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L'evoluzione della missione Afghanistan e la subalternità della politica estera italiana

di Fabio Mini (Generale) - 27/05/2008

 
 

Le posizioni dei nostri ministri degli Esteri e della Difesa sull’impiego italiano in Afghanistan sono sostanzialmente identiche. Nel politichese di un tempo avrebbe voluto dire che sono distanti anni luce, ma non sembra questo il caso anche se il ministro Frattini vuole allineare le nostre forze ai maggiori alleati rendendo la missione più aggressiva, mentre il ministro La Russa vuole salvaguardare una parvenza di autonomia rendendola più efficiente.

 

Entrambi lasciano intendere che finora le nostre truppe non hanno fatto abbastanza ed invocano la flessibilità cercando di dimostrare che essa non comporta né cambiamenti, né maggiori rischi. Sbagliato. Tradotta in termini militari la flessibilità a cui fanno riferimento comporta invece più rischi, una gamma di operazioni più ampia, forze più mobili, più versatili e più integrabili in contesti multinazionali. In soldoni, più carri armati, missili, elicotteri, aerei, intelligence, più combattenti e barelle.

 

Il ministro La Russa ritiene di poter ottenere maggiore flessibilità incidendo sul fattore tempo. Secondo lui essere più flessibili significa non avere 76 ore di tempo per rispondere alle richieste Nato ma soltanto sei. Operativamente sei ore sono una eternità identica alle 76. In realtà non servono più di sei minuti per dare una risposta politica ad una richiesta militare della Nato. E se l’intervento è necessario e urgente, il caveat non si applica. Dal punto di vista operativo, il caveat temporale (massimo e non minimo) serve perciò da alibi per l’indecisione. Dal punto di vista politico serviva invece ad un governo diviso e traballante a prevenire e vagliare le richieste, a decantarle e a frenare le pulsioni omicide o le frustrazioni di gente che non faceva differenza nell’ammazzare dei civili o dei terroristi.

 

Quel tempo era una prova di profonda sfiducia nelle regole, nella politica e nella strategia dei maggiori alleati che, mescolando la missione di assistenza con la guerra di "Enduring Freedom", le avevano rese inefficaci e inutilmente vessatorie nei riguardi del popolo afgano. Nulla è cambiato nell’atteggiamento, nelle strategie o nei risultati dei nostri alleati perché questa sfiducia possa essere rimossa. Semmai, proprio perché tira un vento di allineamento acritico, il tempo di decantazione e riflessione è più necessario che mai.

 

Il ministro Frattini insiste sull’aspetto geografico della flessibilità: bisogna rimuovere i limiti ai nostri interventi in aree diverse da quelle assegnate. Anche questo è un caveat teorico che non ha mai impedito ai nostri di fare il loro dovere e più del loro dovere. È un caveat che tutte le nazioni hanno e che i cosiddetti alleati maggiori impongono in maniera feroce. Cattiveria, miopia? No, è una questione di autonomia di comando e controllo. La flessibilità geografica e l’allineamento di Frattini possono includere operazioni che destabilizzano gli equilibri locali che altri hanno faticosamente costruito, e comunque comportano l’impiego delle nostre truppe in settori distanti, diversi, sotto comando altrui, in situazioni provocate o subite da altri. Significa dare uomini per operazioni non chiare e per scopi diversi dalla lotta al terrorismo o dalla ricostruzione. La flessibilità geografica comporta quindi una preparazione diversa, mezzi diversi, regole d’ingaggio diverse, responsabilità e rischi diversi. Significa fare quello che vogliono gli altri alle dirette dipendenze degli altri.

 

Non è esattamente una evoluzione. È vero che la guerra è guerra, ma allora bisogna ribattezzare la missione e prendere atto che la rimozione dei caveat non ci consegna più libertà, efficienza e conoscenza, ma so lo più subalternità e maggiore corresponsabilità negli errori o nelle velleità altrui.