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Caso Franzoni e opinione pubblica: per favore, signori, un po' di decenza!

di Francesco Lamendola - 28/05/2008

In questi giorni si torna a parlare - ed era ora! - di quella straordinaria figura di uomo e di sacerdote che fu don Zeno Saltini, il creatore di Nomadelfia. E, parlando della comunità da lui fondata per l'assistenza dei bambini senza famiglia, ci si è ricordati di quelle meravigliose figure femminili che furono le "mamme" di quei bambini: ragazze che lasciarono ogni cosa, mettendosi contro la volontà dei propri genitori, per rispondere alla chiamata di farsi mamme di quei piccoli che una mamma non l'avevano. Si è parlato, ad esempio, di Irene, la prima di queste eroiche ragazza: che, giovanissima, sfidando le ire e il dolore dei propri genitori (il padre si rivolse perfino ai carabinieri), scelse di andare fra gli "ultimi" e di dare a dei bambini rimasti soli, tutto l'amore che una mamma può dare alle sue (in senso biologico) creature.

Crediamo che i mass-media farebbero bene a parlare di più di figure eroiche e silenziose come quella di Irene; e a spegnere i riflettori, invece, una buona volta, su un personaggio come Annamaria Franzoni, che - salva la pietà per il suo dramma umano - di notorietà ne ha goduta anche troppa, fino al punto di intasare palinsesti televisivi e prime pagine di giornali, eterna protagonista di una tristissima telenovela che, fra un Porta a porta di Bruno Vespa e una esternazione dei suoi numerosi e logorroici avvocati difensori, per quasi sei anni ha letteralmente dominato l'immaginario collettivo degli Italiani.

In un Paese normale, dopo che è stata emessa la sentenza definitiva al terzo grado di giudizio (una peculiarità garantista che, già di per sé, rende l'Italia un unicum fra le democrazie attuali), i clamori mediatici avrebbero dovuto, una buona volta, aver fine. In un Paese normale, dopo infinite e costosissime perizie, dopo infiniti dibattimenti, dopo tre processi celebrati in piena regola, dopo che l'imputata ha potuto avvalersi dei migliori e più costosi avvocati difensori esistenti sulla piazza, anche gli innocentisti più arrabbiati avrebbero dovuto accettare il verdetto della giustizia umana (fallibile, per carità, come ogni osa di questo mondo) e inchinarsi al responso della legge e delle evidenze processuali. Annamaria Franzoni, dice la sentenza definitiva, è colpevole del più tremendo e odioso delitto che si possa immaginare, l'assassinio il proprio figlioletto. Quegli schizzi di sangue che arrivavano fino al soffitto della cameretta in cui il delitto è avvenuto, testimoniano la ferocia inumana con la quale il piccolo è stato massacrato. Ora quel sangue, idealmente, è stato placato: l'assassino ha ricevuto un nome e un cognome, e la giustizia gli ha presentato il conto da pagare. E non c'è altro da dire.

Invece no.

Neanche il tempo di andarsi a leggere la sentenza, e subito - ripetiamo, subito - si è scatenata la bagarre dei buonisti a tutto campo, dei misericordiosi a senso unico, dei pietosi che piangono con un occhio solo, dei Cesare Beccaria in sedicesimo che si sono accorti - solo adesso - del dramma delle mamme carcerate e dei loro bambini, che si trovano separati da esse. Ha cominciato Liberazione, il quotidiano di Rifondazione Comunista, chiedendo a grandi titoli la grazia per la povera mamma di Cogne. Grazia che lei non ha affatto domandato, per il semplice fatto che si è sempre proclamata innocente, e tale continua a proclamarsi. Nessuna ammissione, nessun pentimento, nessun bisogno di espiare: lei si ritiene la vittima di un'atroce ingiustizia.

Già la sentenza della corte di cassazione ha ridotto a soli sedici anni la pena, ben più dura, emessa in precedenza; che diventano automaticamente tredici, per via dello "sconto" di tre anni garantito dall'applicazione dell'indulto. Poi ci sono i 90 giorno di abbuono per ogni anno di detenzione in cui sia stata osservata una buona condotta da parte del detenuto. Infine si sa che, dopo aver scontato un terzo della pena, esiste la possibilità, che è praticamente una certezza, di poter usufruire degli arresti domiciliari. Quindi, a conti fatti, fra quattro anni Annamaria Franzoni dovrebbe essere fuori dal carcere. Ma, evidentemente, al suo "partito" ciò non basta.

Fra chi invoca la revisione immediata del processo e chi esorta il presidente della Repubblica a firmare un atto di clemenza, è tutto uno spumeggiare di iniziative, di clamori, di preghiere e di maneggi per vanificare gli effetti penali, già modestissimi, della sentenza. Nulla di strano, del resto: l'Italia è il Paese in cui un omicida reo confesso, come Marco Barbone, a termine del processo per l'assassinio di Walter Tobagi, venne liberato in aula, sotto gli occhi dei genitori e della moglie della vittima, grazie alle leggi sui cosiddetti collaboratori di giustizia. Un Paese in cui tutti si preoccupano sempre della sorte del colpevole, mai di rendere giustizia alla vittima; in cui le leggi sembrano fatte apposta per offrire scappatoie a chi viola la legalità, non per proteggere chi la rispetta e ha subito, incolpevole, la violenza o la disonestà altrui.

Oggi, e da più parti, si invocano il "pugno duro" e la "tolleranza zero" verso gli immigrati, specialmente clandestini, che delinquono. Bene, è giusto. Ma con quale faccia tosta il "partito" della Franzoni chiede la grazia il giorno dopo la sentenza; una grazia, che, se concessa ora, vanificherebbe ogni certezza della pena, ogni senso della giustizia, ogni rispetto per la legalità agli occhi dell'opinione pubblica?

 

Si dice che la signora Franzoni ha colpito il piccolo Samuele in uno stato di coscienza crepuscolare. Certo, a partire da Freud e da Pirandello anche il grosso pubblico ha una qualche nozione del problema della frammentazione dell'io, della dissociazione della personalità; sa, magari dopo aver letto la signora Morli, una e due oppure Uno, nessuno e centomila, che l'individuo il quale ha compiuto una determinata azione, può anche essere "altro" da quello della coscienza ordinaria. Sa anche che esistono dei meccanismi di rimozione per cui, specialmente nell'infanzia, esperienze traumatiche vengono respinte sotto il livello della consapevolezza e "anestetizzate", in modo da risparmiare all'io cosciente una sofferenza che non sarebbe in grado di sopportare. Tutto questo va bene: per cui non ci sognamo neppure di sostenere che Annamaria Franzoni abbia mentito deliberatamente e che, deliberatamente, abbia ricacciato entro di sé il rimorso per quanto ha fatto quel tragico mattino di sei anni fa, nella villetta di Cogne.

Sfortunatamente per lei, la giuria l'ha riconosciuta - come, del resto, lei desiderava - perfettamente sana di mente e, dunque, in grado di intendere e di volere. L'offuscamento della coscienza si sarebbe verificato solo in quei pochi minuti, in cui uccise con inaudita violenza il suo bambino che piangeva nel letto: e, incredibilmente, proprio in base a questo elemento, le sono state concesse le attenuanti generiche, che le hanno dimezzato d'un colpo la pena erogata dalla sentenza precedente. Se la legge prendesse per buono questo principio e lo generalizzasse (e perché non dovrebbe? o  perché non dovrebbero appellarvisi altri cento e mille avvocati difensori?), nessun delitto, a rigore, dovrebbe essere più punito. Come si fa a condannare il signor Rossi o il signor Bianchi, se quando hanno compiuto dei gravi reati si trovavano in uno stato di crepuscolarità della coscienza?

Abbiamo detto che esiste un "partito" favorevole alla signora Franzoni: e non è un modo di dire.  Alcuni dei maggiori giornali e periodici italiani, per bocca dei loro direttori, sono esplicitamente favorevoli alla tesi della sua innocenza, e per sei anni hanno inondato l'Italia di articoli scritti in tal senso; e lo stesso spettacolo si è visto sulle reti televisive, anche all'interno dei telegiornali (ove, alla faccia della par condicio, hanno pontificato quasi esclusivamente i legali della difesa). In politica si è creato uno schieramento trasversale a lei favorevole, formato sia da esponenti del centro-destra, la cui tesi di fondo è che tutti i magistrati sono persecutori cripto-comunisti delle persone perbene; sia da esponenti dell'estrema sinistra, la cui tesi è che bisogna essere pietosi (verso i carnefici), quindi concedere al più presto la grazia. Infine alcuni sacerdoti, certo animati da buone intenzioni, si sono lanciati in una vera crociata pro-Franzoni: come il parroco del suo paesino emiliano, che ha curato addirittura la stampa di un libretto apologetico in difesa della povera signora, perseguitata da una giustizia sommamente ingiusta.

Giunti a questo punto, vogliamo ricapitolare le ragioni per cui ci sembra del tutto fuori di luogo parlare sia di grazia, sia di revisione del processo, e per cui ci sembra che la signora Franzoni dovrebbe essere considerata come uno dei tanti cittadini che la legge ha giudicato colpevoli e che devono pensare a scontare la propria pena, per il loro stesso bene: perché senza espiazione non c'è alcuna speranza di ritrovare la pace dell'anima.

La prima è che Annamaria Franzoni non si è limitata a "rimuovere" la tremenda azione per la quale è stata condannata: ha costantemente seguito la strategia processuale di andare all'attacco, calunniando persone innocenti e facendo nomi e cognomi di presunti colpevoli, che avrebbero agito per malevolenza nei suoi riguardi o per invidia della sua maternità.

La seconda è che, durante tutto il corso dell'inchiesta, lei e la sua famiglia (marito e genitori) hanno  continuamente gettato parole di discredito sulle autorità inquirenti, accusandole, in buona sostanza, di averla voluta "incastrare" per non doversi sobbarcare la fatica di esplorare altre piste circa gli autori del delitto.

La terza è che ha fatto un uso sistematico e spregiudicato dei media, rilasciando interviste a sorpresa e rivolgendosi, dallo schermo, a milioni di italiani, nonché studiando tali apparizioni in coincidenza con le varie fasi dell'inchiesta e cercando di anticipare e neutralizzare le iniziative dei magistrati che su di lei stavano indagando, mediante una sorta di "processo parallelo" mediatico, in cui ambiva a vedersi "moralmente" assolta dall'opinione pubblica.

La quarta è che, anche con le scelte della sua vita privata, ha fatto in modo di porre i giudici davanti a dei fatti compiuti, ad es. affrontando una nuova maternità che, ora, le consentirà di invocare dei provvedimenti di clemenza, per quanto condannata in via definitiva. E come dimenticare quel "ne facciamo un altro?" rivolto al marito, pochi momenti dopo la morte del piccolo Samuele, che getta una luce tremenda sulla sua psicologia e sul suo mondo interiore, e dice anche di più di quel viso ben truccato e di quell'inesplicabile sorriso il giorno stesso del funerale?

La quinta è che ha voluto esibirsi come mamma modello, con il sostegno dei compaesani e delle compaesane che le affidavano - beninteso davanti alle telecamere - i loro figlioletti, per far vedere che di lei si fidavano ciecamente e che mai e poi mai l'avrebbero considerata capace di far loro del male; mentre i suoi parenti le facevano quadrato tutto intorno e non lasciavano nulla di intentato per trasmettere quell'immagine di madre, figlia e moglie perfetta che, appunto in quanto perfetta, non poteva in alcun modo aver commesso l'omicidio di Samuele.

La sesta è che le persone a lei vicine si sono rese responsabili di vere e proprie manomissioni della scena del delitto, al fine di alleggerirne la posizione processuale e di vanificare le risultanze di mesi e anni di indagini e di ricerche scientifiche.

 

Pensiamo a quanti imputati, processati nelle aule di giustizia, non hanno potuto permettersi avvocati di grido, dalle parcelle astronomiche, quasi quotidianamente intervistati nei telegiornali e invitati nei salotti televisivi; e che hanno dovuto accettare la propria sentenza, pur proclamandosi innocenti, e affrontare in silenzio anni di carcere.

Pensiamo a quanti - magistrati, specialisti del R.I.S., psichiatri e criminologi - hanno lavorato duramente, per anni e anni, e con grande spesa di denaro pubblico, per acquisire elementi di certezza nella tragica vicenda del delitto di Cogne: e che sono riusciti ad acquisirli, tanto è vero che la giustizia si è espressa in modo chiaro e definitivo circa l'autore di tale delitto; ma che ora si vedono sottoposti a una sorta di processo alla rovescia, il cui lavoro è sminuito e disprezzato, la cui serietà e competenza sono continuamente revocate in dubbio.

Pensiamo, soprattutto, al piccolo Samuele: la vera vittima di tuta questa tristissima vicenda. Un bimbo che quasi certamente, prima di morire, ha visto in faccia il proprio assassino: ed era la faccia di sua madre. Non che una condanna "esemplare" ad Annamaria Franzoni avrebbe potuto cambiare qualcosa, per lui: ma, almeno, gli avrebbe reso giustizia. Perché il primo compito e la principale ragion d'essere della giustizia umana è, prima ancora di punire i colpevoli, stabilire il sacrosanto principio che la vittima è vittima, e il colpevole è colpevole, senza incredibili contorsioni degne di un Azzecca-garbugli per mescolare le carte e confondere i ruoli. E la vittima ha sempre diritto a un risarcimento, se non altro di tipo morale.

Ci siamo già occupati delle tematiche generali sollevate da questa brutta vicenda in alcuni precedenti articoli, in particolare La rimozione della colpa, malattia mortale della modernità ed È possibile perdonare qualcuno che non vuole essere perdonato? (sempre consultabili sul sito di Arianna Editrice).

La cosa più scoraggiante, in tutta la storia di questo delitto e di questo processo, è il roccioso, impenetrabile rifiuto ad aprirsi a un atto di consapevolezza e di pentimento, l'impossibilità a liberare la propria anima da un così grande senso di colpa. Certo, gli psicologi ci spiegano che è appunto l'enormità del senso di colpa che può far scattare, in casi del genere, il meccanismo della rimozione, del rifiuto e della protesta incrollabile della propria innocenza. È più "facile", per l'io, continuare ad accusare degli ipotetici estranei, contro ogni evidenza, piuttosto che aprirsi all'idea - invero sconvolgente - di aver potuto commettere un delitto così terribile come l'uccisione, da parte di una madre, della propria creatura.

Proprio su questo aspetto, emozionale e istintivamente repulsivo, ha giocato le sue carte il "partito" di Annamaria Franzoni. Gli Italiani, in fondo, sono degli inguaribili sentimentali: per loro, accettare che una mamma possa fare una cosa del genere, è intollerabile: quindi, la signora Franzoni  non può essere colpevole. E, se non può essere colpevole, deve essere innocente. In fondo, è una sorta di sillogismo aristotelico: nessuna mamma può fare una cosa del genere; l'imputata del delitto è una mamma; la mamma in questione è innocente. Anche se ci sono montagne di indizi a suo carico, primi fra tutti gli schizzi di sangue sul pigiama; anche se è accertato che nessun estraneo si intrufolò nella villetta, in quei pochi minuti nei quali ella era fuori; anche se è assodato che numerose madri, purtroppo, hanno compiuto delitti analoghi, in Italia e altrove, e sono state per questo riconosciute colpevoli.

Perciò, secondo logica, la domanda avrebbe dovuto essere questa: perché in tanti altri casi l'opinione pubblica ha accettato senza fiatare l'inaccettabile, ossia che una mamma - nelle particolari condizioni di stress  e solitudine emotiva della nostra beneamata società "del benessere" - possa arrivare a odiare suo figlio per motivi banali, ad es. perché piange insistentemente, al punto da ucciderlo; mentre in questo caso non può decidersi a farlo? Forse perché è stata continuamente pilotata, orientata, sollecitata e manovrata da una campagna di disinformazione mediatica senza precedenti?

E questa campagna mediatica, a sua volta, per quali ragioni è stata scatenata solo a proposito del caso Franzoni, mentre nulla di simile si è mai visto neanche nei casi giudiziari più dubbi e sconvolgenti del passato, di cui sono piene, purtroppo, le pagine di cronaca nera della stampa e i servizi giornalistici della televisione italiana?

Eppure, ricordiamo tutti benissimo che un importante uomo politico, che era anche capo del governo, ebbe a dichiarare, proprio ai microfoni della televisione, che uno, per scegliere il mestiere di giudice, deve avere qualche rotella che non funziona. Con buona pace alla memoria di Falcone, Borsellino e tanti altri meno famosi, ma non meno eroici difensori della legalità e della giustizia. Così come sappiamo tutti benissimo che nel Parlamento italiano, oggi come ieri, i deputati e i senatori inquisiti dalla magistratura per una varietà di reati, si contano addirittura a decine. Difficile, allora, non intravedere nel chiasso mediatico che si è fatto attorno al processo Franzoni, cercando di imporre una sentenza "morale" diversa da quella processuale, parte di un più vasto disegno mirante a screditare l'intera magistratura e a diffondere la sensazione, pur senza dirlo apertamente, che il vero problema della giustizia, in Italia, non sono i delinquenti, ma i giudici.

I quali, chissà perché, hanno la fastidiosa pretesa di voler portare in tribunale coloro che commettono dei reati; e, arroganza suprema, cercano perfino di farli condannare.

Signori, per favore: un po' di decenza. Un po' di silenzio; un po' di rispetto e un po' di pietà.

Non per l'assassino, ma - una volta tanto - per la povera vittima: un bambino che è stato tolto dal mondo, con incredibile ferocia, senza un perché, quando aveva tutta la vita davanti.