sociali, culturali che si definiranno “sinistra”, e può anche darsi che tornino ad

essere presenti in Parlamento. Ma si tratterà di realtà sempre più secondarie

e residuali. La fine della sinistra ha infatti una radice profonda, strettamente

legata ai caratteri della fase attuale e alla natura essenziale della sinistra

stessa. Come abbiamo cercato di mostrare ne “La sinistra rivelata”1, la sinistra

è stata caratterizzata, nei due secoli della sua esistenza, dal binomio

“sviluppo ed emancipazione”: è stata cioè la parte politica, sociale e culturale

che ha lottato per l’emancipazione dei ceti subalterni promuovendo lo

sviluppo economico e tecnologico. Questa congiunzione è stata possibile

perché, fino a tempi recenti, sviluppo ed emancipazione erano compatibili. Ma

la situazione è completamente cambiata negli ultimi decenni. La fase storica

che, utilizzando termini imprecisi ma ormai di uso comune, viene chiamata

“globalizzazione” o “neoliberismo” rappresenta, fra le altre cose, il momento in

cui sviluppo ed emancipazione si separano e si contrappongono. Mentre fino

a pochi decenni or sono lo sviluppo economico e tecnologico poteva davvero

portare al miglioramento delle condizioni di vita dei ceti subalterni, oggi

sviluppo significa attacco ai redditi e ai diritti conquistati dai ceti subalterni

nella fase precedente, significa attacco ai territori per le grandi opere

necessarie allo sviluppo stesso, significa degrado ambientale e sociale. In

questa situazione la posizione che definisce la sinistra, quella cioè di volere

l’emancipazione dei ceti subalterni attraverso lo sviluppo, non è più possibile

e appare come una contraddizione in termini. O si sceglie lo sviluppo, e allora,

anche se ci si illude di essere progressisti o magari addirittura anticapitalisti,

nella realtà si sceglie la de-emancipazione dei ceti subalterni e il degrado

ambientale e sociale, oppure si sceglie l’emancipazione dei ceti subalterni, e

in tal caso occorre combattere lo sviluppo fine a se stesso e porsi nell’ottica

delle decrescita.

Questo carattere contraddittorio della nozione stessa di sinistra, nella fase

attuale, ha potuto essere rimosso per qualche tempo. Lo strumento della

rimozione è stato, per lunghi anni, l’antiberlusconismo ossessivo. Incapaci di

dare un senso all’esistenza delle proprie organizzazioni, che non fosse

l’attaccamento personale al potere e ai suoi vantaggi, i ceti dirigenti della

sinistra italiana hanno posto il rifiuto di Berlusconi come unico contenuto e

collante della propria parte politica. Ma nel momento in cui il Partito

Democratico di Veltroni ha scelto di presentarsi da solo alle elezioni,

l’antiberlusconismo ha funzionato contro la sinistra (cioè la sinistra

1 M.Badiale-M.Bontempelli, La sinistra rivelata, Massari editore, Bolsena 2007.

arcobaleno). Se per anni si ripete che la cosa fondamentale, alla quale tutto il

resto va subordinato, è impedire l’accesso al potere di Berlusconi, se in nome

di questo si sacrifica ogni contenuto reale della propria politica, è chiaro che i

partiti di sinistra finiscono per perdere proprio elettorato: nella situazione in cui

ci si è trovati alle politiche del 2008, chi era legato ai contenuti reali di una

politica di sinistra si è astenuto (o ha espresso un ininfluente voto per piccole

formazioni di estrema sinistra) perché ha capito che tali contenuti verranno

sempre e comunque sacrificati alla necessità delle alleanze

antiberlusconiane, mentre chi ha davvero introiettato la necessità di

combattere Berlusconi come fine principale della politica ha votato PD.

Questa scomparsa della sinistra non ci addolora. Essa sgombra il campo

dagli equivoci, fa chiarezza, e la chiarezza è sempre benvenuta. La realtà ha

fatto tornare i conti, cancellando dalla storia ciò che era ormai un’impossibilità

logica. Non si tratta ora di ricostruire una nuova sinistra (o un nuovo partito

comunista), che sarà finalmente quella buona, quella giusta, quella vera. Si

tratta invece di capire come sia possibile far vivere gli ideali di emancipazione,

giustizia, solidarietà, in una situazione in cui non è più possibile la sinistra.

2. La Casta, arma del nemico.

L’attuale sistema sociale ed economico rappresenta la negazione degli ideali

di emancipazione, giustizia, solidarietà. Ben più di questo, esso mostra in

profondità tratti distruttivi e mortiferi, che ne fanno il nemico dell’umanità. La

difesa degli ideali di emancipazione, giustizia, solidarietà, può essere pensata

solo come contrasto e opposizione radicale all’attuale organizzazione sociale

ed economica. Ma questa opposizione non può essere fatta in nome di un

progetto di società alternativa. Non abbiamo un tale progetto, e non è

pensabile che esso possa essere elaborato in una situazione in cui le forze

antagoniste sono ultraminoritarie e ininfluenti. L’unica politica realistica è una

politica di opposizione guidata da principi alternativi a quelli oggi dominanti,

una politica che porti a spezzare, dove è possibile, la logica che regge

l’attuale sistema socioeconomico, e affronti le situazioni inedite che così si

creeranno seguendo i propri principi alternativi, indirizzando la società lungo

vie che oggi non è possibile prevedere. Ma per iniziare anche solo a pensare

ad una tale politica, occorre riflettere sulle caratteristiche più significative della

realtà attuale. E occorre, come diceva Fortini, scrivere i nomi dei nemici. Fra

questi vi sono, oggi in Italia, i componenti della Casta.

Nel nostro sistema sociale ed economico non c’è più nessuno spazio per la

politica intesa come sfera in cui si confrontano idee diverse sulla direzione da

imprimere allo sviluppo sociale. Lo sviluppo sociale è comandato, in ogni

ambito, dall’economia e dalle sue esigenze di profitto. A cosa si riduce allora

la politica, se si accettano gli assiomi dell’attuale sistema sociale ed

economico? A pura e semplice amministrazione dell’esistente, a competizione

fra cordate di amministratori, il cui unico ruolo, ben pagato, è quello di gestire

il consenso sociale alle politiche economiche neoliberiste. Ma tali politiche

comportano la distruzione di tutte le conquiste (crescita effettiva dei salari,

Welfare State) ottenute dai ceti popolari nella fase riformisticosocialdemocratica

della storia del mondo occidentale, la fase del secondo

dopoguerra. La perdita di diritti e redditi, il peggioramento lento e costante

della qualità della vita nei paesi occidentali prosegue a ritmo costante

qualunque sia il colore della parte politica al governo. Far accettare questa

situazione di lento depauperamento, rendere impossibile la protesta o

incanalarla in direzioni che non mettano in questione i dati fondamentali

dell’attuale sistema economico e sociale: è questo il ruolo del ceto politico,

indifferentemente di destra, di sinistra o di centro.

Poiché le contrapposizioni interne al ceto politico non hanno più nessuno

spessore politico o ideologico, e sono semplici scontri sulla distribuzione di

posti e prebende fra gang contrapposte, è corretta la caratterizzazione del

ceto politico come Casta.

La Casta è al servizio della dinamica distruttiva del mondo attuale, e va

combattuta come nemica della civiltà e della società. Il fatto che essa non

decida nulla (perché tutto è deciso dall’economia) non significa che essa sia

irrilevante: è un’articolazione fondamentale dell’attuale sistema sociale ed

economico, è l’ingranaggio che deve conquistare il consenso di masse

sempre più impoverite sia sul piano materiale sia su quello culturale.

E’ chiaro, lo diciamo per sgombrare il campo da possibili equivoci, che la lotta

contro la Casta non è di per sé lotta contro i fondamenti dell’attuale sistema

socioeconomico, non è di per sé lotta rivoluzionaria. Ma in ogni situazione di

lotta contro un potere dominante, si può lottare solo contro quelle articolazioni

del potere che il potere stesso ci contrappone. La lotta dei vietnamiti contro

l’esercito USA non andava a colpire il cuore del capitalismo USA (e infatti i

vietnamiti hanno vinto ma il capitalismo USA è vivo e vegeto), ma questo non

era certo un buon motivo per non farla. Oggi in Italia occorre lottare contro la

Casta perché è la Casta l’arma delle oligarchie per l’attacco ad ogni possibilità

di emancipazione della classi subalterne.

Esiste uno spazio sociale nel quale agire questa lotta contro la Casta? Esso

esiste, a nostro avviso, e si manifesta oggi come rifiuto generalizzato della

Casta, che la Casta stessa denomina “antipolitica” (denominazione

ovviamente menzognera come tutto quanto proviene dalla Casta: è la Casta a

negare la politica, a rappresentare la vera antipolitica). Ma su quali punti si

può tentare di mobilitare questo diffuso rifiuto della Casta politica, per far sì

che esso esca dalla fase della rabbia silenziosa ed impotente?

3. Assi di riferimento.

Un primo punto è quello della difesa dei territori da progetti invasivi, e quindi il

sostegno a tutti quei movimenti (NO TAV, NO ponte sullo stretto, NO

rigassificatori ecc.) che nascono in opposizione a progetti economici invasivi e

devastanti per gli equilibri del territorio stesso. Questa invasività e queste

devastazioni sono inevitabili, all’interno dell’odierno meccanismo dello

sviluppo. Infatti lo sviluppo non può fare a meno dell’accumulazione di realtà

fisiche sul territorio (strutture produttive, infrastrutture edilizie come autostrade

e aeroporti, strutture commerciali, mezzi di trasporto, rifiuti che occorre

smaltire in qualche modo). Ma il territorio italiano è saturo (altrove la

situazione può essere diversa): l’Italia è un paese piccolo e sovrappopolato, il

cui territorio è stato da tempo invaso dalle realtà fisiche legate allo sviluppo.

Non essendoci più spazio libero, le nuove strutture fisiche necessarie per lo

sviluppo possono inserirsi solo in una realtà fisica e sociale già organizzata,

mettendone in crisi gli equilibri. In parole povere, le nuove strutture devono

invadere la vita quotidiana degli abitanti del territorio, sconvolgendola.

L’opposizione da parte degli abitanti del territorio attaccato è dunque naturale

e istintiva, non necessariamente derivante da opzioni politiche e ideologiche

generali, ma, questo è il punto cruciale, essa va nella direzione della critica

dello sviluppo, anche se i suoi attori possono non averne coscienza. Con

questo intendiamo dire che la prospettiva della critica dello sviluppo è l’unica

che renda coerenti queste lotte, dando ad esse un valore e una prospettiva

generali. Al di fuori di tale prospettiva, queste lotte possono essere facilmente

criticate e isolate indicandole come espressione di egoismi locali che devono

cedere il passo all’interesse generale. La risposta a questa critica sta appunto

nell’indicare il rifiuto dello sviluppo, cioè la decrescita, come interesse

generale del paese.

Una forza politica che intenda opporsi all’attuale sistema socioeconomico

dovrebbe quindi assumere la critica allo sviluppo come asse fondamentale

della propria azione. Si tratta di una scelta cruciale per ricollegarsi alle tante

realtà di lotta che stanno sorgendo in Italia e che si diffonderanno sempre di

più.

Un secondo punto si collega a un altro dato profondo della realtà

contemporanea, cioè il progetto di dominio globale del pianeta, e in

particolare delle zone rilevanti per il controllo delle risorse, progetto che gli

USA hanno iniziato a mettere in atto a partire dagli ultimi anni

dell’amministrazione Clinton, e in maniera evidente a tutti dopo l’11

settembre. Un simile progetto di dominio inevitabilmente genera resistenze, e

nella situazione attuale la repressione delle resistenze comporta la messa in

mora, nei paesi occidentali, della rete di diritti e garanzie che la civiltà

borghese aveva elaborato come diritti del cittadino: l’habeas corpus, il diritto

ad un giusto processo, l’indipendenza della magistratura. Sono tutti aspetti

della civiltà giuridica borghese che la misure legislative adottate negli USA

dopo l’11 settembre (dal “Patriot Act” in poi) hanno cominciato ad attaccare e

indebolire. Analoghi fenomeni stanno avanzando negli altri paesi occidentali

(si pensi alle “extraordinary renditions”). Non si tratta di una tendenza

momentanea destinata a rientrare, ma di un aspetto profondo e fondamentale

della realtà attuale. Se è così, allora una linea di resistenza è rappresentata

dalla difesa dello Stato di diritto.

Un altro aspetto decisivo del capitalismo contemporaneo è l’ossessiva ricerca

del profitto senza limiti e a breve e brevissimo termine. Questo non è possibile

rimanendo nell’ambito della legge (della stessa legge borghese!): di qui il

carattere criminale di una parte sempre più grande dell’economia capitalistica

contemporanea. Criminale nel senso di essere legata a pratiche di truffa e di

corruzione, e nel senso di lasciare uno spazio crescente all’economia delle

grandi organizzazioni criminali, che si confonde sempre di più con quella

“legale”. Gli esempi sono innumerevoli. Basti pensare ai collegamenti che si

devono instaurare fra imprese industriali del nord e camorra per lo

smaltimento illegale dei rifiuti, secondo le denuncie dell’ormai famoso

“Gomorra” di Roberto Saviano. Basti pensare a come il commercio delle armi

porti necessariamente ad analoghi collegamenti, visto che le armi iniziano con

l’essere prodotte legalmente da rispettabili industrie e finiscono poi in mano a

criminalità e gruppi armati di vario tipo. Basti pensare a quali devono essere i

legami che rendono possibili la “ripulitura” dell’immenso fiume di denaro

sporco prodotto da attività come appunto il commercio di armi o la droga, e a

come questo fiume di denaro accresca, in questi tempi di capitalismo

finanziario, il potere di chi, nel mondo dell’economia “ufficiale”, riesce a

sfruttarlo. E si potrebbe continuare notando come la corruzione sia ormai un

aspetto strutturale dell’economia contemporanea. Tutto ciò implica che i ceti

dominanti nel mondo contemporaneo hanno sempre più bisogno di disattivare

il controllo di legalità sui grandi crimini economici. Anche in questo caso,

dunque, la richiesta di difendere lo Stato di diritto ha un carattere di resistenza

e ostacolo al dispiegamento della logica dell’attuale sistema sociale ed

economico.

E’ probabile che all’analisi appena svolta venga mossa, specie da persone di

formazione marxista, l’obiezione che nei caratteri da noi sottolineati non c’è

nulla di nuovo. I ceti dominanti dei paesi occidentali avanzati, si dirà, hanno

sempre sospeso i diritti individuali quando si trattava di reprimere movimenti

che li attaccassero seriamente, e hanno sempre intrallazzato ai limiti della

legalità, o anche oltre tali limiti, quando questo appariva possibile e

conveniente. Questa obiezione manifesta secondo noi una profonda

incomprensione della realtà attuale. Il pensiero che la ispira appare analogo a

quello di chi affermi che, poiché da che mondo è mondo gli esseri umani

hanno sempre usato strumenti omicidi per farsi la guerra, e hanno sempre

cercato di inventare l’arma migliore e più efficace, allora l’invenzione della

bomba atomica non cambia nulla di sostanziale, perché si tratta in fondo pur

sempre dell’invenzione di un’altra arma. Allo stesso modo, è verissimo che i

caratteri di crisi della legalità, che noi abbiamo individuato nella fase attuale,

si possono ritrovare in fasi precedenti delle società capitalistiche, ed è pure

vero che gli aspetti fondamentali del rapporto sociale capitalistico sono

sempre gli stessi, ma le dimensioni in cui si presentano oggi quei caratteri ne

fanno qualcosa di inedito che inaugura appunto una fase nuova. Oggi la

sospensione dei diritti individuali non è una risposta estrema ad una crisi

imminente o in atto, ma si pone esplicitamente come dato permanente delle

nostre società, senza che al loro interno si levino movimenti di protesta. La

simbiosi fra economia legale ed economia illegale non è un dato episodico o

legato a situazioni locali, ma è diventata la normale modalità di funzionamento

dell’economia contemporanea.

Possiamo concludere che una forza politica che voglia contrastare la folle e

distruttiva direzione di marcia della nostra società dovrebbe, oggi in Italia,

scegliere come assi di riferimento la difesa del territorio e la difesa dello Stato

di diritto. A questi assi di riferimento non sarebbe poi difficile collegare la

difesa complessiva dei diritti conquistati dai ceti subalterni nella fase

“socialdemocratica” del capitalismo del secondo dopoguerra.

La tesi che vogliamo affermare con forza a questo punto è che il miglior

quadro possibile in cui inquadrare questo indirizzi è, in Italia, quello

rappresentato dai valori e dai principi che sono stati sintetizzati nella nostra

Costituzione.

4. Perché la Costituzione.

La Costituzione della Repubblica italiana, formalmente (ma soltanto

formalmente) tuttora in vigore, è nata come alto compromesso tra le tre grandi

forze ideali, culturali e politiche che avevano alimentato la lotta antifascista,

vale a dire quella laico-risorgimentale (rappresentata dai partiti liberale,

repubblicano e d’azione), quella marxista (rappresentata dai partiti socialista e

comunista), e quella cattolica (rappresentata dalla democrazia cristiana). Il

terreno del compromesso è stato, trattandosi di una Costituzione, quello

istituzionale, nel senso che aspirazioni laiche, cattoliche e marxiste dovevano

trovare una espressione curvata sul piano giuridico ed una reciproca

limitazione nelle norme regolatrici delle nuove istituzioni statuali che dovevano

venire edificate.

Il compromesso allora perseguito nell’Assemblea costituente risultò alla fine,

quando un lungo e schietto applauso quasi generale sottolineò l’approvazione

della carta costituzionale il 22 dicembre 1947, riuscito sul piano dei principi ed

avanzato sul piano sociale e culturale.

La riuscita del compromesso istituzionale sul piano dei principi risulta evidente

da una semplice lettura degli articoli della carta, i cui principi da un lato

lasciano trasparire una specifica genesi ideale (ad esempio, liberale per

l’articolo 13, cattolica per l’articolo 29, marxista per l’articolo 43), ma dall’altro

sono incorporati in prescrizioni normative non ascrivibili univocamente ad un

determinato indirizzo ideologico e politico, ed accettabili da diverse

angolazioni sulla base di pure ragioni di giustizia.

La natura storicamente avanzata del compromesso costituzionale appare

chiara dalla contestualizzazione della Costituzione della Repubblica italiana

nel suo tempo storico. Essa entra in vigore il 1° gennaio 1948, sette mesi

dopo la fine dei governi di unità nazionale con l’estromissione totale dei

comunisti e dei socialisti, tre mesi e mezzo prima della disfatta elettorale del

Fronte popolare, e nell’ambito di un periodo di controffensiva padronale nelle

fabbriche che inchioda la classe operaia ad un duro sfruttamento e allarga

grandemente la disoccupazione al suo interno. In questo contesto storico una

carta costituzionale che esige, oltre all’eguaglianza formale di fronte alla

legge, anche elementi di eguaglianza sostanziale, che vieta l’iniziativa

economica privata quando sia in contrasto con l’utilità sociale, che prevede

numerosi casi di possibile statalizzazione delle attività economiche,

esprimeva statuizioni più avanzate dei rapporti di forza allora esistenti, tanto è

vero che rimase fin dall’inizio in larga misura inattuata. Per fare un altro

esempio, si pensi a come il partito dei cattolici, conquistata nel 1948 la

maggioranza assoluta in Parlamento, si sia trovato di fronte al limite di articoli

costituzionali che prevedono la scuola pubblica in ogni ordine e grado, il

divieto di finanziamenti statali delle scuole private, la tutela dei figli nati fuori

dal matrimonio.

Se il compromesso costituzionale era nel 1948 più avanzato della situazione

sociale, politica e culturale coeva, oggi è a un livello semplicemente

incommensurabile, in termini di civiltà, di giustizia, di tutela della persona,

rispetto a quello in cui si colloca il concreto esercizio dei poteri dello Stato e

dell’economia, al punto che, nel contesto dell’attuale organizzazione sociale

ed economica e delle miserabili caste partitiche che la servono, l’attuazione

della carta costituzionale configurerebbe una vera e propria rivoluzione

economica, sociale e politica. L’incapacità di capire questo punto decisivo è

indice di profondi limiti da parte delle realtà politiche e culturali (oggi disperse

e minoritarie) che vogliono opporsi alla dinamica distruttiva del mondo

contemporaneo. Come si potrebbe altrimenti rinunciare a presidiare una

trincea così avanzata come quella della carta costituzionale? Certo,

occorrerebbe farlo senza minimamente confondersi con quei difensori della

Costituzione che, insistendo solo sui principi di funzionamento ed equilibrio

dei poteri dello stato conformi alle norme della seconda parte del documento,

tralasciano il rispetto dei principi della prima parte. In questo modo la pretesa

difesa della Costituzione si riduce ad una intransigenza antiberlusconiana

piuttosto grottesca, quando si coniuga, ad esempio, con il supporto, o

comunque la non opposizione, alla partecipazione alla guerra infinita

statunitense e alla spesa militare per sistemi d’arma di chiara valenza

offensiva, in spregio all’articolo 11 della carta. Certo, occorre non coltivare

illusioni giuridiciste: oggi non servono, alla difesa della Costituzione, le

cosiddette istituzioni di garanzia, come la Corte costituzionale, la

commissione affari costituzionali del parlamento, la presidenza della

Repubblica. La partita non si gioca sul terreno giuridico, dato che chi

dovrebbe garantire su quel terreno è interno a quelle stesse oligarchie

partitocratiche che hanno manomesso la Costituzione.

Quel che servirebbe sarebbe incoraggiare e promuovere lotte in difesa dei

diritti del lavoro (contro il precariato, la sottoretribuzione, gli orari eccessivi, i

sistemi di appalto), in difesa della vivibilità del territorio (contro le

cementificazioni speculative, le opere dissestanti, le emissioni avvelenatrici, la

valanga dei rifiuti), per la demercificazione dell’economia (con più beni

conviviali e locali, meno consumo di merci e di energia, e quindi meno

produzione di rifiuti), per la definanziarizzazione dell’economia (contro lo

strapotere di banche e società speculative), per un più rapido esito dei

processi penali e civili (senza barriere di accessibilità e di costo per i soggetti

socialmente deboli), contro mafie e corruzioni, inscrivendo tutti questi obiettivi

nell’attuazione della nostra Costituzione.

I vantaggi di una simile impostazione sarebbero molteplici e rilevanti: 1)

proporre obiettivi di giustizia sociale e di salvaguardia ambientale sotto forma

di principi costituzionali da attuare sottrarrebbe tali obiettivi alle definizioni e

agli schieramenti correlati allo spettro politico esistente ed a cascami di

ideologie oggi vuote di contenuti (liberalismo, cattolicesimo sociale, fascismo

“di sinistra”, comunismo), rendendoli maggiormente capaci di saldarsi alle

ragioni effettive di malcontento, a esperienze vive di lotta, al rifiuto della Casta

che serpeggia nel paese. 2) La carta costituzionale è, sia pure soltanto

formalmente, legge dello Stato, anzi legge fondamentale dello Stato, cui tutta

la legislazione ordinaria sarebbe tenuta a conformarsi. Ovviamente ciò non è

in alcun modo determinante, ma altrettanto ovviamente chi lotta per obiettivi

prescritti da una legge almeno formalmente in vigore è meno svantaggiato di

chi lotta per obiettivi preclusi dalla legge. 3) I principi costituzionali sono

talmente avanzati rispetto allo stato attuale dei rapporti di forza fra le classi ed

al livello culturale delle masse in via di impoverimento, e così contrari alla

logica di funzionamento della società contemporanea, che la loro prassi

attuativa sarebbe insieme legalitaria e rivoluzionaria. Basti pensare a come,

basandosi sulla Costituzione, sia possibile rivendicare il diritto di ogni cittadino

al lavoro retribuito, da parte dello Stato se i privati e il loro “mercato”

mantengono la disoccupazione (articolo 4), oppure la tutela da parte dello

Stato della salute non di ogni cittadino, ma di ogni individuo umano, (articolo

32), oppure il diritto di ogni lavoratore ad una retribuzione che gli assicuri

un’esistenza libera e dignitosa (articolo 36), o la piena parità di trattamento

del lavoratore e della lavoratrice (articolo 37), o la soppressione dell’iniziativa

economica privata là dove essa leda o la sicurezza o la dignità del lavoratore

(articolo 41). E si potrebbero fare altri esempi.

Quale dovrebbe essere il modo concreto di utilizzare le potenzialità insite

nella nostra Costituzione? Non si tratta, a nostro avviso, di creare una

associazione per la difesa della Costituzione o dello Stato di diritto. Questo

per due motivi. Il primo è che si difende qualcosa che più o meno è presente

e sotto attacco, mentre la Casta ha ormai completato l’opera di svuotamento

della Costituzione, per quanto essa resti formalmente vigente. E’ ben noto

che la Costituzione è rimasta largamente disapplicata fin dall’inizio, specie per

quanto riguarda i suoi aspetti più avanzati sul piano sociale. Negli ultimi

decenni questo processo di esautoramento sostanziale è arrivato a

compimento: basti pensare a come l’Italia venga ormai normalmente coinvolta

in teatri di guerra, in spregio all’articolo 11, o a come vengano stravolti perfino

gli aspetti di equilibrio istituzionale, per esempio esautorando il potere del

Presidente della Repubblica di scegliere la persona alla quale affidare

l’incarico per la formazione del governo2. Oppure basti pensare a come, nei

decenni del dopoguerra, l’obiettivo della piena occupazione (che, senza

essere esplicitamente inserito nel testo costituzionale, è chiaramente

sottinteso negli articoli che riguardano il tema del lavoro) sia stato

effettivamente uno degli obiettivi dell’azione di governo, e come invece oggi la

disoccupazione, al di là di esercizi retorici, sia nella sostanza accettata come

un dato di fatto.

Il secondo motivo è che una “associazione per la difesa di” ha senso quando

si parla di questioni in qualche modo settoriali, mentre i principi che hanno

ispirato la Costituzione hanno oggi un valore generale.

Quello che ci sembra necessario oggi non è dunque una “associazione per la

Costituzione”, ma un movimento politico che si ispiri ai principi della

Costituzione e ne sappia trarre un programma politico. Gli articoli della prima

parte della Costituzione non sono un tale programma, ma i principi che li

ispirano possono fornire i valori e stabilire i vincoli di un programma politico.

4. Prima che sia troppo tardi.

Il nostro paese sta attraversando una crisi gravissima. Non si tratta solo del

declino dell’economia ma del degrado sociale, del predominio della

criminalità, del peggioramento di ogni aspetto della vita sociale. Questo

degrado è una conseguenza dei meccanismi distruttivi dell’attuale

organizzazione economica e sociale, che va quindi combattuta da chi si ispiri

a ideali di giustizia, emancipazione e solidarietà. Il principale nemico contro

cui combattere è, oggi in Italia, la Casta politica. La lotta contro la Casta e,

dietro essa, contro l’attuale sistema economico e sociale, può essere fatta

con qualche speranza di successo da un movimento politico che abbandoni

ogni richiamo a ideologie ormai prive di agganci con la realtà (come il

comunismo) e che si ispiri invece ai principi e ai valori della nostra carta

costituzionale. Solo in questo modo c’è almeno la speranza di uscire dalla

sterile contrapposizione fra estremismo ultraminoritario e accettazione

dell’esistente, e di incontrare le esigenze e le speranze dei tanti che vivono il

2 E’ il risultato del fatto che nelle recenti elezioni gli schieramenti indicavano sulla scheda il

nome del candidato premier. Senza dilungarci in questioni giuridico-istituzionali, facciamo

solo notare che si tratta si una innovazione che rafforza l’esecutivo a scapito degli altri poteri

istituzionali, introducendo squilibri che prevedibilmente verranno risolti con ulteriori

rafforzamenti dell’esecutivo.

degrado sulla propria pelle, con rabbia e angoscia impotente. Non c’è molto

tempo. L’acuirsi del degrado porterà necessariamente alla crescita del

malessere. Se le forze che si ispirano a giustizia, solidarietà, emancipazione

non riescono a dare uno sbocco a questo malessere, possiamo ipotizzare una

crisi dagli esiti imprevedibili nei particolari, ma complessivamente negativi. I

casi dell’Argentina e della Jugoslavia ci ricordano ciò che può succedere a

paesi grandi e apparentemente solidi. Alla fine di “Underground”, lo

struggente film che Kusturica ha dedicato alla storia della Jugoslavia, e alla

sua dissoluzione, una voce fuori campo ripete la frase “io avevo un paese”.

Parla della Jugoslavia. Non vogliamo dover ripetere la stessa frase, fra

qualche anno, per l’Italia. E’ l’unico paese che abbiamo.

 

Genova-Pisa, maggio 2008.