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I campi di Sabra e Shatila. La tragedia e le sue conseguenze

di Sergio Romano - 28/05/2008

 


Grazie a un recente film è tornato alla ribalta, dopo 26 anni, il massacro degli arabi palestinesi nei campi di Sabra e Shatila alla periferia di Beirut. Contrastanti sembrano essere le opinioni sulle effettive responsabilità dell’accaduto, ma comunque non convincenti: può aiutarmi a capire come andarono realmente le cose?

Michele Toriaco, Torremaggiore (Fg),


Caro Toriaco, L’esercito israeliano invase il Libano nel giugno 1982 mentre da sette anni infuriava in quel Paese la guerra civile. Israele voleva impedire alle formazioni palestinesi di utilizzare il territorio libanese per operazioni di guerriglia, ma si proponeva altresì uno scopo meno confessabile: la tutela di un piccolo Stato vassallo, nel Libano meridionale, governato per procura dalle milizie cristiane del maggiore Saad Haddad. Vi fu quindi, sin dall’inizio dell’operazione, una sorta di collusione tra forze israeliane e gruppi cristiani. Dopo avere sconfitto rapidamente le forze siriane e palestinesi schierate alla frontiera, i 75.000 uomini del corpo di spedizione israeliano puntarono sui campi profughi, vivaio delle reclute che Yasser Arafat arruolava tra le famiglie di coloro che avevano abbandonato la Palestina nel 1948 e nel 1967. Gli invasori speravano che l’operazione avrebbe permesso l’annientamento dell’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina) e la cattura, «vivo o morto», di Arafat. Ma dovettero accontentarsi di un accordo, negoziato grazie alla mediazione degli Stati Uniti, che avrebbe permesso a una parte delle milizie palestinesi (circa 15.000 uomini) di lasciare il Paese verso la fine di agosto. In quegli stessi giorni il Libano ebbe finalmente un nuovo presidente nella persona di Bashar Gemayel, leader delle Falangi cristiane. Ma la sua presidenza durò soltanto sino al 14 settembre quando il capo dello Stato morì con venticinque uomini in un attentato organizzato forse dai siriani. Fu quello il momento in cui il governo Begin e il suo ministro della Difesa Ariel Sharon decisero di occupare nuovamente Beirut per espellere i palestinesi rimasti nella città. L’operazione sarebbe stata condotta dalle milizie cristiane, ma gli israeliani, installati a 200 metri da Shatila, crearono una cinta intorno ai campi e fornirono i mezzi necessari all’operazione. Il massacro durò due giorni e provocò, secondo stime difficilmente verificabili, circa 3.000 vittime. In Israele vi fu una grande manifestazione di protesta, a cui parteciparono quattrocentomila persone, e venne costituita una commissione d’inchiesta che attribuì a Sharon la responsabilità del massacro e lo costrinse a dimettersi. L’operazione non impedì ai palestinesi di riorganizzarsi ed espose Israele alle critiche della società internazionale. Ma la maggiore e più grave ricaduta politica del massacro fu l’apparizione di un nuovo nemico: un movimento politico e religioso che si chiamò Hezbollah, «partito di Dio», e riunì i gruppi di militanti sciiti che avevano sino ad allora partecipato in ordine sparso alla guerra civile. Fu quello il momento in cui la lotta contro Israele smise di essere prevalentemente laica per divenire anche e soprattutto religiosa. E fu quello infine il momento in cui l’Iran, dove gli Ayatollah avevano conquistato il potere poco più di tre anni prima, poterono contare su un amico libanese di cui si sarebbero serviti, da allora, per influire sugli avvenimenti della regione.