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Etologia del sessantotto

di Giuseppe Giaccio* - 26/05/2008

vallegiulia.jpg (21531 byte)I 400 colpi di François Truffaut, film del 1959, si apre con una scena ambientata in una scuola media di Parigi. Antoine Doinel, il ragazzino protagonista della pellicola nel quale il regista riversa l’esperienza della sua tormentata infanzia, non ha un buon rapporto con l’insegnante, il cui ritornello preferito, di fronte alle ripetute turbolenze scatenate dalla classe, è la seguente geremiade: «Vedo molto nero per l’avvenire della Francia. Povera Francia, che futuro le si prepara!». Doinel mostra propositi a dir poco bellicosi nei suoi confronti: «Che carogna il professore, ma prima di andar soldato, voglio spaccargli il muso». Parole profetiche, perché grosso modo nel periodo in cui Antoine avrà l’età richiesta per il servizio di leva, le strade della capitale francese si popoleranno di giovani che, armati di sampietrini, bottiglie molotov e bastoni, di musi ne spaccheranno parecchi; giovani che infliggeranno e subiranno violenze, che faranno il diavolo a quattro, les quatre-cents coups, scagliandosi contro istituzioni ormai prive ai loro occhi di legittimità. Non solo l’Università e la Scuola, ma anche la Famiglia, i Tribunali, la Polizia, la Fabbrica, lo Stato (tutte cose che ritroviamo, con il loro volto più brutale e oppressivo, anche nel film di Truffaut). E dire che, il 15 marzo 1968, Le Monde aveva pubblicato un articolo, a firma Viansson-Ponté, in cui si poteva leggere: «La Francia si annoia»! È sin troppo facile, oggi, con uno sguardo retrospettivo, ironizzare. Eppure, quelle parole contengono, a ben vedere, un nucleo di verità, ci aiutano a capire il contesto nel quale sbocciò la rivolta non solo in Francia, ma in tutti i paesi sviluppati dell’Occidente. Lo scenario è quello che i francesi hanno definito dei Trente glorieuses, cioè il trentennio del secondo dopoguerra che va dal 1945 al 1975. In questo arco di tempo, tutte le energie dei paesi europei si concentrano sull’opera di ricostruzione postbellica e sulla ripresa economica, sociale e politica, favorita anche dai sostanziosi (e ovviamente non disinteressati) aiuti statunitensi, concretizzatisi nell’European Recovery Program, più noto come Piano Marshall. Sono gli anni in cui il cosiddetto compromesso fordista raggiunge il suo apogeo per poi cominciare a declinare. L’impennata demografica (baby boom) e la creazione di una società opulenta, ricca (di una affluent society, come la definì John Kenneth Galbraith) sono le conseguenze di queste scelte che cambiano in profondità i rapporti sociali e fanno emergere problematiche prima impensate che sono avvertite principalmente dalle generazioni più giovani, essendo quelle più mature troppo intente a lavorare, a godersi il benessere duramente conquistato e a sprofondare nella noia, per pensare ad altro o, più semplicemente, per pensare e basta. Le università cominciano ad affollarsi. In Francia, si passa da 50.000 studenti universitari nel 1936 a 250.000 nel 1960 e 500.000 nel 1968. In Gran Bretagna, da una media di 70.000 studenti nel primo decennio del dopoguerra, si passa a 300.000 nel 1965. Anche l’incendio più disastroso nasce da una piccola scintilla. Elementi scatenanti della protesta, in molte università, sono questioni che, col senno di poi, possono sembrare minori: le relazioni tra i sessi negli ambienti accademici, avvertite come troppo rigide, e la richiesta di una maggiore partecipazione alla vita delle strutture universitarie. A partire di qui, gli studenti ampliano lo sguardo all’insieme della società, scorgendo anche in quest’ultima i segni della repressione e dei tentativi di inquadramento che notano nei loro ambienti di studio e dai quali si pensava fosse necessario “liberarsi” (questa è una delle parole-chiave per capire quel periodo) per assurgere successivamente a una dimensione esistenziale più “autentica” (altra parola-chiave). La strada da percorrere per approdare a questo risultato è molto larga ed alquanto confusa e va dalle tesi libertarie espresse nel Manifesto di Port Huron, redatto negli Stati Uniti, dove i maggiori centri della protesta sono le università di Berkeley e Columbia, alla rivoluzione culturale cinese, passando per la Scuola di Francoforte e il marxismo eterodosso. A questa varietà di riferimenti culturali corrisponderà anche una varietà di linee di fuga: le comuni, gli stili di vita alternativi, l’esotismo in salsa indiana e orientale, il pacifismo, ma anche, in alcune realtà nazionali come quella tedesca e italiana, il terrorismo[1]. Due potenti miti contribuiscono a cementare le manifestazioni di protesta che si svolgono nei vari paesi occidentali: la guerra del Vietnam, dove i vietcong, appoggiati dall’URSS e dalla Cina, combattevano per cacciare dal paese le truppe d’occupazione americane sostenitrici del governo di Saigon, e la guerriglia in America Latina, con Che Guevara che diventerà un’icona per intere generazioni. Questi événements, passati alla storia, assieme a parecchi altri, come “il Sessantotto”, sono stati uno dei cavalli di battaglia, ovviamente in chiave critica, del neopresidente francese Nicholas Sarkozy durante la campagna elettorale che lo ha poi visto prevalere sulla sua avversaria, Ségolène Royal. Nel comizio pronunciato al palazzetto dello sport di Bercy, Sarkozy si è presentato come il paladino di quella che all’epoca veniva definita “maggioranza silenziosa”, cioè del cittadino comune, dell’uomo medio, benpensante, borghese, che apprezza l’ordine e che allo Stato chiede solo di non essere disturbato troppo. Il Sessantotto sarebbe appunto responsabile, nella sua analisi, di aver inferto rovinosi colpi di piccone a questo mondo: «Guardate come l’eredità del ‘68 indebolisce l’eredità dello Stato» ha detto, tra l’altro, “Sarko”, «guardate come gli eredi di coloro che gridavano CRS=SS prendono sistematicamente le parti, contro la polizia, dei teppisti, dei casseurs e dei truffatori. […] Gli eredi del ‘68 fanno l’apologia del comunitarismo, denigrano l’identità nazionale, attizzano l’odio contro la famiglia, la società, lo Stato, la nazione, la Repubblica». Qui il bersaglio polemico è, ovviamente, la sinistra, accusata per di più di incoerenza, di predicare bene e razzolare male: «Difende i trasporti pubblici ma non li prende mai, ama la scuola pubblica e non ci manda i suoi figli, adora le banlieues, ma non ci vive, parla di interesse generale, ma si barrica nel clientelismo e nel corporativismo, firma petizioni quando si espellono gli squatters, ma non ne ospiterebbe mai uno a casa sua». In conclusione, il Sessantotto, letto da Sarkozy, «ci ha imposto il relativismo morale e intellettuale. Gli eredi del ‘68 ci hanno imposto che non c’è alcuna differenza tra bene e male, tra bello e laido, tra vero e falso, che l’allievo e il maestro si equivalgono, che non bisogna dare voti, che si può vivere senza una gerarchia dei valori». Più recentemente, Giulio Tremonti ha individuato l’essenza negativa del Sessantotto nell’ «assenza di valori, nella decivilizzazione prodotta dal relativismo» e lo ha accusato di aver distrutto l’autorità, trasformando le società occidentali «in corpi invertebrati, in una poltiglia che – soprattutto in Italia – ha degradato nel particolarismo le strutture vitali della pubblica amministrazione, della scuola, dell’università, della giustizia». Il Sessantotto viene paragonato a un «acido» che ha eroso la tenuta istituzionale e culturale del Paese, esaltando i diritti a scapito dei doveri. La cultura sessantottina, insieme con la sinistra comunista, è una delle componenti che è andata a inquinare il liberalismo, producendo quella sorta di “ogm” politico-economico battezzato “mercatismo”, che costituisce il nemico principale di Tremonti (cfr. La paura e la speranza, Mondatori, Milano 2008). Ci siamo soffermati su queste prese di posizione del presidente francese e di un importante uomo politico italiano perché, a quarant’anni da quel maggio e dagli eventi prima brevemente evocati, costituiscono la migliore risposta all’interrogativo se valga ancora la pena occuparsene, se non si tratti di vicende ormai archiviate e che non hanno più niente da dirci e possono interessare solo gli storici contemporaneisti o i cultori della memoria. Evidentemente sì, ne vale la pena, quantunque sia forte la voglia di lasciar perdere, guardando le malinconiche parabole di tanti protagonisti di allora che, partiti per contestare e fare la rivoluzione, per librarsi liberi nel cielo e far esplodere il capitalismo e i suoi simboli, come in Zabriskie Point di Michelangelo Antonioni (film peraltro molto “dannunziano”), hanno poi perso ogni capacità critica e si sono totalmente appiattiti sull’esistente. Se un candidato alla presidenza della repubblica francese e un ex ministro della repubblica italiana ne fanno tuttora materia di scontro politico, sia pure – e questo vale, in verità, soprattutto per Sarkozy – in modo sommario e per motivi strumentali e discutibili, vuol dire che quei fatti hanno lasciato una traccia nel nostro immaginario collettivo e nella società e che nell’aria vibrano ancora i loro echi. Peraltro, i contemporanei non si resero subito conto di quanto stava accadendo, né a destra né a sinistra. Il caso della Francia è paradigmatico. La destra ritenne che i giovani contestatori che organizzavano assemblee nelle scuole e nelle università, distribuivano volantini, scendevano in piazza, marciavano in corteo e si scontravano con la polizia innalzando barricate, costituissero fondamentalmente un problema di ordine pubblico. Era gente che non aveva voglia di studiare, che faceva un po’ di casino, di baccano (di chienlit, come disse il generale de Gaulle) e che si trattava di riportare nelle aule, con le buone o con le cattive. La vittoria gollista alle elezioni di giugno parve dar ragione a questa tesi. D’altra parte, anche la sinistra istituzionale mal tollerava l’ingombrante presenza di quei giovani dai quali riteneva che ben difficilmente sarebbe venuto qualcosa di buono, dal momento che, stando ai sacri testi, la rivoluzione non poteva che nascere in ambiente operaio, ed essere guidata dal partito comunista (che, peraltro, non sembrava avere molta voglia di farla, sentendosi semmai attratto dalla via socialdemocratica ed accontentandosi, per quanto concerne la rivoluzione, di svolgere una «funzione tribunizia», come la definì Georges Lavau: molte chiacchiere, pochi fatti[2]). Sul piano sindacale, i cosiddetti accordi di Grenelle, che riconobbero alcuni diritti ai lavoratori (tra l’altro, riduzione del tempo di lavoro, aumento del 10% dei salari e del 35% del salario minimo garantito), sembrarono chiudere la partita anche sotto il profilo sociale ed economico. Si poteva perciò archiviare la tempestosa parentesi di maggio e riprendere la vita di prima. Ed invece non era così. Qualcosa era effettivamente successo. E non solo in Francia, ma nell’intero Occidente. Non c’era stata la «Rivoluzione dell’indomani», di cui parlò polemicamente Pasolini in uno dei suoi Scritti corsari (Garzanti). L’idea che la rivoluzione fosse a portata di mano, che si fosse sulla soglia di una rottura epocale, di una nuova presa della Bastiglia o del Palazzo d’Inverno si rivelò ingenua e spinse molti sulla strada senza uscite del terrorismo, eppure i sessantottini riuscirono, in un certo senso, a prendere il potere, dal momento che riuscirono a incidere sulla mentalità diffusa, a condizionarla, anche se poi la loro ribellione fu ampiamente riassorbita, come constatò amaramente lo stesso Pasolini servendosi dell’immagine dei “capelloni” che da simbolo di rifiuto e di anticonformismo divennero ben presto segno di adesione a un mondo, l’Occidente sviluppato, pur a parole criticato. E nel verbalismo, «nuova ars retorica della rivoluzione», egli vedeva uno dei difetti dell’ondata contestatrice.    

Ma in che modo si arrivò a questo risultato? Ci sembra utile, a questo proposito, prendere le mosse da un piccolo saggio di Konrad Lorenz, Gli otto peccati capitali della nostra civiltà, che, pubblicato in Germania a pochi anni di distanza dagli “avvenimenti”, nel 1973, continua ad essere, per chi voglia capire che cosa è davvero successo nella capitale francese, e poi un po’ in tutta Europa (e prima ancora, nei campus universitari californiani), una interessante opera di riferimento. Lorenz, premio Nobel per la medicina, è unanimemente considerato uno dei numi tutelari dell’etologia, ossia della scienza che studia il comportamento animale ed umano dal punto di vista biologico (il che – repetita iuvant – non significa che l’etologia riduce l’uomo alla sfera biologica. Al contrario, Lorenz ha innumerevoli volte affermato che se tutto l’animale è nell’uomo, non tutto l’uomo è nell’animale). Nel testo citato, egli ci fornisce, appunto, una interpretazione etologica di quegli eventi che, pur non pretendendo di essere esaustiva, ne illumina molti aspetti e costituisce ancora un buon punto di partenza per ulteriori approfondimenti e per formulare qualche ipotesi sul futuro.

La contestazione, che in quel periodo toccò soprattutto, come si è visto, gli ambienti giovanili e studenteschi, cui poi si aggiunsero i lavoratori in sciopero, viene interpretata dal grande studioso di origine viennese come una forma patologica di neofilia, di amore per il nuovo. Lorenz non è quindi contrario alle novità in quanto tali, ma solo alle loro manifestazioni eccessive e pertanto il suo atteggiamento non può essere definito reazionario. Egli arriva addirittura al punto di scrivere che «la gioventù ha, in realtà, motivi validi e razionali per dichiarare guerra a tutti i vari establishment». Ogni società sana e in forma è, tuttavia, caratterizzata da una interazione fra saperi tradizionali, appannaggio delle generazioni mature, e pulsioni che spingono ad abbandonare la tradizione in nome del proibito, dell’ignoto, dello sconosciuto. Per motivi facilmente intuibili, queste spinte sono presenti per lo più nelle fasce giovanili della popolazione. La dialettica che ne deriva risulta, al tirar delle somme, positiva per la sussistenza della società. Quando è forte, la tradizione riesce, infatti, ad incamerare questi elementi innovativi, interpretandoli come enucleazione di potenzialità insite nello stesso sapere tradizionale, che ne viene perciò ritemprato, perdendo i suoi rami secchi. Si produce allora un effetto di “ubbidienza ritardata” (A. Mitscherlich). I giovani, nel frattempo cresciuti, riscoprono i valori tradizionali che, peraltro, si presentano in una veste continuamente rinnovata. Ora, è evidente che all’epoca dei famosi événements questo meccanismo si è inceppato, è andato completamente in tilt. La tradizione era talmente indebolita e spappolata da non aver più la forza di metabolizzare le spinte, spesso sacrosante, verso l’innovazione. Non trovando davanti a sé degli argini capaci di contenerla e metterla al servizio della collettività, ma solo uno sterile e controproducente apparato repressivo, l’energia contestatrice dilagò imponendosi sotto forma di culto del nuovo, di giovanilismo, di esaltazione pregiudiziale di ciò che era, o appariva, giovane e di odio altrettanto pregiudiziale per ciò che veniva avvertito come superato, sorpassato, vecchio. Scrive Lorenz: «I professori di estrema sinistra sono presi di mira dagli studenti di estrema sinistra in misura non molto inferiore ai professori di destra: Herbert Marcuse fu una volta insultato nella maniera più volgare da studenti gauchisti guidati da Cohn-Bendit che lo sommersero con le accuse più grossolane, per esempio quella di essere un agente pagato dalla CIA. L’aggressione non era motivata dal suo orientamento politico divergente, ma esclusivamente dal fatto di appartenere a un’altra generazione».

C’è, a nostro parere, una ragione filosofica profonda che spiega come mai la società e il potere furono, all’epoca, colti di sorpresa, sia al livello della piazza, dove ci furono scontri sanguinosi che videro gli studenti sostanzialmente battere in ritirata, sia al livello psicologico e dei valori, cioè al livello più importante, dove si vincono o si perdono le battaglie e le guerre. E la ragione è questa: coloro che si sarebbero dovuti misurare con i giovani studenti in rivolta avevano una matrice culturale non dissimile da quella di molti di loro, erano essi stessi gli eredi di un discorso, quello della modernità, basato sulla sovversione e la distruzione del delicato meccanismo di scambio e arricchimento reciproco fra tradizione e innovazione, a tutto vantaggio di quest’ultima. Se la verità è figlia del tempo (veritas filia temporis), come affermavano nel Seicento Bacone e i moderni, cioè, letteralmente, gli ultimi arrivati, durante la querelle che opponeva appunto gli antichi ai moderni, e se, di conseguenza, chi viene dopo si colloca automaticamente su un piano superiore e migliore, poiché partecipa di un tempo più ricco e pieno ed è perciò più vicino alla verità, viene a mancare ogni valido supporto teorico per contrastare chi si presenta come più moderno. I sessantottini volevano fare, in fondo, ciò che prima di loro avevano già fatto le precedenti generazioni moderne, i loro padri e i loro nonni: percorrere un altro tratto sulla via della liberazione dagli “idoli” e della rivoluzione (in cosa poi consistessero la liberazione e la rivoluzione, era un punto alquanto indistinto che farà del Sessantotto un brodo di coltura in cui si trovano ingredienti non sempre facilmente armonizzabili, pur sullo sfondo di un’ideologia definibile genericamente come progressista). Tutto questo a prescindere dalla legittimità delle rivendicazioni avanzate che, ripetiamolo per non ingenerare equivoci, erano in non pochi casi condivisibili. In quel fatidico Maggio, e negli anni successivi, vi fu dunque contrapposizione, ma anche reciproco interscambio, giacché le parti in conflitto si collocavano, in definitiva, sul medesimo terreno della modernità e del progresso.

Questa costitutiva ambiguità del Sessantotto emerge con grande nitore in quello che è forse, a nostra conoscenza, uno dei testi più interessanti e rivelatori nella vasta, ed in verità non sempre indispensabile, pubblicistica esistente sull’argomento, opera di uno dei protagonisti di quel periodo in Italia, Franco Piperno, co-fondatore della formazione di estrema sinistra Potere operaio, il già citato ’68. L’anno che ritorna (Rizzoli). Si tratta di un’ambiguità fondamentalmente filosofica, relativa, più precisamente, alla filosofia della storia, a un rapporto rimasto irrisolto col tempo. Piperno distingue, nel Sessantotto, due anime principali: la prima, di matrice cattolico-marxista, situata prevalentemente nell’Italia del nord e legata al progetto moderno e alle sue parole d’ordine, le stesse dei “padri”, che pure erano oggetto di contestazione nelle piazze: futuro, progresso, sviluppo; la seconda, radicata nel meridione, in cui il cattolicesimo si è più fortemente coniugato col paganesimo – anima non insensibile all’amor fati nietzscheano e a propensioni dionisiache e che era attenta più al presente, da capire e vivere, che al futuro da sognare e costruire, più interessata a realizzarsi qui ed ora, anziché a progettare i “domani che cantano” e che del progetto moderno denunciava l’esaurimento. Probabilmente, è proprio questa passione per il presente, per l’hic et nunc – che non impediva a questa componente sessantottina di apprezzare l’antichità classica, il medioevo e i mondi premoderni in generale – a spiegare l’opinione non liquidatoria e sbrigativa di Piperno sulla partecipazione di una piccola frangia del radicalismo di destra alle fasi iniziali del movimento e il suo giudizio sferzante sull’antifascismo militante, che all’epoca celebrò i suoi fasti, definito «una sorta di matrimonio tra la furbizia levantina dei politici della sinistra istituzionale e l’attitudine semplificatrice, ingenua e occultante, di molti giovani del movimento, semplificazione tanto più pericolosa perché operante in assoluta buona fede». Resta, tuttavia, il fatto che il grosso del movimento si riconobbe piuttosto nella prima di queste tendenze, il che lo predisponeva, una volta accertata l’impraticabilità della via rivoluzionaria in salsa cattolico-marxista, a riconoscere che la maniera migliore di restare fedeli alla rivoluzione fosse quella neoliberale e globalizzatrice, con qualche spruzzata di buonismo. Scrive, infatti, Piperno che «molti tra i protagonisti del ’68 condividono le stesse illusioni cognitive proprie dei militanti dei partiti di sinistra. Per esempio, l’uso inflativo della parola “futuro”». Illusione da cui non è esente nemmeno il movimento operaio, colpevole di aver continuato a «indossare imperterrito gli occhiali del progetto moderno». D’altra parte, è pur vero che un’immersione nel proprio tempo, nel presente, se non accompagnata da un robusto pensiero critico, è anch’essa l’anticamera dell’assorbimento nell’odiato sistema.

Nel Sessantotto, si aveva a che fare per lo più con studenti, operai e femministe. Oggi, i soggetti e i temi presenti sulla scena mediatica sono altri, ma l’orientamento interiore, spirituale, che entra in gioco è lo stesso. Anche adesso si tende a pensare che gli ultimi venuti (in particolare in ambito scientifico e tecnico) abbiano ragione, appunto perché più “avanti”, più “progrediti”. Benché aspramente criticata e battuta in breccia negli ambienti intellettuali e colti, l’ideologia progressista, nella quale Frédéric Rouvillois ha visto uno dei semi del pensiero totalitario, continua ad avere largo corso sul piano del sentire diffuso, quantunque, come ha osservato Pierre-André Taguieff, rispetto a quarant’anni fa, essa tenda ormai a confondersi col movimento fine a se stesso, avendo perduto ogni telos. Più che di progressismo, oggi bisognerebbe quindi parlare, a suo avviso, di bougisme, ovvero di movimentismo. Posizioni come quella di Sarkozy che fanno leva, da un lato, sulle paure dell’uomo della strada di fronte alla globalizzazione e, dall’altro, sulla riproposizione, in buona misura chimerica, di un modello statuale forte, o come quella di Tremonti che vorrebbe trasformare l’Europa in una fortezza armata di «valori, identità, famiglia, autorità, ordine, responsabilità, federalismo», se possono avere successo nel breve periodo, in quanto danno ai cittadini spaventati dal mondo “liquido” nel quale sono immersi l’illusione di aver ritrovato un approdo sicuro, un’ancora di salvataggio in grado di garantire loro la possibilità di continuare a godere dei vantaggi del mondo “progredito” senza pagare dazio, sono destinate a mostrare presto la corda, perché non mettono in agenda il nodo davvero essenziale, quello del necessario cambio di paradigma che potrebbe permetterci di riannodare i fili spezzati del rapporto fra tradizione e innovazione. Paradossalmente, e pur tra mille contraddizioni, è proprio da alcuni settori del vituperato Sessantotto – che, ribadiamolo, non fu un monolito compatto, bensì un magma dove trovarono ospitalità posizioni anche contraddittorie – che sono venute interessanti indicazioni in questo senso, ed è qui che bisogna eventualmente cercare qualcosa di ancora valido e spendibile nell’eredità del Maggio che tanto dispiace a Sarkozy e a Tremonti. Per riprendere la metafora utilizzata da Pasolini, tra quei capelloni, e i loro eredi culturali, ve ne sono indubbiamente parecchi che non è stato difficile fagocitare e “normalizzare”, perché la loro contestazione, per quanto rumorosa, era tutta interna al sistema, al quale costoro rimproveravano la sua incoerenza tra le promesse (e le premesse), che condividevano, e i risultati effettivamente ottenuti. Si trattava, quindi, di una lite in famiglia. Non stupisce, perciò, che recentemente The Economist, considerato la bibbia del capitalismo, abbia potuto sciogliere un peana in gloria di quello che può essere considerato l’inno di molti sessantottini, Imagine di John Lennon, letto, non senza ragione, come una esaltazione della globalizzazione liberale/liberista, e dove, sotto un patchwork di buoni sentimenti pacifisti e umanitari, si cela la realtà di un duro e spietato sfruttamento (cfr. l’articolo “Tired of globalisation”, 5 novembre 2005). Ma tra quei capelloni ve ne sono pure alcuni che si sono mostrati refrattari alla mutazione antropologica che faceva inorridire lo scrittore e poeta di Casarsa; alcuni, come Ivan Illich, i quali volevano, sì, fare la rivoluzione, ma denunciavano al contempo «il fallimento dell’impresa moderna», pur continuando a sentirsi parte di essa, o meglio parte di un’altra, auspicabile modernità, e si battevano per un mondo conviviale in cui fosse possibile abitare e non risiedere, e contro «la supercrescita» che «minaccia il diritto dell’uomo a conservare le sue radici nell’ambiente nel quale si è evoluto […] il diritto dell’uomo alla propria tradizione, il suo ricorso al precedente attraverso il linguaggio, il mito, il rituale e, anzitutto, il Diritto» (cfr. il suo saggio sulla convivialità). Gli anni della contestazione giovanile sono anche quelli della pubblicazione del celebre studio sui Limiti dello sviluppo, che mise in discussione uno dei pilastri fondanti dell’Occidente, cui ancora Illich opponeva la necessità di «equilibri multidimensionali»; gli anni della diffusione di una sensibilità ecologista, della critica del consumismo e della società dello spettacolo, della riscoperta della dimensione comunitaria, della critica dello statalismo e della valorizzazione della sfera locale-vernacolare, fatta di «valori condivisi all’interno di una specifica comunità» (Illich), della richiesta di una democrazia più partecipativa e sostanziale e meno delegata e rappresentativa, della lotta contro l’imperialismo (termine col quale ci si riferiva normalmente agli Stati Uniti per criticarne la politica estera, ma non vanno nemmeno dimenticate le manifestazioni di protesta dei giovani contro la repressione sovietica della primavera di Praga).   

Questi temi sono tuttora all’ordine del giorno. In un certo senso, si può addirittura dire che, rispetto a quarant’anni fa, sono diventati persino più urgenti e pressanti. I movimenti di contestazione che abbiamo conosciuto negli ultimi tempi – ad esempio, il cosiddetto popolo di Seattle e i no global al livello socio-politico e la corrente della decrescita a livello culturale – affondano molte delle loro radici in un humus che riprende alcuni dei filoni culturali appena ricordati. La lotta contro l’imperialismo non solo non ha perso la sua ragion d’essere, ma ha acquistato ancora maggiore credibilità, dal momento che, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, sullo scenario internazionale è rimasto un solo attore che, approfittando della debolezza altrui, teorizza apertamente l’unilateralismo, ossia la pretesa di collocarsi al di sopra delle leggi che dovrebbero regolare la civile convivenza tra le nazioni. La mercificazione del mondo ha fatto passi da gigante, penetrando fino nei più intimi recessi della vita. Le grandi questioni poste dal discorso ecologista sono ancora più che mai sul tappeto e col passare degli anni tendono ad aggravarsi anziché a risolversi, anche a causa della desolante mediocrità e dell’avvilente squallore di cui hanno dato prova, salvo pochissime eccezioni, gli esponenti dell’ecologismo politico.

Nel Sessantotto, la contestazione su questi ed altri problemi si incanalò nel contenitore della nuova sinistra. Ammesso – e non concesso – che il passato possa insegnare qualcosa, la lezione che dovremmo trarne è che quella strada è sfociata in un vicolo cieco e che forse non è il caso di insistere, come invece si continua a fare negli ambienti sedicenti antagonisti. Destra e sinistra, per quanto nuove, sono, come ha ben mostrato Massimo Cacciari, pur sempre espressioni di un sistema che gravita verso il centro e la sua auto-riproduzione. Questa semplicissima evidenza non viene purtroppo percepita, con la conseguenza di incanalare verso mete illusorie una serie di energie che potrebbero essere meglio utilizzate. Rispetto al Sessantotto, peraltro, queste energie sembrano molto più ridotte. Quarant’anni di martellante seduzione consumistica hanno prodotto effetti devastanti. C’è oggi meno gente in giro disposta a battersi per cambiare le cose, a cominciare proprio dal mondo studentesco, che nel Sessantotto recitò una parte da protagonista negli évenéments. Piperno illustra, nel suo saggio, le ragioni che rendono gli studenti degli elementi potenzialmente sovversivi, ma poi riconosce che la loro attuale condizione è quella di «accidiosi e intrisi di mezza cultura», incapaci di «assumere il ruolo di soggetto». È perciò costretto ad affidare le sue speranze di cambiamento ad una «infima» minoranza di questo mondo, costituita da frequentatori dei centri sociali e da persone dedite al volontariato, riecheggiando una tesi di Marco Revelli sulla quale ci è già capitato di esprimere le nostre riserve[3]. I “leoncavallini” e i loro emuli hanno fino ad oggi brillato soprattutto per il loro fanatismo e il loro settarismo, mentre il mondo del volontariato ha spesso fin troppe aderenze con gli ambienti della modernità progressista detestata dall’ormai incanutito ex-sessantottino[4]. Il fatto, poi, che un liberal-conservatore come Tremonti punti proprio sul volontariato e sul cosiddetto terzo settore per infondere linfa vitale al mondo globalizzato dovrebbe indurre a qualche cautela circa le sue potenzialità rivoluzionarie. Anche se può suonare come consolatorio, è tuttavia vero quello che, in conclusione, osserva Piperno, e cioè che «per fortuna, tra cielo e terra, non accade sempre ciò che è più probabile». Tutto sta, però, nel capire qual è l’improbabilità che sarebbe auspicabile accadesse, e lavorare perché accada. A nostro parere, ciò di cui abbiamo bisogno è una nuova teoria critica che faccia tesoro degli errori commessi (in primo luogo, una presa di distanze dalla società degli oggetti, capitalistica e mercantile, che ha non pochi margini di equivocità) e che, col tempo, divenga prassi coerente. Occorrono nuove sintesi di pensiero, ovvero, per dirla con Alain de Benoist, una grande lessive des idées. Malauguratamente, all’orizzonte si vedono solo timidi segnali che vanno in questa direzione. Chi si oppone al presente ordine di cose, in genere, lo fa senza immaginazione, percorrendo sentieri già battuti e polverosi. Perseverare è diabolico, dice il proverbio. Ma tirando in ballo messer Belzebù, si conferisce una patente di grandezza, sia pure sinistra, a una vicenda che è molto più banale e prosaica. Al punto in cui siamo, perseverare ci sembra piuttosto un comportamento da irresponsabili e da stupidi.       

 

Note

 

[1] Un’altra particolarità italiana fu la fugace partecipazione al movimento di una piccola frangia del neofascismo, sulla quale Franco Piperno, che del Sessantotto fu uno dei leader da posizioni di estrema sinistra, ha espresso delle opinioni indubbiamente sorprendenti. A suo parere, quei giovani di estrema destra «erano nostri simili, giacché divergevamo più per i concetti che per i sentimenti». Essi «erano ammaliati dalla nostra postura sovversiva, e ne venivano irresistibilmente attratti. Poi tutto precipitò». Il richiamo all’ordine di Almirante e del Msi ebbe l’effetto di farli rapidamente allineare sulla linea di partito: «Il posizionarsi della destra parlamentare contro il ’68 creò quelle condizioni morali per le quali, qualche tempo dopo, poté emergere, in quell’ambiente, il delfino di Almirante, il giovane studente bolognese Gianfranco Fini, destinato in seguito a divenire il Depretis in sedicesimo del neofascismo italiano» (cfr. ’68. L’anno che ritorna, Rizzoli, Milano 2008). Per un’analisi da destra di questa vicenda, si veda Alessandro Gasparetti, La destra e il ’68, Settimo Sigillo, Roma 2006.  

 

[2] Cfr. Georges Lavau, À quoi sert le parti communiste français?, Fayard, Paris 1981.

 

[3] In Pluriverso. La politica nell’era della globalizzazione, Settimo Sigillo, Roma 2005, pagg. 165-175.

 

[4] Cfr. Amina Yala, Volontaire en ONG: l’aventure ambiguë, Charles Leopold Mayer, Paris 2005.      

 

*Giuseppe Giaccio. Saggista, traduttore, studioso di problemi di politologia e filosofia politica. Ha pubblicato Pluriverso. La politica nell’era della globalizzazione (Settimo Sigillo, Roma 2004), Dialoghi sul presente (con Alain de Benoist e Costanzo Preve, Controcorrente, Napoli 2005) e il volume di racconti Storie francescane (Controcorrente, Napoli 2006). Un suo contributo, Un “antiraciste différentialiste”?, figura nell’opera collettanea Liber amicorum Alain de Benoist (Paris 2004). Collabora alle riviste di cultura politica Diorama letterario e Trasgressioni.