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Dateci la recessione, vi prego!

di Luca Conforti - 29/05/2008

Fonte: giornalettismo

 
I lavoratori e in generale alle classi medie occidentali conviene bere fino in fondo l’amaro calice di un rallentamento netto delle proprie economie. Solo questo potrebbe fermare la corsa del petrolio


L’alternativa che stiamo vivendo ora è più penalizzante e “regressiva” nel senso che si abbatte sui meno ricchi, attraverso l’inflazione (“la tassa più ingiusta” la chiamava Keynes). Il reddito reale si sta riducendo, distruggendo potere d’acquisto e capacità di risparmio, succede da noi, ma anche nei paesi emergenti, persino per gli esportatori di petrolio, come riporta l’Economist di questa settimana.

AIUTI DALLA FEDERAL RESERVE - Ma andiamo con ordine: tutti gli economisti sono d’accordo che dal punto di vista “reale” (produzione di merci, import-export, investimenti) gli Usa sarebbero in recessione da almeno sei mesi, ovvero avrebbero dovuto registrare una crescita negativa del Pil. Non è avvenuto grazie alla politica iperespansiva della Federal Reserve che ha abbassato il costo del denaro al fine di evitare il crollo del proprio sistema bancario esposto ai mutui subprime. La concessione di mutui a persone che difficilmente avrebbero potuto rimborsarli è stata a sua volta innescata da un altro periodo di denaro facile concesso per fronteggiare la crisi della New Economy. Insomma Greenspan come Bernanke hanno permesso al sistema finanziario di non pagare fino in fondo i propri errori e di spostare la “bolla” (una quantità di derivati che ingrossa i bilanci degli istituti di credito ma non ha basi sull’economia reali) dall’Hi Tech, agli immobili e ora alle materie prime. Funziona: nel senso che quel maledetto segno meno sul Pil gli Usa potrebbero evitarlo per tutto il 2008(1). A quale prezzo? O meglio a quali prezzi?

INFLAZIONE E FLESSIBILITÀ - È come nel film di Robert Zemeckis, “La morte ti fa bella” dove due attrici, per evitare di invecchiare, si sottopongono a dei trattamenti sempre più estremi fino a perdere del tutto l’umanità. Purtroppo il conto dello “stregone” lo paghiamo anche noi: l’inevitabile crollo del dollaro, causato dall’effetto combinato di tassi troppo bassi e rallentamenti economici, ha innescato la corsa del petrolio, dando alla quantità di denaro in fuga dalle borse e dell’immobiliare una chiara indicazione di dove si possono fare guadagni sicuri. Dall’oro nero si è poi passati alle altre materie prime, rame, acciaio, e infine i cereali. Risultato i tassi d’inflazione di tutto il mondo si sono messi a correre. Fino agli anni ‘90 quando ad un periodo di crescita economica seguiva un aumento dell’inflazione si parlava di “surriscaldamento”. Le banche centrali rispondevano alzando il costo del denaro accettando un rallentamento economico, dopo era il tasso di disoccupazione a diventare prioritario, superata la soglia “socialmente accettabile” dei senza lavoro si tornava ad allentare le briglie della moneta.
Un meccanismo che appare vecchio da vent’anni, cioè da quando i guru della New economy teorizzarono che il ciclo espansione/recessione poteva essere battuto evitando il surriscaldamento. Alla fine del millennio era la tecnologia a garantire l’aumento continuo della produttività, ora è la flessibilità della globalizzazione a permettere di tenere bassi i costi e quindi i prezzi. Entrambi fenomeni, per quanto positivi, stanno fallendo le promesse “millenaristiche”. Il sasso nell’ingranaggio sono le materie prime: se lavoro e capitale oramai hanno raggiunto una flessibilità globale, il terzo fattore della produzione dell’analisi classica, le materie prime appunto, si sta rivelando molto più rigidi sia per motivi reali (scarsità e limiti tecnologici) e politici (si pensi alla geopolitica).

RIPERCUSSIONI NEL MONDO - Così l’inflazione è tornata dimostrando che non c’è nessuno che si possa ritenere al sicuro. Fortissime le difficoltà di chi è povero e non ha materie prime, come l’Africa e in misura minore l’America Latina (persino il Venezuela, felice della corsa del petrolio paga con il 29% di inflazione annua). Ma anche la Cina che tiene al sua moneta forzatamente svalutata, sta pagando secondo uno studio della Banca mondiale (vedi Working paper n. 4620 e 4621)a parità di potere d’acquisto l’economia asiatica è più piccola del 40% rispetto alla crescita nominale. Una discrepanza così grande mette in dubbio sia che il tasso d’inflazione ufficiale sia veritiero, sia che il tenore di vita dei cinesi stia continuando a crescere. Naturalmente più che un problema di qualità statistica, rientrano in gioco i dubbi di sempre sulla libertà e la bontà di uno sviluppo economico diretto da una dittatura. Non vincono nemmeno i paesi arabi, che stanno ora pagando in termini d’inflazione importata la corsa del loro petrolio. Sia chiaro, per gli sceicchi i margini rimangono enormi, ma per le economie locali, almeno un terzo degli extraguadagni se ne vanno per comprare prodotti europei, giapponesi e americani. Non sempre il barile potrà tenere il passo di un’inflazione pari al 15-20% annuo che si registra nell’area del golfo persico.

MALE NECESSARIO - Il rischio è quello dunque di una spirale: l’inflazione nei paesi emergenti aumenta l’instabilità mondiale e il prezzo delle materie prime. Nei paesi ricchi invece colpisce chi spende la maggior pare del proprio reddito per energia e alimentari (+21% e +16% la corsa in Europa dei prezzi in questi settori), vale a dire le classi medio basse. Le imprese e i ricchi hanno naturalmente più armi per rispondere (armi che contribuiscono ad alzare i prezzi), ma l’effetto macroeconimico complessivo è la distruzione della capacità di risparmio e, visti i tassi d’interesse reale negativi, erosione del patrimonio. Insomma un impoverimento strisciante, ma costante. L’alternativa sarebbe appunto una recessione vera a cominciare dagli Usa. Banche e imprese in crisi, fallimenti e fusioni dei più esposti e gli inevitabili tagli al personale. Un calo del pil usa avrebbe effetti sulla Cina e l’Europa con recessioni altrettanto dure e probabile aumento dei disoccupati. Rimane un prezzo preferibile con diversi possibili risvolti positivi. La Cina sarebbe costretta a puntare più sul suo mercato interno visto che l’avanzata delle proprie merci supera le capacità di assorbimento dell’Occidente. E soprattutto solo la recessione vera e certificata potrebbe fermare la corsa del petrolio.

(1) Funziona talmente bene che negli Usa è in corso un dibattito tra il dipartimento del commercio, depositario delle statistiche economiche ufficiali, e diversi think thank economici per cambiare la definizione classica di recessione (due trimestri consecutivi di pil negativo) per evitare il paradosso che il rallentamento del 2008 non appaia nelle serie storiche come un anno di recessione.