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Iraq, Chi è il religioso iracheno ''provocatore”?

di Justin Elliott - 26/05/2008

Da Baghdad, il corrispondente esperto di Medio Oriente Patrick Cockburn spiega perché Muqtada al-Sadr non è un battitore libero


“Intervista a Baghdad”, “Intervista a Najaf”, “Intervista a Bassora”,”Intervista ad Amara”: le note alla fine del nuovo libro del corrispondente dal Medio Oriente Patrick Cockburn suonano come un atlante dell’Iraq. Tale è la profondità di ciò che scrive nel suo Muqtada: Muqtada al-Sadr, the Shia Revival, and the Struggle for Iraq [Muqtada:Muqtada al-Sadr, la rinascita sciita, e la battaglia per l’Iraq], una biografia politica che è assieme una cronaca di guerra, che uscirà l’8 aprile.

Come corrispondente del giornale britannico Independent, Cockburn ha trascorso circa metà degli ultimi cinque anni lavorando – senza essere "embedded" - in giro per l'Iraq, un Paese dove continua ad andare dal 1977. Il suo interesse è il vero Iraq, e le voci irachene sono predominanti nel suo lavoro. I funzionari britannici e americani compaiono di rado nel libro. (Lui evita accuratamente le conferenze stampa delle forze Usa nella Green Zone). Quando Cockburn dà spazio alla linea ufficiale, di solito è per smontarla. E’ stato questo suo atteggiamento irriverente a far sì che gli venisse proibito l'ingresso in Iraq a fine anni '90, quando il regime non era stato contento del libro Out of the Ashes: The Resurrection of Saddam Hussein, una raccolta di reportage sull’Iraq che si concentra sul periodo successivo alla Guerra del Golfo - libro che Cockburn ha scritto con suo fratello. In Muqtada, Cockburn oltre ad analizzare l'ascesa di al-Sadr, senza dubbio uno degli uomini più importanti oggi in Iraq, descrive la disintegrazione del Paese attraverso cinque anni di occupazione americana.

Dopo diversi tentativi inconcludenti, sono riuscito a contattare Cockburn per telefono all' Hotel Al-Hamra di Baghdad il 17 marzo, subito prima dell’inizio dei recenti combattimenti a Bassora. Tra il continuo interrompersi della comunicazione, e al di sopra del fragore di un elicottero militare che sorvolava l’hotel, gli ho chiesto quale sarà il ruolo di al-Sadr nel futuro Iraq, e se, nel quinto anniversario dall’invasione, egli veda una qualunque ragione di speranza.

Mother Jones: All’inizio del tuo libro, scrivi che Muqtada al-Sadr è a capo dell'“unico movimento di massa nella politica irachena”. Puoi approfondire questo aspetto, dato che in particolare nei media americani continuiamo a sentir parlare più del governo iracheno ufficiale che di alcune di queste altre fazioni?

Patrick Cockburn: E’ sempre in qualche modo incredibile stare seduto qui a Baghdad e vedere le autorità che vengono in visita –oggi abbiamo avuto Dick Cheney e John McCain- essere ricevute nella Green Zone da politici che hanno di solito molto poco supporto tra la gente e di rado escono dalla Green Zone. Muqtada capeggia l’unico vero movimento di massa in Iraq. E’ un movimento di massa degli sciiti, i quali rappresentano il 60 % della popolazione, e degli sciiti poveri – e la maggioranza degli sciiti sono poveri. Per il resto, il luogo è pieno di leader auto dichiarati, molti dei quali trascorrono la maggior parte del tempo fuori dall’Iraq. Se vuoi incontrare un sacco di leader iracheni, i posti migliori sono gli hotel ad Ammam o a Londra. In generale, il governo qui è sorprendentemente impopolare.

MJ: Quali sono le radici della sua credibilità tra la gente?

PC: Muqtada appartiene a una delle famiglie religiose più famose in Iraq, la famiglia al-Sadr. In realtà, lui è il terzo della lista. [Il padre di Muqtada] aveva sua volta ereditato il suo potere dal primo al-Sadr veramente importante, Muhammad Baqir, che fu giustiziato da Saddam nel 1980, assieme alla sorella. Questa quindi è davvero una famiglia di martiri, ed ecco perché Muqtada è emerso improvvisamente dal nulla a seguito della caduta di Saddam. Se avessero fatto girare la sua foto a Washington al tempo in cui venne rovesciato Saddam, dubito che qualcuno lo avrebbe riconosciuto.

MJ: Qualcuno – fuori o dentro il Paese - ha predetto l’ascesa di Muqtada?

PC: No, assolutamente no. Il padre era morto come pure i suoi due fratelli, assassinati da Saddam nel 1999. Il suocero era stato giustiziato. Lui si trovava più o meno agli arresti domiciliari a Najaf, e per poco non è stato giustiziato a sua volta. Quindi tutti -quelli che conoscevano la storia della sua famiglia- pensavano che l’intera organizzazione fosse stata distrutta. Quello che Muqtada aveva a suo vantaggio era il fatto di essere stato uno dei principali assistenti di suo padre, quindi ha avuto esperienza diretta della politica degli anni '90. Inoltre, aveva un nucleo di persone esperte di politica che lo veneravano, e ha messo assieme tutto questo molto velocemente proprio nei giorni successivi alla caduta di Saddam.

Suo padre era un personaggio molto interessante perché era stato quasi l’unica persona a riuscire a convincere Saddam a fidarsi di lui. Saddam pensò che sarebbe stata una mossa politica veramente intelligente - dopo la grande rivolta sciita del 1991 - avere in pugno un leader religioso sciita. Quindi scelse questo individuo, il padre di Muqtada, che veniva dalla famiglia giusta. Il padre di Muqtada si servì di ciò per creare un movimento di massa. Poi, all'ultimo, Saddam scoprì di aver aiutato la crescita di questo nemico estremamente pericoloso, che rifiutava di usare il suo nome durante il richiamo alla preghiera, e quindi lo fece assassinare a Najaf.

MJ: E’ esatto l’epiteto ,“esponente religioso provocatore”, che i media occidentali utilizzano per Muqtada?

PC: L’idea che egli sia un battitore libero è al 100% in contrasto con il suo curriculum degli ultimi cinque anni. In realtà, è molto accorto, non spinge mai le cose troppo a fondo, e cerca di non essere messo a sua volta in un angolo. [L. Paul] Jerry Bremer tentò di arrestare Muqtada e scatenò una tremenda rivolta in gran parte del sud dell’Iraq nel 2004. Si può vedere come tutti questi americani nella Green Zone non abbiano assolutamente capito il tipo di appoggio che lui riesce a ottenere. Annunciarono che lo avrebbero arrestato, e subito tutto il sud dell'Iraq esplose, e Bremer [non riuscì] più a controllarlo - Muqtada invece sì. In seguito ci fu il grande assedio a Najaf. Ma Muqtada cercò sempre una qualche via d’uscita. Dunque, l'idea di lui come un esponente religioso dal comportamento indipendente, un provocatore, è uno di questi assurdi cliché giornalistici che sfuggono al controllo, malgrado il fatto che venga contraddetto da tutto ciò che accade.

MJ: Un’altra cosa che si nota è che i giornalisti lo descrivono spesso come un “esponente religioso radicale”. C’è qualcosa di radicale in al-Sadr?

PC: Beh, è un po’ più esatto. Egli è radicale nel senso che vuole la fine dell’occupazione Usa, e l’ha sempre detto fin dall’inizio. In secondo luogo, l'appoggio di cui gode tra gli sciiti in realtà segue divisioni di classe; a sostenerlo sono soprattutto i poveri. La sua organizzazione gestisce una rete sociale di enormi dimensioni. Malgrado il fatto che nelle riserve del governo iracheno ci siano miliardi di dollari, in qualche modo esso è incapace di farli arrivare alla gente. Ci sono moltissime persone qui che sono ai limiti della sopravvivenza. Per questo genere di persone - una parte piuttosto ampia – questo servizio fa loro considerare Muqtada come una specie di dio.

Un altro elemento è che egli ha sempre potuto contare su un nucleo di giovani. Giovani sciiti che sono cresciuti con niente, che sono piuttosto anarchici, piuttosto pericolosi. Il mio libro inizia con un battibecco che ho avuto con loro nel 2004, quando sono arrivati quasi a uccidermi, e naturalmente hanno ucciso un gran numero di iracheni. Questo è un grande punto di forza per Muqtada.

MJ: Lei scrive che, dalla prospettiva Usa, Muqtada sembra una versione più giovane dell'Ayatollah Khomeini - più del necessario. C'è qualcosa di vero in ciò?

PC: In questo c'è un elemento di verità. Ma, dal momento in cui George Bush decise di rovesciare Saddam, quelli che qui ne avrebbero tratto vantaggio erano gli sciiti, che sono il 60% della popolazione. Quindi, se ci fossero state elezioni, gli sciiti sarebbero andati al potere. Una grossissima parte dei problemi americani in Iraq negli ultimi cinque anni deriva dalla convinzione degli Stati Uniti che in qualche modo qui si potesse escogitare una formula secondo cui Saddam non ci sarebbe più stato, e i partiti religiosi sciiti – personaggi che assomigliano un po’ a Khomeini, non solo Muqtada, ma tutti gli altri religiosi - non avrebbero preso il potere. Gli Stati Uniti non l'hanno mai trovata. Non penso che esista.

MJ: Quindi, se i Democratici vincessero le elezioni negli Stati Uniti, e tenessero fede alla loro promessa di ritirarsi o di ritirare la maggior parte delle truppe dall’Iraq, che ruolo avrebbe al-Sadr in questo scenario?

PC: Un ruolo assai vitale. Egli è in qualche modo il leader sciita più importante, che ha il maggior supporto popolare. Se domani ci fossero elezioni, probabilmente avrebbe una vittoria travolgente nella Baghdad sciita e nella maggior parte del sud. Non prenderà il controllo di tutto l’Iraq perché di questi tempi il Paese è molto diviso. I kurdi non lasceranno mai che gli arabi prendano il controllo della loro parte, e i sunniti lotteranno come tigri per impedire agli sciiti di prendere il controllo delle loro zone.

MJ: Come sarebbe un Iraq sotto al-Sadr?

PC: Non penso l’intero Iraq sarebbe sotto al-Sadr, ma penso che lui sarebbe la forza predominante da parte sciita. In modo del tutto contrastante con questa immagine di battitore libero, provocatore, egli ha dimostrato una propensione a trattare con l’altra parte, a cercare compromessi, a negoziare. [In Iraq] si potrebbe avere una federazione dai vincoli non troppo stretti. Ci sono alcune cose che potrebbero tenerla insieme, in particolare i proventi del petrolio. Ma al momento, la tanto vantata surge ha avuto un certo successo principalmente, a mio parere, perché di questi tempi i sunniti e gli sciiti iracheni si odiano e si temono a vicenda più di quanto odino e temano gli americani.

MJ: Lei scrive nel libro che gli Stati Uniti nonché i politici iracheni regolarmente non riescono a riconoscere in quale misura l’ostilità verso l’occupazione domini la politica irachena. Quanto della popolarità di al-Sadr attribuisce al fatto che parla contro l’occupazione?

PC: Oggi stavo facendo molte interviste con iracheni qualunque, e tutti l’hanno sollevata - la questione dell’occupazione americana. I più recenti sondaggi d’opinione mostrano che sette iracheni su dieci vogliono che le forze straniere lascino l’Iraq, e la maggior parte vogliono che se ne vadano adesso. Uno dei problemi del governo iracheno insediato nella Green Zone [è che] l'essere associato all’occupazione lo danneggia e ne riduce l'autorità. Molte persone con cui parli qui, in particolare sunniti, non dicono solo “il governo”, ma “il governo traditore”. In qualche maniera questo è estremamente semplice e ovvio. Ci sono molti pochi Paesi nel mondo che accettano di essere occupati. Ed è un po' strano che questo fatto assai evidente – che probabilmente è stato un fattore decisivo per il quale gli Usa qui si trovano in tali problemi - non sia mai stato davvero capito a Washington.

MJ: Nel suo pezzo, scritto per il quinto anniversario dell’invasione, lei definisce l’Iraq come “un insieme di ghetti sunniti e sciti ostili, divisi da alti muri di cemento”. Questa è un’immagine abbastanza tetra. Vede una qualche ragione di ottimismo all’orizzonte?

PC: Beh, non molto. Perché mi sembra che tutte quelle cose che hanno condotto alla violenza siano ancora presenti. La situazione corrente mi ricorda la guerra in Libano, che durò in realtà dalla metà degli anni '70 fino al 1990. C’erano periodi in cui l’equilibrio del potere era instabile. Baghdad dà la stessa sensazione al momento. Sunniti e sciiti non si stanno avvicinando; gli uni non vanno nelle zone degli altri. La disputa sunniti-sciti, la disputa araba-kurda, la disputa iracheno-americana - nessuna di queste cose è risolta, e ognuna di esse potrebbe prender fuoco in qualsiasi momento, e quasi certamente lo farà.

Uno dei problemi con i media che seguono questo posto è che ci sono degli stereotipi di notizie, uno dei quali è “la guerra infuria” e l’altro “la pace albeggia”. E non c’è molto nel mezzo. Quando parlo con i giornalisti stranieri, spesso digrignano i denti perché gli è stato chiesto un pezzo su come i negozi stiano riaprendo, i ristoranti anche, e così via - articoli allegri. E semplicemente non è così.

Mother Jones


Justin Elliott è editorial fellow a Mother Jones.


(Traduzione di Sheila Pierobon per Osservatorio Iraq)