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Pennac e il diritto di non leggere

di Simone Migliorato - 29/05/2008

 

 

Mi sono innamorato di Daniel Pennac all’università. Prima di questo incontro fortuito guardavo i suoi libri in biblioteca che erano piccoli e in edizioni tascabili, e con il solito disgusto di chi si sente un grande intellettuale, dicevo che era meglio confrontarmi con il mattone di Céline (ancora non l’ho fatto!). Comunque tornando all’incontro era l’esame di lingua francese, e io che sono una sega in lingue avrei preferito non fare mai l’esame, ma obbligato, guardando nella bibliografia per sostenerlo scorsi “Comme un roman” proprio di Pennac. Ne rimasi sconvolto. Sconvolto da questo libro, tanto che mi sono imparato a memoria la pagina 72 dove si parla del poeta Georges Perros e del suo modo di insegnare: “Lui (Perros) arrivava il martedì mattina, con i capelli scompigliati dal vento e dal freddo, sulla suo moto azzurra arrugginita. Curvo, con addosso un cappotto da marinaio, e la pipa in bocca o in mano. Svuotava sulla cattedra una tracolla piena di libri. Ed era la vita”. Talmente sconvolto che contattai subito il mio ex professore di italiano, chiedendogli se lui aveva mai letto Pennac. Mi rispose che aveva dovuto smettere perché era stato colpito dalla “pennacchite”.
L’ultima fatica di Daniel Pennac, pseudonimo di Daniel Pennachioni, è “Diario di scuola” ed la storia autobiografica di un somaro, che si sente somaro e vive nel ghetto scolastico degli ultimi. Scolaro che poi ha insegnato per un quarto di secolo nelle banliue parigine (vivendoci anche), oltre a scrivere romanzi di grande successo. E’ un libro stranamente lungo per questo autore, che ci ha abituato a “una narrazione che gode senza vergogna delle gioie della lingua e del pensiero, che ama il sorriso ma non sente la necessità martellante della risata…un testo dove spesso la bocca e lo stomaco ridono, ma il cervello è al lavoro” (come è scritto nella postfazione di un suo libro in edizione italiana), che anche se non ha perso questa abitudine, distribuisce il tutto in 240 pagine di libro. Ma, anche se lungo e non continuo, è totalmente impregnato di una realtà vissuta. Mi è capitato di parlare con amici di quanto sia inutile il ruolo pedagogico che oggi ha la letteratura, e di quanto si sia persa la ricerca dello stile e del romanzo in sé, e questo libro di Pennac come quello citato in precedenza sono sicuramente pedagogici. Ma di una pedagogia vissuta e anche sofferta, senza troppi piagnistei. Se in “Come un romanzo” l’autore scrivendo una lista di dieci diritti del lettore, poneva come primo il diritto di non leggere, proprio a voler dire che la lettura non è un dogma e che non si è buone persone solo se si legge un libro, continua in “Diario di scuola” dicendo che era idiota il passato che considerava inutile leggere e che è appunto altrettanto idiota il presente che impone ai giovani la lettura ai libri, come rimedio allo sfracello della scuola e degli studenti. Ed è in questo sfracello che l’autore si inserisce, parlando prima della sua vita da studente, che ha visto anni ripetuti, colleggio e addirittura un anno di sforzi per imparare a 6 anni la lettera A. Parlando della sua vita da studente parla anche dei suoi professori: i più odiati e più derisi erano proprio quelli che dicevano “io non ci posso fare niente con questi qui!”, poiché non capivano che lo scontro con gli studenti è uno scontro tra sapere e non sapere, e che anche un professore anni addietro era colui che non sapeva (chi di noi non ci ha messo un anno per imparare una cosa?). Odia Pennac anche i programmi dove definiscono le banlieu fucine di delinquenti e di disoccupazione, poiché questa società di “Nonna Marketing” dimentica che è proprio questa identificazione a rendere impossibile il cambiamento dei somari. E continuando a parlare di professori, quelli che lo hanno salvato erano coloro che amavano la loro materia, che in quell’ora di lezione parlavano con amore solo della materia, e non si rassegnavano al ruolo auto-imposto alla nullafacenza per i somari. Questi professori proprio come il Perros dell’altro libro, non sono i professori amiconi del bar, ma sono coloro che non si bloccano al non-sapere, sono coloro che non si rassegano alla ricetta della gioventù allo sbaraglio (quale gioventù non lo è stata, per fortuna?)
E alla fine del libro, proprio continuando il suo attacco alla demagogia, Pennac dice la parola che “parlando di istruzione, ti linciano”: amore. Cita questa parola che è traboccante oggi in tutte le salse e in tutte le forme, ma che solo in termini di istruzione non viene mai nominata, poiché è sostituita dai registri, dalle valutazione, dal profitto, e dalla sensazione di non farcela mai. Amore che non significa una scuola a piedi scalzi, ma che significa amore per ciò che si insegna, e appunto la prospettiva che ogni studente possa farcela. Mi ricordo sempre il mio professore di italiano che parlava del fallimento di uno studente come del fallimento della scuola. E Pennac non nega che qualcuno si è perso, e non nega che se gli ex studenti non li riconoscessero per strada lui non si ricorderebbe nemmeno, non nega che tornato a casa il professore ha la sua vita e non solo i suoi studenti. Ma non gli si può negare che nella pagine di questo libro ci sia un non-ricetta ottima, per i malanni ormai divenuti ossessivi nella scuola. E almeno anche se non serve a niente, sai che bello avere tanti professori che ti fanno imparare le pagine di Kafka per poi fare sfida di memoria tra studenti. Avremmo perso il gusto di leggerlo da soli, e dire “Alla faccia dei programmi!” ma almeno avremmo iniziato prima!