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Le molte vite del fisico di Stalin

di Giulio Giorello - 28/05/2008

    
Alla luce del libro di Fabio Toscano, Il fisico che visse due volte, Giulio Giorello ricostruisce la storia del fisico sovietico Lev Davidovic Landau attraverso le vicende politiche e scientifiche del XX secolo.
Dopo aver studiato in molti paesi dell’Europa occidentale e collaborato con i migliori fisici europei, Landau tornò in URSS nel 1931 deciso a rifondare la fisica teorica nel suo paese e contribuire così alla realizzazione della rivoluzione bolscevica, ma finì ben presto in carcere per le sue idee eterodosse. Rimesso in libertà nel 1939, contribuì alla realizzazione della bomba atomica sovietica, ma divenne sempre più scettico verso l’azione politica della Russia stalinista. Nonostante l’ostilità dei politici sovietici, negli ultimi anni di vita ricevette il premio Nobel per le sue ricerche sulla superfluidità.


Perché brillano gli astri nel cielo? L’ipotesi di Lev Davidovic Landau (1908-1962) era che il chiarore stellare fosse dovuto all’energia rilasciata da protoni (di carica elettrica positiva) e da elettroni (di egual carica, ma negativa) che «si fondevano» in neutroni (privi di carica elettrica). Benché non rappresenti il lavoro più importante di Landau [...] quel testo, pubblicato su «Nature» (1938), non privo di aspetti discutibili, doveva attirare l’attenzione della comunità scientifica internazionale. Già l’anno dopo l’americano Robert Julius Oppenheimer — destinato a diventare celebre soprattutto per la direzione del Progetto Manhattan, che portò alla messa a punto della prima bomba atomica — forniva un modello assai preciso delle stelle di neutroni, e successivamente [...] delineava l’astrofisica di quei corpi celesti dotati di un campo gravitazionale talmente elevato da intrappolare persino la luce che passava nelle loro vicinanze (saranno poi detti buchi neri).
Così «il mondo incantato delle particelle elementari» — elettroni, protoni, neutroni, eccetera — contribuiva a spiegare il comportamento delle grandi strutture che popolano l’universo. Meno note erano in Occidente le ragioni “strategiche” che avevano spinto quel giovane fisico, originario di Baku (attualmente capitale dell’Azerbaijan) e che allora lavorava a Leningrado (oggi tornata San Pietroburgo), ad affrontare un problema che avrebbe richiamato l’attenzione «non solo degli addetti ai lavori, ma anche e soprattutto degli addetti al potere del Paese dei Soviet». Sono parole di Fabio Toscano: nel saggio Il fisico che visse due volte (Sironi editore) ricostruisce gli intrecci tra la ricerca del maggior «genio sovietico » della fisica e le vicende della Grande Russia rimodellata da Lenin con la rivoluzione d’Ottobre e vessata da Stalin. Di ascendenza ebraica, in gioventù estimatore di Lenin come di Einstein («il più grande di ogni tempo»), sfrontato al punto di provocare il brillante ma taciturno Dirac («troppo matematico»), Dau era paragonato per impetuosità e irriverenza al «poeta e rivoluzionario» Vladimir Majakovskij. Vagabondo della fisica, aveva percorso Svizzera, Germania, Gran Bretagna e Danimarca, conoscendo e collaborando con giganti della meccanica quantistica come Werner Heisenberg e Niels Bohr.
Erano i tempi in cui costoro avevano scoperto «un universo profondamente diverso da quello che la scienza precedente aveva trasmesso» (lo scrive Eugenio Scalfari nella prefazione a una nuova edizione italiana di Fisica e oltre dello stesso Heisenberg): quel che turbava i fisici ancorati alla tradizionale concezione della causalità — in particolare, il principio di indeterminazione enunciato nel 1927 da Heisenberg — era la maggior ragione di “incanto” per il giovane sovietico. La libertà della nuova fisica sarebbe andata di pari passo con la liquidazione del vecchio ordine sociale promessa dal comunismo internazionale. Tornato in patria (1931), deciso a rifondare la fisica teorica nella terra del «socialismo in un solo paese», doveva accorgersi ben presto dello scarto tra sogno d’emancipazione del proletariato e pratica politica bolscevica. Era solito esibire «un enorme coccodrillo di gomma verde penzolante dal lampadario dell’ufficio», mentre esaminava — «adagiato su un divano, i piedi sulla scrivania, un’enorme cravatta rossa al collo» — coloro che chiedevano di poter collaborare con lui. Un cartello sulla porta avvisava: «Attenzione. Morde!». Ma in quei tempi d’acciaio, anche i coccodrilli erano “fuori linea”: Landau, attaccato dai colleghi più conservatori e spiato dalla polizia politica, doveva passare dalle stelle alla Lubjanka![...]
Nella storia reale, doveva proprio essere Dau (scarcerato nell’aprile del 1939) a lavorare [...] all’arma atomica sovietica. Per colmare il divario con gli Stati Uniti d’America, colui che era stato bollato come provocatore era tornato «uno dei più profondi, talentuosi e preparati fisici teorici dell’Urss». Cominciò così la sua “seconda vita”: sempre più scettico circa la possibilità di realizzare ciò che è irrealizzabile (l’utopia) ricorrendo alla brutalità, doveva confessare di aver «ballato di gioia» alla notizia della morte di Stalin (1953) e salutare come «puro eroismo rivoluzionario» l’insurrezione ungherese del 1956.
Scrisse una volta Einstein: «È più facile spezzare un atomo che un pregiudizio». Ma, nonostante l’ostilità dei politici comunisti, Landau doveva ancora stupire il mondo scientifico per i suoi lavori sulla superfluidità, salutati come il maggior «passo mentale verso una visione più astratta, ma contemporaneamente più vicina alla natura». [...] Il vecchio Coccodrillo, pur colpito nel corpo, sapeva mordere ancora.
Insignito del premio Nobel alla fine della sua esistenza, doveva venire ufficialmente riabilitato dalle autorità dell’Unione Sovietica soltanto nel 1990.
Come nota Fabio Toscano, «alla fine dell’anno successivo la bandiera rossa fu ammainata dal pennone del Cremlino».

Fabio Toscano, Il fisico che visse due volte, Sironi editore 2008.