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Quale futuro per il Libano?

di Antonella Vicini - 26/05/2008

 

Rinascita ha incontrato Talal Khrais.


A pochi giorni dagli accordi sottoscritti a Doha tra le forze politiche libanesi, si attendono i primi passi concreti che mettano fine a una lunga crisi iniziata dopo l’attentato a Rafik Hariri, passata per la guerra del 2006, l’uscita dal governo dei ministri dell’opposizione e il vuoto istituzionale lasciato dalla fine del mandato presidenziale di Emile Lahoud. Prime tappe in agenda dopo il black out, l’elezione di Michel Suleiman, a nuovo capo di Stato, e, subito dopo, lo scioglimento dell’attuale esecutivo per un altro di unità nazionale, guidato, secondo indiscrezioni, da Sa’ad Hariri. Ma il risultato ottenuto in Qatar può considerarsi la via per uscire dal buio? Ne abbiamo parlato, a Roma, con Talal Khrais, giornalista libanese, corrispondente per As Safir in Italia, e profondo conoscitore della storia del suo Paese.

In Libano qualcosa sta realmente cambiando? Basta una sigla su un accordo?
Questa firma non è avvenuta per buona volontà dei leader, ma perchè c’ è stata una pressione popolare molto forte. In Libano esiste una grande cultura di pace. La più grande prova di questo c’è stata il 7 maggio, quando i miliziani sono scesi nelle strade e la popolazione li ha lasciati occupare tutta Beirut, senza resistere, anche se avrebbe potuto perché in Libano, come negli Stati Uniti, tutti hanno armi in casa. Invece, nessuno ha resistito, nemmeno i filo governativi. Questo perchè esiste una grande coscienza di pace, la volontà di vivere con gli altri.

Il 7 maggio Hizbollah ha fatto una prova di forza e sembra che l’abbia vinta.
No. È stata una sconfitta, malgrado il suo arsenale, la sua forza. Perché ha fatto paura agli altri partiti e alle altre comunità. Il gruppo per la prima volta è sceso nelle strade e nelle piazze con le armi. La gente non ci è abituata. È abituata a vederli sulle alture nel sud del Libano a sorvegliare, difendere la nazione. Per questo motivo è stata una sconfitta. Ha perso quello che ha guadagnato in trent’anni.

Quindi la percezione di Hizbollah tra la gente è cambiata?
Sì, ma non in modo definitivo. Hizbollah si è guadagnata un grande credito per aver difeso Beirut e tutto il Libano. L’occupazione delle strade e delle vie d’accesso all’aeroporto, anche il sit in durato più di un anno sono stati, però, elementi troppo pesanti nella fragile situazione libanese.

Ma se Nasrallah non avesse agito così si sarebbe arrivati lo stesso a Doha?
Credo che si fosse già su questa strada. Nel caso contrario vorrebbe dire aver costretto gli altri al dialogo. Non si può costringere gli altri partner del Paese, bisogna sempre dialogare. In Libano, nonostante i problemi, il confronto è sempre stata la linea maestra.

Finora, però, sia i tentativi di Moussa sia quelli degli europei (D’Alema- Kouchner- Moratinos) sono caduti nel vuoto.
La differenza è che quello che è successo il 7 maggio ha fatto molta paura agli altri Paesi arabi, più che ai libanesi. I Paesi arabi temevano davvero una guerra civile, per motivi molto seri.
In Libano non c’è un salafismo forte. Entrare in conflitto con la comunità sunnita, rappresentata dalla maggioranza di Hariri, avrebbe significato radicalizzare il conflitto; un risveglio dell’estremismo sunnita. E questo è molto pericoloso. Hizbollah ha evitato, infatti, sempre lo scontro con i sunniti, in particolare con i salafiti.
Già ricordiamo cos’è successo nel maggio 2007 quando Fatah al Islam ha preso il possesso del campo profughi di Nahr el Bared. Fatah al Islam è cresciuta grazie al sostegno di movimenti sunniti estremisti che accusavano Hizbollah di aver guadagnato troppo potere e la comunità sunnita di aver perso il suo ruolo.
Pensi cosa poteva succedere se Hizbollah avesse continauto a scontrarsi, ora, nelle strade di Beirut.

A Nahr el Bared ha avuto un ruolo importante l’esercito guidato da Michel Suleiman. In questi ultimi scontri le forze armate libanesi invece non si sono schierate. Un fattore determinante?
Certamente. È stato straordinario. Non solo non si è schierato, ma ha avuto ruolo fondamentale per non far precipitare la situazione e ha protetto i civili, tutti: sunniti, sciiti, cristiani.
Il risultato di aver scelto come presidente della Repubblica il capo dell’Esercito, che rappresenta il consenso nazionale di maggioranza e opposizione, è un elemento di equilibrio all’interno dell’esercito.
Con Suleiman l’esercito ha capito i suoi compiti: difendere i civili e il confine, senza entrare in conflitto. Bisogna riconoscere che l’esercito ha cercato di evitarlo in tutti i modi, attraverso la mediazione.
Questo è il merito di questo generale per cui tutti si sono riuniti a Doha.

Anche se, durante la guerra con Israele, Suleiman è stato criticato per aver lasciato agire liberamente Hizbollah ?
L’esercito libanese è appena attrezzato, ancora molto fragile.
Non ha nessuna possibilità di fronteggiare una forza regolare e potentissima come quella israeliana. Nonostante questo, nell’estate 2006, le nostre forze armate hanno perso molti uomini.
Ma non poteva essere completamente sacrificato.
Israele avrebbe potuto annientarlo e ci sarebbero voluti anni per ricostituirlo. Hizbollah è invece preparato. Dall’84 combatte come guerriglia, una guerriglia molto moderna che è riuscita a superare barriere tecnologico-militari israeliane.
Un esempio è quello del carro armato Merkava, progettato e prodotto in Israele, che costa milioni di dollari. I palestinesi sono riusciti a distruggerlo solo una volta nella loro Intifada. Hizbollah nel 2006 aveva razzi infrarossi in grado di penetrarlo.
Questo per dire che Hizbollah è un partito moderno, attrezzato e tecnologico che non arriva impreparato.

Tornando alla situazione di ora. Un fattore rilevante nel cambiamento di questi ultimi giorni è stata, forse, la scelta della sede del summit in Qatar; per i suoi buoni rapporti sia con Usa e Israele, sia con Iran e Siria?
Sicuramente. Il Qatar ha avuto un ruolo importantissimo. È un Paese molto vicino al Libano. La maggior parte della leadership qatariota ha avuto la propria educazione giovanile in Libano, nelle scuole libanesi.
Lo stesso vale per i sauditi che però temono di più un’influenza iraniana. Il Qatar invece ha tenuto rapporti buoni con tutti, governo e opposizione, Siria, Israele e Stati Uniti.
Sin dal primo giorno del conflitto (estate 2006, ndr) il suo emiro ha visitato la periferia sud mentre erano in corso i bombardamenti. Queste relazioni hanno permesso al Paese di svolgere un ruolo fortissimo. Non si può immaginare quanto loro conoscano dall’interno la realtà libanese. Questo è emerso nei colloqui, ad esempio, sulla legge elettorale. Loro sono stati in grado di discutere i dettagli con i libanesi. Lo stesso è successo sul governo di unità nazionale, una questione complicatissima in Libano che significa rispecchiare le 18 comunità etnico-religiose nel parlamento, rispettare la democrazia e, nel contempo, tener conto degli equilibri. I rappresentanti del Qatar discutevano dei collegi. Per questo penso che l’accordo sia buono e reggerà.

Nell’intesa di Doha si parla di riforma elettorale ma anche di consolidare il potere dello Stato. Rispetto alle milizie. La maggioranza sperava, attraverso questo, di limitare Hizbollah?
Anche nell’opposizione c’è chi ritiene che non ci sia più bisogno di armi, come il generale Michel Aoun. Questo è il momento di avere una strategia comune per evitare che le armi siano usate all’interno. Una delle questioni da affrontare è il ruolo di una milizia popolare, tanto più potente dell’esercito, che si potrebbe integrare con esso. In questo credo avrà un ruolo importante il nuovo capo dello Stato.
Ma la strada è molto lunga.

Domenica finalmente si vota per l’elezione del capo di Stato. Il parlamento è stato aperto. Le urne preparate. Ogni volta che in Libano sembrano raggiunti obiettivi importanti accade qualcosa che ribalta tutto. Mi riferisco a autobombe e attentati. Crede possa avvenire anche stavolta?
Oggi, credo che non sia nell’interesse di nessuno un Libano instabile, perché si tratta di una realtà molto delicata.
Instabilità in Libano vuol dire instabilità anche altrove. Certamente c’è chi ha approfittato della democrazia libanese per fare le proprie guerre.
Adesso però (nel Vicino Oriente, ndr) ci sono scenari diversi e altre strade.
C’è la questione palestinese da risolvere, o con la resistenza entro i propri confini o con una soluzione pacifica. Ci sono la Siria e Israele, la questione del Golan. Anche qui la soluzione può essere militare - come hanno fatto i libanesi liberando il proprio territorio - o il dialogo, come stanno facendo ora.
Da parte loro, gli israeliani non riescono più a sopportare una situazione simile. Una volta i loro confini erano blindati. Dal 2001 a oggi Hamas è riuscito a lanciare 4000 razzi contro le città israeliane. Tel Aviv ha bisogno di una sicurezza che ora non è più in grado di garantire.
Si può combattere tutto, ma non si può combattere un popolo, le anime della gente. Questa è la questione.