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Il pensiero della fine e la morte di Dio nella filosofia di Martin Heidegger

di Francesco Lamendola - 29/05/2008

Per la filosofia di Martin Heidegger (1889-1976), la metafisica è l'essere-per-la-fine dell'essere, dunque la forma tipica del nichilismo (idee ampiamente riprese da Emanuele Severino e altri), e il pensiero che si insedia nel destino dell'essere  non può vedere la fine della metafisica se non come una metafisica della fine.

Si pone, quindi, il problema del «superamento» della metafisica; ma il limite, verso cui il pensiero si spinge, lo respinge implacabilmente anche nel suo tentativo di superamento. Il concetto stesso di «superamento», infatti, presuppone l'idea del limite, di ciò che Ernest Jünger designava con l'espressione la linea. Di conseguenza, Heidegger è stato indotto a occuparsi in primo luogo del problema della fine, poi di quello del superamento.

Ora, la questione della «fine», della fine della metafisica e anche della teologia, è stata posta da Nietzsche, nello Zarathustra, con la «morte di Dio». Osserva giustamente Filippo Costa che, se fosse possibile superare direttamente la metafisica, non vi sarebbe una autentica morte di Dio, ma semplicemente il tramonto di un falso pensare intorno a Dio; un po' come molti filosofi (Hegel in primis, aggiungiamo noi) hanno ritenuto di poter «superare» la categoria della religione in quella, ad essa superiore, della filosofia.

In una raccolta di sei saggi del 1950 (ma che riprende alcune lezioni del 1943), intitolata Sentieri interrotti (Holzwege), Heidegger si propone, fra l'altro, di riflettere sul senso dell'annuncio nietzschiano della «morte di Dio» in quanto suscettibile di chiarire il significato di due millenni di storia occidentale.

Heidegger comincia con l'affermare che solo l'opera d'arte può far emergere il senso d'essere che si trova nella domanda sul perché esista qualche cosa invece del niente, poiché in essa avviene l'apertura dell'ente nel suo essere, il farsi evento della sua verità. Non si tratta, tuttavia, di un filosofare astratto: quel che è i gioco, è (splenglerianamente) la storia futura e, in ultima analisi, il destino del mondo moderno.

La storia futura è la realizzazione della compiuta essenza del mondo moderno e, per ora, sta in mezzo tra l'ente e l'essere. Dunque, il «superamento» non sarà altro che il venire in luce  dell'essenza della fine; e sarà il superamento tanto della metafisica e della stessa fine, quanto del nichilismo e della tecnica. Quanto alla metafisica, la fine, per essa, è annunziata dalla «morte di Dio», ossia da una teologia che prende atto dell'ultima realtà dell'essere dell'ente. Così come l'esistenza (autentica) dell'uomo è un essere-per-la.-morte, allo stesso modo la teologia cristiana è un essere-per-la-Croce, ossia per la morte di Dio.

Qui, veramente, il pensiero di Heidegger manifesta la tendenza a scivolare insensibilmente nel sofisma. Per la teologia cristiana, infatti, il concetto della morte di Dio (sulla croce) si lega inseparabilmente al concetto della resurrezione di Dio (dal sepolcro); pertanto, tutta la sua interpretazione dell'essere-per-la-Croce giuoca un po' sul senso delle parole, forzandole e piegandole ai fini delle sue esigenze speculative.

In ogni caso, il senso dell'annuncio di Zarathustra: «Dio è morto», non significa, per Heidegger, se non che il mondo sovrasensibile non possiede più forza efficiente e che, pertanto, la metafisica è giunta inevitabilmente alla fine. Ecco perché la frase: «Dio è morto» svela, secondo il filosofo di Messkirch, l'essenza dell'Occidente e il vero senso della nostra storia (il che equivale a dire, la sua mancanza di senso).

Ma, giustamente, Heidegger osserva che, per una umanità senza Dio, il concetto della morte di Dio è semplicemente privo di senso; per una umanità atea, infatti, non si può parlare, nel senso più autentico, di nichilismo. Il nichilismo è l'essenza dell'Occidente, perché l'umanità occidentale, dopo aver creduto in Dio, è giunta all'annunzio della sua morte. Dunque, per essa, tutto ciò che poteva avere un senso nella vita, beninteso un senso che venisse dall'altro, trascendente, ora è scomparso; la luce si è spenta  e la morte di Dio è la fine, meglio: l'essere-per-la-fine.

Apriamo una breve parentesi per osservare che l'idea della morte di Dio non è, in realtà, quell'evento unico nella storia occidentale, che Heidegger mostra di credere. Dio è morto ogni volta che è tramontata una religione: è accaduto con il paganesimo greco-romano, con il paganesimo germanico, con quello degli Slavi, dei Lituani, e così via. Chiunque abbia letto Plutarco, certo ricorderà con qualche emozione il famoso brano in cui si narra di come, al tempo di Tiberio, i marinai di una nave romana udirono, nei pressi di un'isola del Mare Egeo, il vento cadere improvvisamente e una voce misteriosa gridare: «Il grande Pan è morto!»; e, poi, levarsi dall'isola pianti, lamenti e singhiozzi, senza che alcuno ne potesse comprendere l'origine. L'episodio è sempre stato messo in relazione con la nascita di Cristo e con l'avvento del cristianesimo, e così sembra interpretarlo anche il notevole filosofo e poeta romeno Lucian Blaga nel suo poemetto La morte di Pan.

Certo, in tutti i casi che abbiamo citato, si trattava della morte di determinate divinità e dell'avvento di altre; mente lo Zarathustra di Nietzsche non annunzia la morte di questo o quel dio, ma del Dio unico e «definitivo» del cristianesimo, ossia del tramonto della categoria del religioso. Non del sacro, però: e sappiamo bene che cosa l'umanità occidentale abbia eretto alla categoria del sacro, in luogo del Dio cristiano: la tecnica.

È, questa, l'era dei titani di cui parlava Jünger; e, in un certo  senso, anche la teologia cristiana contemporanea, specialmente quella protestante, ha rielaborato a suo modo l'annuncio di Zarathustra, per esempio con la cosiddetta teologia negativa e con il concetto di un Dio che si nasconde, che tace, che vuol vedere come sanno cavarsela gli uomini senza di Lui. Ma questa, ovviamente, è la scomparsa del "dio tappabuchi" troppo sfruttato dalla teologia classica (cfr. Bonhoeffer),  e non la presa d'atto di una vera e propria morte di Dio.

Che cosa significa, del resto, affermare che Dio è morto? Evidentemente, l'unico possibile significato è che l'umanità occidentale si è alienata lungo tutta la sua storia, proiettando la sua aspirazione all'immortalità in un Essere inesistente, sulla base di una amplificazione paranoica dell'idea freudiana del padre; e ora, finalmente, si è resa conto del proprio errore, e sta facendo i conti con l'inesistenza di quell'Essere tanto amato e temuto, che dava un senso (trascendente) al nostro essere-per-la.-morte.

Tornando a Heidegger, sappiamo che, per lui, la metafisica non è soltanto un errore teoretico e linguistico (che ha indotto a identificare l'essere con l'ente, dimenticando la differenza ontologica), ma anche il destino dell'Occidente, per cui l'Essere, paradossalmente, si rivela proprio nascondendosi: processo che è iniziato già con la filosofia greca. Ora, se la storia della metafisica è il destino dell'Occidente, il predominio della tecnica ne è il logico sviluppo; e il compito del pensare sarà appunto quello di destrutturare tanto la metafisica che il suo linguaggio, in modo da liberare uno spazio per un pensiero che non sia più metafisico e che «superi» l'oblio dell'Essere. Da ciò si vede, per inciso, come Severino non abbia fatto altro che riprendere, con pochissima originalità, questa esigenza della seconda fase del pensiero hedeggeriano, ossia quella successiva ad Essere e tempo.

Dunque, in  Sentieri interrotti Heidegger si pone il problema di cosa significhi, nel destino dell'Occidente, il concetto della «morte di Dio» e come si debba interpretare, ed eventualmente sviluppare, il concetto nietzschiano del «superamento» del nichilismo.

 

Scrive Filippo Costa nel suo bel volume Heidegger e la teologia (Ravenna, A. Longo Editore, 1974, pp. 356-364):

 

Heidegger deve dimostrare come questa 'morte di Dio' si debba pensare contenuta o anticipata nell'essenza storica dell'umanità occidentale, cioè in che modo dire 'storia' implichi il pensiero del nihilismo come sua essenza. Ciò che si dovrebbe approfondire a questo punto è l'idea stessa della storia Comunemente essa vale come qualcosa di ovvio; la difficoltà di stabilire il "che" e il "come" della storia , l'ostacolo che ci si frappone allorché siamo necessitati a trovare nella e della storia uj "senso", non impediscono di ritenere che la storia "ci sia" di per sé, cioè che il mondo cammini, vada in certo modo avanti, che "tutto scorra" eccetera. Non riusciamo così a credere che alcuni popoli non abbiamo "storia". Tutti gli uomini che agiscono o solamente vivono, "fanno storia", pr quanto insensibili possano essere i loro progressi o insignificanti le loro azioni. Ma secoli di "filosofia della storia" ci hanno reso consapevoli del fatto che parlare di "storia" al di qua di ogni interpretazione filosofico-teologica, è insensato; il concetto di storia è altrettanto vuoto del concetto di essere. Esso comincia a valere come una forma di interpretazione, per quanto implicita possa essere.  Dunque non c'è "la" storia, ma la storia d'occidente  intesa secondo il senso che essa stessa si arroga e che pur conosce la sua "storia". Il modello della pura e semplice successione di eventi, comunque determinati da antecedenti e da mire finali, è una interpretazione tra le altre. Sappiamo però come la necessità problematica di un senso, connesso all'inevitabile interpretazione, scivoli di continuo nella attribuzione di sensi come prodotti necessari della storia stessa e si producano perciò i tentativi di pensare la totalità compiuta della storia come costituzione di un suo senso-totale. La difficoltà complessiva del pensiero intorno alla storia consiste nel dovere evitare l'ovvietà della successione che sia già senso della storia, da un canto, e la metafisica della totalità che ipotizza sensi compiuti e finalità operanti nell'effettivo svolgimento dei fatti, dall'altro.

Il ripensamento heideggeriano del «superamento» nietzschiano del nihilismo si colloca in questo difficile territorio intermedio. Il nihilismo, la morte di Dio, la fine della storia, secondo un concetto ontologico e non ontico, la fine del mondo, essa pure ontologicamente intesa, non sono accidenti, ma indicano quanto di essenziale si può pensare nell'essere storico o nella storia dell'essere. Questo implica che non si debba prima concepire l'essenza della storia e poi attribuirle la morte di Dio, ma che questa morte sia la storia stessa.

Per comprendere questa posizione decisiva del filosofare heideggeriano procediamo per tentativi. Dobbiamo guardarci dal fare precipitare il nostro pensiero verso la decisione di un senso ultimo e, allo stesso tempo, di far cadere nell'inessenziale la storia stessa ponendola come esecuzione di qualche progetto iniziale. Allo stesso tempo presupponiamo una esigenza di senso come ciò che ci sta intuitivamente presente allorché avvertiamo che noi stessi, per tanto che esistiamo, siamo legati all'essere del destino che vige nella storia. Ora, se la morte di Dio è il crollo del sovrasensibile, possiamo già domandarci: che ne sarebbe della nostra esistenza se in essa non fosse iscritto l'essere-stato (das Gewesen) del "platonismo"? Che ne sarebbe allora se il nostro vivere non avesse il senso di darsi senso mediante la posizione di fini, idee, ideali e valori? Ma il punto decisivo dell'interpretazione heideggeriana del nihilismo si può così esprimere: che ne sarebbe dell'autenticità della nostra esistenza se il platonismo non avesse trovato la sua "verità" nel rovesciamento che il nihilismo ne compie?

La svolta dal primo punto al secondo, dal platonismo al nihilismo è in fondo, per Heidegger, la sola vera e attuale "necessità". Il luogo in cui questa avviene è la metafisica. Infatti costituire una storia come dotata di senso altro non vuol dire, in origine, che sovrapporre al sensibile un mondo di "sensi" come separato dal sensibile sesso. Ma è proprio tale separazione, che è il fatto della metafisica, a ridurre all'esaurimento ogni sovrasensibile, a consumare la morte di Dio. Quindi «la metafisica è lo spazio storico in cui si attua il destino che il mondo sovrasensibile, le idee, Dio, la legge morale, l'autorità della ragione, il progresso, la felicità della maggioranza, la cultura, la civiltà perdano la loro forza costruttiva e si annullino» (Holzwege). L'insieme di questi "valori" può essere anche visto come la conseguenza della morte biblica di Dio, al quale s tenta di sostituire qualche analogo del sovrasensibile (compresi gli "ideali" o le "ideologie" che in ogni tempo risorgono).

Heidegger, come abbiamo già visto, segue il tentativo nietzschiano di pensare il nihilismo come "logica interna" della storia, vede nel "capovolgimento" una restaurazione del "valore". Avendo ricondotto il valore a "punto di vista", Nietzsche rientra nella metafisica poiché con ciò non fa che cogliere l'essenza di ogni ente, che è impulso ad essere secondo una determinata direzione o prospettiva. Nietzsche, in altri termini, risolve il voluto capovolgimento nel raggio indicativo e a suo modo "intenzionale", come possiamo dire, che parte dall'ente e lo esplica come nisus essendi. Per l'ente essere è tendere-mirando.  Il capovolgimento dei valori è la restaurazione del valore nella sua essenza originaria di punto di vista in favore dell'eterno ritorno in sé della volontà di potenza. Essere, per 'ente in generale, è dunque volere del volere; l'ente è in quanto si conserva e si accresce in virtù dell'essenza "valutante" della volontà di potenza. Il valore supremo, come sappiamo, è l'arte come «valore che determina ogni potenza di accrescimento». Essa, conclude a questo punto Heidegger, «è la realtà effettiva (Wirklichkeit) del reale (Wirkliches)… o l'essere dell'ente».

In Holzwege ricompaiono i temi del Nietzsche ma ripensati in un modo nuovo nel quale il pensiero di Heidegger giunge ad una fondamentale risoluzione. Questa può essere vista nel doppio concetto di verità della metafisica, per il quale il nihilismo vien fatto assurgere alla storia dell'essere e quindi l'essere-per-la-fine, la korte di Dio (l'essere-per-la-Croce, come qui diciamo) assumono il senso ontologico ultimo. In questa riduzione ontologica la metafisica, il nihilismo Nietzsche non hanno più nulla a che fare con una Weltanschauung.

La metafisica enuncia le sue "verità" sotto forma di giudizi di valore. Ma la sua verità generale è nell'affermazione della volontà di potenza come essenza dell'ente. Ora tra la metafisica e la volontà non esiste un mero rapporto di pensiero e realtà, quasi la metafisica altro non fosse che discorso intorno alla realtà chiamata volontà di potenza. Essa invece è contenuta nella volontà stessa come sua esigenza prima. Per dirla in termini tradizionali, l'oggetto genera qui la conoscenza dell'oggetto. La volontà, infatti, si produce "rappresentandosi" cioè ponendosi nell'aperto del non-occultamento. Essa è dunque "verità" in quanto costituisce l'essere dell'ente, ed è la "verità" che consiste in un esplicarsi secondo il modo di portare alla luce, rappresentare, dis-occultare. L'aspetto enunciativo di questa doppia (epur fondamentalmente unica) verità è secondario rispetto a quello ontologico. La volontà di potenza è infatti (prima che enunci) l'essere dell'ente. Gli enunciati metafisici sono atti o momenti della volontà di potenza che non ha altro modo d'essere (ossia non costituisce altro essere dell'ente in generale) che quello dell'autorappresentazione secondo "verità"  e valori. La metafisica non è dunque vera nel senso che determina l'essere dell'ente secondo una certa prospettiva o un ceto progetto, ma innanzitutto in quanto è reale e storica manifestazione in cui la volontà di potenza si fa essere, presenzia, è. «La verità di cui pra si fa questione, afferma Heidegger, non è perciò quella che la volontà di potenza pone come condizione necessaria dell'ente, ma quella in cui già presenzia la volontà di potenza stessa che-pone-condizioni».

Le tappe della metafisica si possono così concepire in base all'essenza ontologica della metafisica stessa; Heidegger può spiegare il soggettivismo, la concezione della verità come certezza e come giustificazione, il prodursi della "giustizia" come supremo valore, l'arte, la scienza e quante altre forme possano mai rintracciarsi nella storia della cultura occidentale. E nella metafisica, come il Wesen della volontà di potenza, rientra il nihilismo nell'interpretazione nietzschiana di una "morte di Dio" ove naufraga ogni valore singolo e stabilito perché riemerga il fondamento di tutti i valori che è l'incarnazione umana della volontà di potenza. L'uomo affermato da Nietzsche ha come sua essenza l'essere al di là di se stesso sicché in questo (necessario) "al di là" non incontri valori, non trovi una morale precostituita, o l'imperiosa presenza di un Dio, ma soltanto se stesso.

A questo punto Heidegger tenta la sua riduzione ontologica del superamento» nietzschiano. Questo deve corrispondere alla volontà di potenza che è l'essenza dell'ente, cioè alla "pretesa dell'essere". Nell'essere «Vige la necessità che l'uomo vada oltre a ciò che egli è stato finora, non in vista di un mero piacere o per puro arbitrio, ma unicamente in ragione (umwiillen) dell'essere». Il passaggio dall'esercizio della volontà di potenza come assoggettamento dell'ente che travolge ogni valore, alla comprensione responsabile dell'essere costituisce il compito dell'uomo all'estremo della metafisica, la sola possibilità di superamento autentico.  Ed è questo il luogo problematico della morte di Dio. Essa è l'alienazione dell'essere, come potremmo dire, in favore della volontà di potenza che crea valori per poterli poi distruggere  e riaffermare puramente se stessa. La morte di Dio è l'insediamento dell'uomo nel modo di essere della tecnica. «Dio, afferma Heidegger, non è ancora un dio vivente se continuiamo a cercare il modo in cui padroneggiare il reale, senza prima prendere sul serio e porre in questione la sua realtà effettiva (Wirklichkeit), senza pensare se l'uomo sia maturo per quell'essenza cui egli è assegnato a partire dall'essere, sicché possa sopportare questo destino mediante la sua essenza e non con l'ausilio ingannevole di meri espedienti». La volontà di potenza esige la morte di Dio affinché possa affermare se stessa; l'uomo esige il Dio vivente affinché possa corrispondere alla esigenza della propria autenticità. La riduzione ontologica del superuomo è l'apertura della morte di Dio alla possibilità di superare il nihilismo, è la suprema ambiguità storico-metafisica della fine, la quale può essere il nihilismo in cui si afferma la volontà di potenza, oppure la riconduzione dell'uomo al destino che parte dall'essere. Il Dio-morto della metafisica è così inteso come il Dio non-ancora-vivente.

Heiddegger approfondisce l'ambiguità. La metafisica prepara il luogo del divino mediante il vuoto creato dalla morte di "tutti gli dei", del dio dell'onto-teologia. «La posizione, egli dice, che pensata metafisicamente è propria di Dio, è il luogo dell'efficienza causativa e della conservazione dell'ente come creato. Questo luogo di Dio può restare vuoto». Il superuomo si insedia in altro luogo, quello della soggettività, e così lascia libero il vuoto per Dio. In tal modo la volontà di potenza si assimila la morte di Dio la quale incombe sulla soggettività ristabilita come l'essere-per-la-fine che domina e destina l'età moderna. «Con l'inizio della lotta per il dominio della terra, l'epoca della soggettività è spinta verso il suo compimento», sentenzia Heidegger. La soggettività ha in sé essenza di fine che la morte di Dio pone in atto. Infatti «quando l'essere dell'ente è bollato siccome il valore e la sua essenza è sottoposta a tale sigillo, allora all'interno di questa metafisica, cioè della verità dell'ente come tale durante quest'epoca, è smarrita ogni di accesso all'esperienza dell'essere stesso». La "verità" della filosofia dei valori è l'occultamento dell'essere; ma che è allora la morte di Dio, in cui si assommano e rappresentano tutti i valori, se non la disposizione iniziale a quella "esperienza dell'essere", a partire dalla quale soltanto potrà aver senso l'incontro con il divino?

La stessa cosa accade quando, addirittura, Dio sesso è innalzato a valore supremo. Nel momento stesso in cui si tocca la vetta più alta del sovrasensibile, si uccide Dio. «L'ultimo colpo contro Dio, scrive Heidegger, e contro il mondo sovrasensibile sta nel fatto che Dio, l'ente dell'ente, viene degradato a valore supremo» cioè dalla metafisica teologica. In tal modo Dio assume una realtà ambigua; da un canto è il limite estremo della assiologia, dall'altro canto è il naufragio dell'assiologia medesima. Si può dire allora che "Dio" non è un termine per designare il sovrasensibile assiologico ma il punto di maturazione in cui la metafisica si inverte nel proprio Unwesen, si "nihilizza". (…)

La morte di Dio non è un "modo di dire", ma l'evento in cui consiste la metafisica e, tramite essa, la storia. Dio è morto, nella rappresentazione nietzschiana, perché gli uomini l'hanno ucciso. Che vuol dire questa uccisione? Per Heidegger tre cose: dopo aver riposto l'essere dell'ente nel sovrasensibile, gli uomini sopprimono il sovrasensibile e fanno naufragare l'ente stesso; questa soppressione fa essere "altro" l'ente, ossia lo snatura in un utilizzabile, ma per ciò stesso l'uomo tradisce la sua destinazione originaria e "si aliena" erigendosi a soggetto che lascia all'ente la sola essenza di "oggetto"; l'autoalienazione dell'uomo ha luogo sotto il dominio della volontà di potenza, che esige un mondo di oggettività sicura e rassicurante. In sintesi: «La posizione di valori ha sottoposto a sé ogni ente, trasformandone il suo esser-per-sé, uccidendolo. Quest'ultimo colpo alla morte di Dio è inferto dalla metafisica che come metafisica e la volontà di potenza porta a compimento il pensiero nel senso di un pensare-valori».

L'uccisione di Dio avviene proprio nella «uccisione dell'ente in quanto ente». La fuga metafisica dal mondo la perdita del senso di creaturalità, l'incapacità d vedere nelle cose la "benedizione" divina, la mancanza di "amore "eccetera, come si può dire usando linguaggi diversi, è proprio ciò che caratterizza la metafisica come celebrazione della morte inespressa di Dio, occultamento di Dio mediante l'occultamento dell'essere nel valore. Le possibilità "teologiche" del pensiero heideggeriano sono così connesse alla sua riabilitazione "poetica" del dingen, del mondo come Quadrato, dell'ente come Ge-stell pensato nel suo fondamento e in ciò che vi si connette nei diversi tentativi heideggeriani da noi già esaminati.

Nei valori intemporali e astorici, nella loro Machtanspruch sull'essere, nella riduzione assiologica ciò che viene dimenticato è l'ente come ente ed in questa dimenticanza operata dalla metafisica si compie assieme la Seinsvergessenheit e la morte di Dio. La metafisica è nihilismo naufragio della sua "verità", poiché essa non tende ad altro che a catturare l'essere dell'ente mentre non ha altro esito che il totale sacrificio dell'ente. Il mondo in cui viviamo è quindi solo in apparenza dominato all'imporsi delle "cose", dal "materialismo"; in verità nel circuito del predominio tecnico ciò che cade per noi nella più completa indifferenza è la cosalità della cosa. L'essere-per-la-fine, tale naufragio come la Croce dell'essere, è l'essenza metafisica della storia e del nostro destino di uomini occidentali, votati al "tramonto". Il valore è l'ostacolo assoluto all'avvento dell'essere. Prova ne è che Nietzsche, restaurando il valore supremo al di sopra dei valori distrutti, non ha mai l'esperienza dell'essere.

Se usiamo ora l'espressione "contesto teologico" per indicare la riflessione heideggeriana sulla "nietzschiana" morte di Dio e teniamo conto della insostituibilità dell'idea di Dio in tale contesto, potremo allora affermare che il mancato senso dell'essere trova proprio e solo nel contesto teologico la condizione del suo sbloccarsi e riproporsi con una "positività" che soltanto la fenomenologia heideggeriana della "cosa" e della storia rendono originariamente possibile. Qui il nihilismo non appare più come un accidente estraneo alla metafisica, né come il suo mero esaurimento, ma come la morte di Dio sotto la forma del necessario occultamento dell'essere, perpetrato dalla metafisica che aliena assieme essere ed ente nei valori intemporali. «La metafisica, ribadisce Heidegger, è nihilismo nella sua essenza»; la sua "verità" appartiene alla storia dell'essere che «si sottrae ritraendosi nella propria verità… In questo nascondente custodimento della propria essenza da parte dell'essere s intravede forse l'essenza del mistero in cui presenzia la verità dell'essere». Perciò la "verità" della metafisica è il suo «superamento» nella comprensione fondamentale di essa come «epoca della storia dell'essere».

La riduzione ontologica assume a questo unto un senso profetico. Il futuro che qui si apre è quello della ricerca di Dio che vive nella esclamazione dell'uomo folle rappresentato nel n. 125 della nietzschiana gaia scienza, il futuro in cui si attuerà la autentica comprensione non riduttiva del nihilismo. L'uomo folle invoca Dio gridando; «il grido, conclude Heidegger, continuerà a non essere udito finché non si comincerà a pensare. Il pensare inizia solo quando noi abbiamo esperito che la ragione glorificata da secoli è la più ostinata nemica del pensare».

 

Ci scusiamo per la lunghezza della citazione, ma era necessaria affinché non andasse perduto, a causa dell'omissione di qualche passaggio, il senso complessivo della meditazione heideggeriana sul pensiero della fine e sulla morte di Dio, sviluppata nel saggio intitolato La sentenza di Nietzsche «Dio è morto» e sintetizzata nella pregevole esposizione di Filippo Costa. Altrettanto  necessarie erano le frequenti citazioni dal testo di Heidegger, sia per seguire la concatenazione della riflessione del filosofo a partire dalla nietzschiana morte di Dio, sia per dare un'idea, a coloro che non abbiano esperienza diretta della lettura dei testi di questo importante pensatore del Novecento, del suo particolare modo di argomentare, fatto in parte di una logica stringente e quasi esasperata, in parte di bruschi lampeggiamenti intuitivi e di voli poetici.

Non ci è ora possibile, d'altra parte, analizzare l'intera sequenza della esposizione di Filippo Costa, trattandosi di una autentica miniera di spunti che, se affrontata nella sua interezza, richiederebbe u testo forse altrettanto corposo (circa 450 pagine) di quello dell'autore, Heidegger e la teologia. Pertanto ci limiteremo a concentrare la nostra attenzione su pochi passaggi chiave, a nostro parere essenziali per una comprensione della problematica complessiva qui affrontata e per le significative implicazioni di essa quanto al nostro "destino" (per usare un'espressione cara ad Heidegger, e ancor più a Severino, ma, forse, non troppo filosofica nel senso rigoroso della parola).

Nei Sentieri interrotti, rielaborando i testi delle lezioni da lui tenute all'Università di Friburgo poco prima e poco dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale, Heidegger si pone il problema ermeneutico di chiarire lo «stadio finale della metafisica», stadio in cui il soprasensibile si presenta come l'inconsistente prodotto del sensibile; ciò che è in relazione diretta con quella che egli chiama «l'essenza del nichilismo».

Ora, abbiamo visto che la sentenza nietzschiana sulla morte di Dio non fa che esprimere, mediante il "rovesciamento" di tutti i valori, un rovesciamento della metafisica, perché svela il carattere nichilistico della risposta metafisica alla domanda sull'Essere. Il che ci fa capire perché, per Heidegger, la "salvezza", ossia la riscoperta del sacro, possa venire in primo luogo non dai filosofi, ma dai poeti: nella poesia, infatti, viene obliata la differenza tra essere ed ente e si fa l'esperienza dell'esser-presente, cioè l'esperienza dell'Essere, mediante un discorso che è sempre «per via», mai rigidamente definito e concluso.

Ricordiamo che, per Heidegger, l'Essere non corrisponde né al concetto aristotelico del Motore Immobile divino, intelletto puro e perfetto in se stesso, né a quello del Dio cristiano che, dopo aver creato il mondo, lo governa mediante la provvidenza e lo redime dal male e dal peccato; e neppure a quello della Sostanza di Spinoza o dello Spirito Assoluto di Hegel. L'Essere, per lui,

 

«è radicalmente legato al nulla e ha un destino, una storia connessa alla "differenza ontologica", ossia alla differenza ineliminabile tra l'Essere e gli enti (le cose finite e transeunti), continuamente minacciati di annientamento e quindi condizionati dall'unità originaria di Essere e nulla» (V. Verra, in: Adorno-Gregory-Verra, Storia della filosofia, Laterza, Bari, 1985, vol. 3, p. 487).

 

Molto acuta ci sembra l'osservazione di Heidegger, secondo il quale se la tecnica è il punto culminante del nichilismo della metafisica, non bisogna però fermarsi alla superficie delle cose e giudicare il "materialismo" dell'Occidente come una vera e propria esaltazione della materia. Il materialismo moderno, infatti, dice Heidegger, non esalta affatto la cosalità della cosa, ma, al contrario, «nel circuito del predominio tecnico ciò che cade per noi nella più completa indifferenza è  [appunto] la cosalità della cosa».

Verissimo: le cose che noi adoriamo, che produciamo, vendiamo e comperiamo senza fine, in una spirale nevrotica e fine a se stessa, non sono le cose in sé, le cose in quanto cose, gli enti in quanto enti. No: noi siamo ossessionati dal desiderio delle cose e degli enti; noi inseguiamo il possesso delle cose, perché inseguiamo l'immagine (fantastica) di dominio che le cose recano con sé, ossia una sorta di alone metafisico delle cose stesse. Tanto è vero che noi non godiamo delle cose, ma dell'idea che di esse ci siamo fatti: e la moda ne è un tipico esempio. Nel mondo della tecnica, ad aver valore non sono gli oggetti, ma l'immagine simbolica che essi recano indissolubilmente; e, se tale immagine simbolica viene meno, l'oggetto tanto agognato e inseguito perde di colpo, ai nostri occhi, ogni bellezza e ogni appetibilità.

Questo atteggiamento mentale va di pari passo, per Heidegger, con la volontà di dominio che è propria del pensiero nella sua fase "tecnica". La volontà di dominio sulle cose equivale a un oblio della loro coseità: come se la nostra rappresentazione del reale, basata su un'idea di dominio, si fosse sostituita alla realtà stessa, in quanto dato oggettivo. Scomparsa dell'oggetto e oblio dell'essere sono, dunque, le due facce di una stessa medaglia; e la realtà, per noi (da Kant in avanti) tende sempre più a coincidere con lo spazio del nostro pensiero, ad essere una mera rappresentazione che si sostituisce alla presenza dell'Essere.

Ed è verissimo quel che Heidegger dice della fede nella tecnica come fede nella volontà di dominio,  la quale non tende più ad alcun fine specifico, ma diviene fine a se stessa. Ne consegue che la tecnica non è, né non potrà mai essere qualche cosa di neutrale, suscettibile di essere usata per il bene o per il male; perché essa, al contrario, tende automaticamente a porsi come fine a se medesima e a sottomettere al proprio disegno egemonico la stessa volontà dell'uomo.

È in questo contesto che si può comprendere pienamente la critica di Heidegger a Nietzsche. Quest'ultimo ha criticato bensì il corso della civiltà occidentale e, in particolare, l'illusione razionalistica di potersi servire della tecnica per realizzare un dominio sul mondo in nome della libertà; ma, dopo aver smascherato e ripudiato tutti i valori, ne ha proclamato il puro e semplice "rovesciamento", ricadendo così, in pieno, nella metafisica. Prigioniero del concetto platonico di "valore", invece di distruggerlo, lo ha capovolto: e al posto dei vecchi valori, egli ne ha annunziati di nuovi. Così, l'impianto metafisico è rimasto intatto; e la stessa "volontà di potenza" propria del superuomo, che dovrebbe esprimere il mondo dei "valori nuovi", non è altro che l'ennesima maschera assunta dalla metafisica - e, perciò, dal nichilismo.

Nietzsche, quindi, non è stato abbastanza radicale: dopo essersi presentato come colui che intende emancipare gli uomini dalle vecchie tavole della legge, non ha potuto fare a meno di darne loro delle nuove.

Ripetiamo, a questo proposito, l'osservazione di Filippo Costa:

 

Il passaggio dall'esercizio della volontà di potenza come assoggettamento dell'ente che travolge ogni valore, alla comprensione responsabile dell'essere costituisce il compito dell'uomo all'estremo della metafisica, la sola possibilità di superamento autentico.

 

In questo passaggio, ci sembra, risiede uno dei pregi più significativi del pensare heideggeriano. La comprensione responsabile dell'essere si lega al concetto di verità (aletheia) come dis-velamento dell'essere; mentre, per il filosofo tedesco, sull'intera cultura occidentale è pesato, come un "destino", il concetto platonico  della verità come esattezza, ossia come un senso interno al giudizio o alla proposizione.

Ed è questo l'Heidegger che più ci piace, che sentiamo come un compagno di viaggio e come un "cavaliere errante" alla ricerca della verità: l'apertura verso l'Essere, la volontà di superare gli schemi chiusi della filosofia e il coraggioso (e doveroso) riconoscimento che «il pensare inizia solo quando noi abbiamo esperito che la ragione glorificata da secoli è la più ostinata nemica del pensare» stesso.