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Bellezza, bontà e verità dell'amicizia spirituale nel pensiero di Aelredo di Rievaulx

di Francesco Lamendola - 27/05/2008

 

La cultura laicista, materialista ed evoluzionista oggi dominante ha praticamente tirato un rigo sopra  quasi un millennio di storia europea - il "buio" Medioevo! - e, in particolare, sul fenomeno che di esso è stato più caratterizzante: quella straordinaria fioritura di pensiero e di spiritualità che va sotto il nome di "monachesimo".

O meglio, gli si riconosce, sì - a denti stretti - il merito di aver salvato il salvabile della cultura classica e della "civiltà", all'epoca delle cosiddette invasioni barbariche; di aver intrapreso una vasta opera di bonifica agraria, attraverso le abbazie benedettine, nel momento della più grave crisi demografica e del massimo abbandono delle terre. Si riconosce anche, nel caso dell'Italia, l'importanza della cultura monastica come fucina della nascita della lingua volgare (basti pensare al famoso "Indovinello veronese": Se pareba boves, ecc.); però non si va oltre e, comunque, si utilizzano questi dati all'interno di un paradigma minimalista, volto a "dimostrare" che l'Europa è riemersa dalla barbarie non tanto "ad opera" dei monaci, ma, quasi quasi, nonostante i monaci. Romanzi e film come Il nome della rosa hanno molto contribuito a trasmettere al grosso pubblico l'immagine di un monachesimo laido e sgradevole, formato da uomini depravati o paranoici, schiavi volontari di una tortura autoinflitta che li trasformava in potenziali ossessi o criminali.

Sì, è vero: c'era, e rimane, la questione delle cattedrali. In un tale paradigma, infatti, rimane da spiegare come la civiltà monastica e, più in generale, la spiritualità cristiana, abbiano potuto ornare l'Europa, nel giro di tempi straordinariamente brevi, di incredibili monumenti di pietra che ci lasciano ancora attoniti per le dimensioni, per l'armonia, per la sintesi di perfezione costruttiva e di sapienza spirituale. Questa è una cosa che la cultura neoilluminista e neopositivista, di cui oggi andiamo tanto fieri, non riesce a spiegare…

Così come resta da spiegare come migliaia e migliaia di uomini e donne, provenienti da ogni classe - in un'epoca di nettissima separazione sociale - si siano affrettati a rinchiudersi entro le mura dei conventi, "seppellendosi" in una vita durissima, fatta di privazioni e di rinunce. Già, privazioni e rinunce: si pone sempre l'accento sull'aspetto negativo del monachesimo. Una eredità del mondo tardo-romano, in effetti: basti leggere quei versi del De Reditu di Rutilio Namaziano, nei quali il poeta se la prende, con parole assai forti, con quegli sciagurati eremiti che abbandonano la vita di società per isolarsi una selvaggia solitudine, su qualche isola disabitata. Ciò mostra quanto "vecchi" siano, in realtà, illuminismo e positivismo, che pure continuano a spacciarsi per filosofie "all'avanguardia".

Eppure, armato di tali pregiudizi nessuno storico del Medioevo riuscirà mai ad andare lontano. Diamo solo una cifra. San Bernardo di Clairvaux giunse con trenta compagni a Citeaux, nel 1112, dopo che San Roberto d Molesmes vi aveva fondato l'ordine cistercenese quattordici anni prima, ossia nel 1098. Ebbene, alla morte di san Bernardo, nel 1153, in ogni parte d'Europa, e fino alla Terra Santa, erano sorti 343 monasteri di stretta osservanza. Trecentoquarantatre! Senza contare i monasteri degli altri ordini: camaldolesi, certosini, ecc. Nessuno potrebbe spiegare un dato così impressionante, se non ammettendo che quelle migliaia e migliaia di persone non cercavano, in convento, una semplice fuga dal mondo: troppo dura era la vita che vi si conduceva, perché un giovane potesse resistervi senza una profonda vocazione.

Certo, non vi è dubbio che nella vita monastica - come in ogni altro campo dell'operosità umana - siano entrate anche persone spinte da motivazioni di altro genere - sociale, politico, giudiziario; ma ciò non consente di rendere ragione di un fenomeno di tale ampiezza e di tale durata. Gli storici di formazione marxista, ad es., che vorrebbero spiegare ogni cosa sulla base della struttura economica, non si accorgono di una semplice verità: che nessuno può resistere fra le mura di un convento per tutta la vita, se non è mosso da ideali genuini. Senza di essi, il monachesimo non sarebbe durato per un così lungo arco di secoli, ma si sarebbe esaurito ben presto.

Il fatto è che chi entrava in convento non pensava tanto alle rinunce che avrebbe dovuto sopportarvi, quanto alla pienezza di vita che si aspettava di trovarvi, pienezza rispetto alla quale tali rinunce erano dei semplici mezzi, necessari e indispensabili: così come è necessario farsi venie i calli alle mani nel maneggiare la vanga, se si vuole disseppellire un tesoro che si sa essere nascosto proprio nel guardino di casa…

 

Tra le figure dei monaci cistercensi che, fra XI e XII secolo, arricchirono la storia della spiritualità occidentale, ci piace ricordare qui quella di Aelredo di Rievaulx: un nome ben noto agli specialisti, ma - crediamo - sconosciuto, o quasi, al grande pubblico.

Chi era costui?

Così ne rievoca la figura Jordan Aumann nel suo utile volume Sommario di storia della spiritualità (titolo originale: Christian spirituality in the catholic tradition, San Francisco, Ignatius Press, e London, Sheed & Ward, 1965; traduzione italiana di L. Borriello e M. Del Genio, Napoli, Edizioni Dehoniane, 1986, pp. 160-162):

 

Tormentato per tutta la vita dalla cattiva salute, Aelredo entro nel monastero cistercense di Rievaulx a 24 anni. Morì nel 1167, dopo essere stato abate per 30 anni. Per molti anni amministrò l'abbazia dall'infermeria e acquistò grande fama come direttore spirituale. Aelredo fu completamente monastico nel suo insegnamento spirituale e nei suoi scritti, con i quali spronava i monaci a raggiungere l'unione con Dio abbandonando se stessi e il peccato; e a ricostruire in se l'immagine di Dio, perduta con il peccato, attraverso l'amore dei fratelli.

Le sue opere sono i sermoni re i trattati. Di questi i migliori sono: lo Specchio della carità, Gesù a 12 anni, e L'amicizia spirituale. Aelredo apprezzava la vita eremitica e infatti egli scrisse un trattato, per sua sorella, sulla formazione di una eremita, ma era molto più favorevole alla vita cenobitica.

Secondo Aelredo tutto l'essere dell'uomo sospira a Dio che ha messo questo desiderio nel cuore umano. Più di ogni altra cosa, l'uomo cerca di arrivare a Dio quando vaga nella "landa della dissomiglianza" a causa del suo peccato. È solo attraverso Cristo che l'uomo può realizzare questo desiderio innato e perciò egli amerà Cristo come suo amico carissimo. In verità, «Dio stesso è amicizia» e «colui che dimora nell'amicizia, dimora in Dio e Dio in Lui». L'amicizia umana, se è  spirituale, può essere un mezzo di amicizia con Dio. Chiunque gode di una simile amicizia è veramente amico di Dio. L'amicizia con Dio, perciò, costituisce la perfezione «perché amare Dio è unire la nostra volontà a Dio così completamente che qualsiasi cosa la volontà divina prescriva, l'umana volontà vi acconsente».

Per Aelredo il monastero non è solo, come diceva S. Benedetto una scuola per il servizio del Signore (Prologo, 45); è una «scuola di amore». Sotto l'abate, che sta al posto di Cristo, i monaci sono condotti all'amicizia con Dio attraverso il loro amore fraterno in comunità. Tuttavia questo non deve far pensare che la vita monastica sia una sorgente di gioia continua. L'abbandono della volontà umana alla volontà divina implica sofferenza, e la vita quotidiana in comunità presente spesso tribolazioni e croci. Alcuni monaci possono anche domandarsi, come fece Bernardo, perché sono andati al monastero e qual è il valore della loro vita nascosta. A questi Aelredo risponderà dimostrando l'importanza dell'imitazione di Cristo e dei suoi apostoli che soffrirono persecuzione e morte.

«Tutti a motivo della carità, e l'abate con i suoi consigli devono prevenire ciascuno dal deviare o dal ritardare il cammino. Questa fiducia nella vita monastica non è peculiare a S. Aelredo, ma egli ne parla con un fascino, un buon umore e nello stesso tempo un umorismo che sono suoi propri. S. Bernardo, suo maestro, è un dottore della Chiesa; mentre S. Aelredo è solo un dottore della vita monastica; e tuttavia il suo insegnamento ha un valore universale perché il monachesimo è parte della Chiesa, egli insiste sull'unità dello spirito. Tuttavia, egli è prima di tutto maestro dei monaci. Il teologo è sempre il simpatico Padre Abate» (J. Leclercq).

 

Appunto sul trattato L'amicizia spirituale, scritto in forma di dialogo, vogliamo ora soffermare la nostra attenzione, a causa del valore intrinseco dell'opera e anche, crediamo, per il messaggio perenne in esso contenuto; se è vero, come afferma Cicerone nel De amicitia, che una vita senza amicizia non è veramente vita.

L'opera è formata da tre libri, un prologo e una appendice.

Nel Prologo, Aelredo espone le ragioni che lo hanno indotto a prendere la penna per comporre l'operetta, sulla spinta della lettura di Cicerone e, molto di più, di quella delle Scritture e dei Padri: volevo amare in modo spirituale e non riuscivo. Con questa candida confessione, egli ci apre - fin dalle primissime righe - tutto il suo cuore; e, con disarmante sincerità, ci informa che ha deciso di scrivere un libro sull'amicizia spirituale non perché si ritenesse un maestro in materia, ma, al contrario, perché si sentiva inadeguato, e voleva cercar di aiutare se stesso a realizzarla e, se possibile, giovare anche ad altri.

Nel Primo dialogo (che si svolge tra lo stesso Aelredo e Ivo, in un monastero dipendente da Rievaulx), il più breve, egli dà una definizione dell'essenza dell'amicizia, mostrando l'insufficienza da quella data da Cicerone: l'amicizia è accordo su tutte le cose divine e umane. Egli la completa e la corregge alla luce della frase di Gesù: Nessuno ha un amore più grande di chi dà la vita per gli amici (Gv, 15, 13). L'amicizia, dunque, è una forma di amore; anzi, è amore: puro e disinteressato, pronto a gioire con l'amico, per l'amico.

Anche nell'amicizia, gli uomini si attraggono secondo le disposizioni della loro natura; pertanto esistono tre tipi di amicizia: carnale, mondana e spirituale. L'amicizia carnale si basa sull'accordo nei vizi; quella mondana è accesa dalla speranza di un guadagno; quella spirituale è cementata fra i buoni dalla somiglianza di vita e di aspirazioni. Ed ecco, quindi, la definizione che di essa dà Aelredo, superando quella di Cicerone: l'amicizia spirituale è accordo nelle cose divine e umane con benevolenza e carità.

Una amicizia che può finire - come già notava anche S. Girolamo -, doveva essere basata sulla motivazione carnale o su quella mondana; dunque non era mai stata vera amicizia. La vera amicizia, ossia quella spirituale, è un bene perenne e indistruttibile. Essa è istituita dalla natura, rinforzata dall'esperienza e regolata dall'autorità della ragione; ed è naturale come la virtù o la sapienza, nel senso che tutti gli esseri umani, anche i malvagi, vi aspirano, e sia pure confusamente. Infatti, senza amici con cui condividere la propria gioia, né le ricchezze soddisfano interamente l'animo dell'avaro, né la gloria quello dell'ambizioso, né, infine, i piaceri, l'animo del lussurioso. Perciò, se Dio è carità, (Gv., 4, 16), e l'amicizia è carità, nel senso di amore, allora si può dire che anche Dio è amicizia.

Nel Secondo dialogo (ove Aelredo ha per interlocutori Gualtiero e poi Graziano, e che si svolge a Rievaulx, parecchi anni dopo il primo dialogo), l'autore si sofferma sui frutti e sulle grandezze dell'amicizia. L'autore sostiene che l'amicizia fruttifica sia in questa vita, sia nella vita futura. Nella vita terrena, essa tempera le avversità e rende più splendida la prosperità; ma essa è anche una vera e propria scala verso la perfezione. Infatti, è Cristo che ispira l'amore con cui si amano gli amici e, al tempo stesso, che si offre come un amico da amare; pertanto, l'amico che si stringe all'amico nello spirito di Cristo, diviene un solo cuore e una sola anima con lui. Salendo così i gradini dell'amore verso l'amicizia di Cristo,  l'uomo finisce per diventare un solo spirito con l'amico, e vi si fonde in una sorta di mistico bacio.

Quanto al limite dell'amicizia, esso consiste nella scelta fra il male e il bene. Per Aelredo, infatti, è cosa turpe e indegna dell'amicizia che si compiano azioni disoneste in nome dell'amicizia stessa, ad es. seguire l'amico su una strada sbagliata, al fine di non lasciarlo solo. Al tempo stesso, l'amicizia è  un vincolo sacro e non può essere rotta per sottrarsi agli obblighi che essa esige; essa è sempre fedele, nella buona e nella cattiva sorte, proprio perché nasce da un sentimento disinteressato e, casomai, l'utile ne è una conseguenza, non l'origine.

Infine, l'autore afferma che, essendo la vita dell'anima molto più preziosa di quella del corpo, nella vera amicizia è impossibile che si faccia alcunché che possa causare la morte dell'anima, ossia il peccato, che è l'azione che separa l'anima da Dio e dalla vita stessa.

Nel Terzo dialogo (che avviene nello stesso luogo del precedente e con gli stessi personaggi), Aelredo tratta della scelta e della prova degli amici e della sublimità e pratica dell'amicizia. Dopo ave ribadito che la fonte dell'amicizia è l'amore, egli osserva che, tuttavia, nell'amicizia non accogliamo tutti coloro che amiamo, per il fatto che non tutti ne sono capaci.

Quattro sono i gradi per ascendere alla perfezione dell'amicizia: il primo è la scelta; il secondo, la prova; il terzo, l'accettazione; il quarto (come già detto nel primo dialogo), il perfetto accordo sulle cose divine e umane, realizzato mediante la carità e la benevolenza.

Per quanto riguarda la scelta, la vera amicizia spirituale evita, in primo luogo, gli iracondi, poi gli instabili e i sospettosi; si astiene, inoltre, da tutto ciò che può danneggiare l'altro, compreso il fatto di propalare i suoi segreti o di "pugnalarlo alla schiena" mediante la detrazione occulta. Ma se gravi difetti del carattere si manifestano tardi, dopo che l'amicizia è già stata stabilita, non è bene romperla bruscamente: bisogna, invece, allentarla poco a poco, in modo da non inasprire e da non amareggiare l'amico; e, comunque, non giungere mai fino all'inimicizia, perché è cosa indegna far guerra all'ex amico. Ma se l'amico danneggia i genitori, la patria o altri amici, l'amicizia deve essere rotta senza indugio.

Per quanto riguarda la prova, l'amicizia deve superare vittoriosamente la prova della fedeltà,, specialmente nelle circostanze difficili. La seconda prova da superare è quella dell'intenzione: per mezzo di essa si può conoscere se è totalmente disinteressata e se non nasce da speranza di vantaggi personali.  Riprendendo S. Ambrogio, Aelredo afferma che l'amicizia non è un commercio, ma è piena di dignità e di bellezza. La terza prova è quella della discrezione e della pazienza; acutamente l'autore fa notare che vi sono coloro i quali cercano nell'amico proprio le qualità essi non possono avere; il che è assurdo.

A questo punto, Aelredo non parla dell'accettazione e del perfetto accordo (quest'ultimo, del resto, già trattato a suo tempo), ma passa a considerare la sublimità dell'amicizia, la felicità che la contraddistingue, la dolce intimità che essa crea a partire dalla forma più semplice, quella del cameratismo.

Infine, nella quarta parte del terzo libro, Aelredo parla della pratica dell'amicizia e dà una serie di consigli, partendo dalla storica amicizia fra Davide e Gionata e passando, poi, a quella fra Booz a Ruth. Ricorda quindi che un elemento importantissimo della vera amicizia è la disponibilità alla correzione fraterna degli errori: dapprima in privato e, solo se necessario, in un secondo momento, anche in pubblico. Quindi si chiede se, nella distribuzione degli onori (e degli oneri), si debbano preferire gli amici a quelli che non lo sono: e risponde in maniera negativa, ricordando che in tali frangenti bisogna seguire la ragione e non il sentimento. All'amico vanno dati tutto l'amore, tutto il favore e tutta la dolcezza, non le cariche che esigono responsabilità e che richiedono il possesso di requisiti ben precisi, che egli forse non ha. E, a sostegno di tale affermazione, Aelredo porta l'esempio di una esperienza personale, quella della sua amicizia con due persone ormai trapassate: una testimonianza commovente, piena di vivacità, freschezza e delicatezza.

Prima di passare all'Appendice, in cui si riporta il compianto per la morte dell'amico Simone, l'autore riassume i temi trattati e congeda il lettore con sobrie parole.

Riportiamo questo passaggio, per dare un'idea dello stile e del modo di procedere di Aelredo, servendoci della edizione de L'amicizia spirituale curata da Pietro M. Gasparotto (Siena, Edizioni Cantagalli, 1982, pp. 174-176):

 

Chiudendo ormai questo nostro trattenimento, anche perché il sole tramonta, voi non dubitate certo che l'amicizia sorga dall'amore. Ma chi non ama se stesso, non può amare un altro: perché l'amore di se stesso è la regola con cui ordinare l'amore del prossimo. Ora non si ama chi esige o infligge a se stesso qualcosa di turpe o disonesto.

Come prima cosa dunque bisogna che ognuno si purifichi, non indulgendo a nulla che sia indecente e niente omettendo che possa fargli del bene. E così amando se stesso, ami anche il prossimo, seguendo la medesima regola. Dato poi che questo amore ne abbraccia molti, da essi ne scelga  uno da ammettere familiarmente ai segreti dell'amicizia, effondendo in lui copiosamente il suo affetto. Gli scoprirà il petto fino a vederne i visceri e le midolla, i pensieri e i desideri del cuore.

Sia scelto non secondo l'impulso della passione, ma secondo che un'intelligenza perspicace troverà somiglianza di carattere e virtù da ammirare. Ci si doni all'amico evitando ogni leggerezza, con gioia. Non manchino i servizi e gli ossequi di una carità ordinata, piena di bontà. Poi si provi la sua fedeltà, l'onestà, la pazienza. Si passerà gradualmente alla comunicazione dei progetti, all'assidua partecipazione ai medesimi scopi, ad una certa conformità di volto.

Gli amici devono essere così conformi che quando uno vede l'altro, l'espressione di uno si trasfonda nell'altro: sia egli abbattuto dalla tristezza o gioiosamente sereno. Così scelto e provato, ti apparirà chiaro se egli non vuole nulla di disonesto, né lo chiede, né lo fa se richiesto. Ti consterà se ritiene l'amicizia una virtù o un commercio; se fugge l'adulazione, se detesta le moine; se fu trovato franco ma discreto, paziente nelle correzioni, fermo e stabile nell'amore.  Allora potrai gustare quella gioia spirituale: «Quanto è bello e piacevole vivere insieme da fratelli» (Sal., 12, 54-55).

Come è utile allora piangere insieme, faticare insieme, portare insieme i propri pesi! Intanto ognuno gode di dimenticare se stesso per l'altro; preferisce la volontà altrui alla propria; provvede più alle necessità dell'altro che alle sue, esponendo se stesso ai pericoli. Frattanto come è dolce parlare insieme, aprire vicendevolmente i propri desideri e trovarsi ancora d'accordo!

Si aggiunga la preghiera vicendevole, tanto più efficace nel ricordo dell'amico quanto più affettuosamente si rivolge a Dio, accompagnata dalle lacrime spremute dal timore o eccitata dall'affetto o causate dal dolore.  Così, pregando il Cristo per l'amico e per lui volendo essere esaudito dal Cristo, in Lui si fissa con amore e desiderio. Talora infatti improvvisamente e quasi senza accorgersene si passa da un sentimento ad un altro. Quasi sfiorando da vicino la dolcezza di Cristo stesso, si comincia a gustare quanto è dolce e sentire quanto è soave.

Così, da quel santo amore con cui si stringe un amico, si sale a quello con cui si abbraccia il Cristo. Felice, gusterà allora a bocca piena il frutto spirituale dell'amicizia.

Attende più tardi la pienezza di tutto: quando sarà tolto ogni timore di cui a vicenda temiamo e ci preoccupiamo. Allora, quando sarà scacciata ogni avversità che ora bisogna sostenere l'uno per l'altro; quando sarà sterminato con la morte anche il suo pungiglione (1 Cor., 15, 54-55), le cui punture tanto ci stancano, che è necessario piangere insieme. Allora, conquistata la sicurezza,   godremo eternamente del Sommo Bene. Perché allora questa amicizia, a cui ora ammettiamo pochi, si spanderà su tutti e da tutti si riverserà sul Dio, quando «Dio sarà tutto in tutti»  (1 Cor., 15, 28).

 

Si sarà notato il piglio di straordinaria freschezza che emana da queste pagine, che furono scritte, in un monastero medioevale, nel XII secolo, ossia qualche cosa come ottocento anni fa.

Eppure non sono molti, ci sembra, gli scrittori moderni i quali hanno saputo trattare il tema dell'amicizia con altrettanta delicatezza, convinzione, saggezza e senso della bellezza; per non parlare dei filosofi i quali, significativamente - tranne pochi, come Max Scheler - sembrano non aver nulla da dire in proposito.

Forse che, nella società dell'avere, si pensa di poter comperare a peso anche l'amicizia, come tutto il resto? Oppure - peggio ancora - si pensa che, tutto sommato, essa non sia poi così indispensabile, a patto di essere ben forniti di ogni genere di beni materiali?

Anche su questa illusione, Aelredo (Op. cit., p. 151), ci pare avere scritto una pagina memorabile e straordinariamente attuale; una pagina che, con riferimento alle Operette morali, ci sembra potersi qualificare come quella di un vero e proprio anti-Leopardi:

 

Supponiamo scomparsi dal mondo tutti gli uomini: sei rimasto tu solo superstite. Davanti a te sono tutti i piaceri, le ricchezze, l'oro, l'argento, le pietre preziose, le città in muratura, gli accampamenti con torri, i grandi edifici, le sculture, le pitture. Supponi anzi di essere ritornato al primitivo stato di innocenza. Tutto ti è soggetto, i buoi e le pecore, gli animali selvatici, gli uccelli del cielo e i pesci che solcano i mari (Sal. 8, 8-9). Dimmi, potresti tu godere ti tutte queste cose senza un compagno?